venerdì 30 marzo 2018

Perché la Commissione sul Def non è “speciale” ma molto utile in Formiche 30 marzo


Perché la Commissione sul Def non è “speciale” ma molto utile
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Perché la Commissione sul Def non è “speciale” ma molto utile
Nell’organismo parlamentare può emergere l’indicazione della nuova maggioranza a favore del taglio delle tasse e del sostegno ai più poveri
In Senato è stata istituita una Commissione “speciale” con il compito di esaminare i decreti legislativi pendenti, come ad esempio quello sull’ordinamento penitenziario, e il Documento di economia e finanza (Def) una volta licenziato dal Governo Gentiloni. Una Commissione analoga verrà verosimilmente istituita alla Camera dei Deputati. L’insediamento dovrebbe avvenire mercoledì 4 aprile. Di “speciale” le due Commissioni hanno poco perché è normale prassi parlamentare che all’inizio di una nuova legislatura, il Parlamento valuti le priorità dei decreti legislativi pendenti. Quest’anno, c’è il nodo del Def che, secondo il programma del “semestre europeo”, dovrebbe essere presentato in Parlamento entro il 10 aprile ed inviato all’Unione Europea entro la fine del mese, dopo vaglio (ed un’apposita risoluzione) del Parlamento entro il 30 aprile. Numerosi decreti legislativi non hanno completato il loro iter parlamentare – specialmente importante quello sulle carceri – ed occorre stabile una priorità.
Il Def è considerato il principale strumento della programmazione economico-finanziaria e indica la strategia economica e di finanza pubblica nel medio termine. Si compone di tre sezioni: a) programma di stabilità, con gli obiettivi da conseguire per accelerare la riduzione del debito pubblico; b) analisi e tendenze della finanza pubblica, con l’analisi del conto economico e del conto di cassa nell’anno precedente, le previsioni tendenziali del saldo di cassa del settore statale e le indicazioni sulle coperture; c) programma nazionale di riforma (Pnr), con l’indicazione dello stato di avanzamento delle riforme avviate, degli squilibri macroeconomici nazionali e dei fattori di natura macroeconomica che incidono sulla competitività, le priorità del Paese e le principali riforme da attuare.
Attenzione, né la decisione del Consiglio europeo del settembre 2010, né la legge italiana dell’aprile successivo prevedono sanzioni in caso non si osservi il calendario indicato. È un documento carico di significato politico. Dato che la maggioranza politica e parlamentare è drasticamente cambiata , ha probabilmente idee differenti dei Governi Renzi e Gentiloni in materia di strategia economica. Dato che ancora un nuovo Esecutivo non si è formata, e le prospettive sono di trattative lunghe e non facili, il compito delle Commissioni “speciali” in materia di DEF è molto delicato.
Il ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, ha, in un primo momento, affermato che avrebbe rimesso la preparazione del Def al Governo che si sarebbe formato nelle prossime settimane. Tuttavia, da Bruxelles, dov’era per una sessione del Consiglio dei ministri economici e finanziari, ha dichiarato che avrebbe presentato nei termini l’analisi del conto economico e del conto di cassa nel 2017, le previsioni tendenziali del saldo di cassa del settore statale e le indicazioni sulle coperture. Ossia la seconda parte del documento. Ciò allo scopo di documentare che il Governo Gentiloni ha lasciato i conti in ordine. Le parti di strategia di politica economica sarebbero state compito del prossimo esecutivo. Nel rispetto del’garbo istituzionale”.
Se le Presidenze delle Camere ricevono un documento (anche se è solamente un DEF incompleto), correttezza vuole che venga inviato alle Commissioni parlamentari ed alle Assemblee per la discussione e la formulazione, se i parlamentari ritengono, di un’apposita risoluzione. Tale risoluzione potrebbe essere non di “approvazione” o “rigetto”, ma di indicazioni sostanziali sulle parti mancanti (programma di stabilità, programma nazionale di riforma). Il documento non potrebbe non essere inviato a Bruxelles a corredo della parte già spedita. Ne risulterebbe un vero e proprio caos specialmente se (come da aspettarsi) la “risoluzione” fornirà indicazioni di politiche e di misure opposte a quelle dei Governi Renzi e Gentiloni. Buon senso vorrebbe che – come suggeriscono alti funzionari del Ministero dell’Economia e delle Finanze – di non presentare un bel nulla in modo che il sia il prossimo Governo a presentare il DEF. Tanto più che ai fini della legge di bilancio, il documento che conta è l’aggiornamento del DEF che si presenta in settembre.
Le Commissioni, tuttavia, possono essere molto utili perché le varie componenti della maggioranza giungano ad un intesa su quali “tax expenditures” abolire o ridurre allo scopo di poter alleggerire il carico fiscale (pure al fine di un”eventuale flat tax) ed ampliare il supporto ai poveri (le varie forme di sostegno del reddito). Ciò potrebbe essere un contributo importante ad un programma di governo. Si parla di contrazioni di tax expenditures per dieci miliardi di euro. Con un’attenta analisi costi benefici e costi efficacia si arriverebbe facilmente a venti.

TRASFORMISMO TRA GRAND OPÉRA PADANO E VERISMO In Nuova Antologia gennaio-aprile


TRASFORMISMO TRA GRAND OPÉRA PADANO E VERISMO
Giuseppe Pennisi
Premessa
Nella XVII legislatura ci sono stati 566 cambi di gruppo parlamentare, portati a termine da 347 parlamentari, il 35,53% degli eletti. Montecitorio ha totalizzato 313 cambi di gruppo, con 207 deputati coinvolti, il 32,86% del totale. A Palazzo Madama, invece, gli spostamenti sono stati 253, con 140 senatori transfughi (il 43,57%). Nella legislatura, ci sono stati 9,58 cambi al mese. Rispetto allo scorso quinquennio (2008-2013), la media è più che raddoppiata: nella XVI legislatura i cambi di casacca al mese erano infatti 4,5. Un parlamentare ha cambiato dieci volte il gruppo di appartenenza, ossia due l’anno.
Si sta tornando al «trasformismo» che caratterizzò, per un non breve periodo, i Governi e la vita parlamentare della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento, sino alle soglie della Prima Guerra Mondiale? Forse sì, anche a ragione della frammentazione di partiti e movimenti e della legge elettorale. Agostino Depretis, il cui nome è quello più frequentemente associato al fenomeno del «trasformismo», lo teorizzò e ne decantò quelli che riteneva fossero i suoi pregi: Mentre si era soliti dire che il Governo rappresentava un partito, noi intendiamo governare nell’interesse di tutti ed accetteremo l’appoggio di tutti gli uomini onesti e leali, a qualsiasi gruppo appartengano. Ed ancora: Io spero che le mie parole potranno facilitare quella concordia, quella feconda trasformazione delle parti liberali della Camera (allora era l’unico ramo del Parlamento a votare la fiducia al Governo – n.d.r.) che varranno a costituire quella tanto invocata salda maggioranza, la quale ai nomi storici tante volte abusati e forse improvvidamente scelti dalla topografia della Camera, sostituisce per proprio segnacolo un’idea comprensiva, vecchia come il mondo, come il moto, ma sempre nuova: il progresso.
Basta conoscere un po’ di storia del periodo, o leggere qualche romanzo parlamentare dell’epoca (ad esempio, L’Imperio di Federico De Roberto), per sapere che gli intenti del «trasformismo» non erano sempre così nobili e che l’epoca fu costellata di scandali (il maggiore fu quello della Banca Romana).
Quasi in parallelo negli anni in cui alla Destra Storica succedevano prima la Sinistra e, poi, il «trasformismo», il teatro in musica italiano subiva una profonda trasformazione. Il melodramma verdiano, dopo decenni di successi, aveva esaurito il proprio compito e si era alla ricerca di nuove strade, guardando anche all’evoluzione all’estero, principalmente della Francia (il grand opéra) e della Germania (la rivoluzione wagneriana ed il musik drama). Come in altri Paesi si cercavano vie nazionali che non fossero mere imitazioni delle esperienza estere. Proprio dal periodo in cui in politica prendeva piede il «trasformismo» sino alla Prima Guerra Mondiale (ed in parte ai suoi postumi, incluso il Fascismo), la ricerca non fu lineare ma si andò in numerosi rivoli, molti dei quali di successo effimero, anche se, all’epoca, i loro titoli ebbero un riscontro di critica e di pubblico molto maggiore delle opere verdiane (ancora in repertorio). Molti di questi titoli furono destinati a sparire dai cartelloni nel giro di pochi lustri.
Dei vari filoni due emersero come i principali: quello che definirei il grand opéra padano ed il verismo. Tali filoni iniziati negli ultimi lustri dell’Ottocento entrarono nel Novecento ed alcuni titoli (invero non moltissimi) restarono per sempre nei repertori. Altri resistettero sino a dopo la Seconda Guerra Mondiale ed attirarono pubblico ed attenzione della critica sino alla fine degli Anni Settanta-Ottanta del secolo scorso per riapparire in queste ultime stagioni, proprio mentre in politica si accentua il «trasformismo», come documentato nell’inizio di questo articolo. Ad esempio, il binomio Cavalleria Rusticana-Pagliacci (peraltro mai uscito dai repertori pur se pareva confinato ai teatri minori ed alle stagioni estive) riappare in nuovi allestimenti in teatri maggiori che offrono anche nuove produzioni di Andrea Chénier e di La Cene delle Beffe di Umberto Giordano che sembravano spariti dalle programmazioni; si rivedono anche Il Domino Nero e Cleopatra di Lauro Rossi che parevano consegnate ai libri di storia della musica. Il Festival di Autunno 2017 a Ravenna, è stato interamente dedicato al verismo. Inoltre, l’opera contemporanea italiana, quando non è sperimentale, si ricollega sia al verismo sia al grand opéra padano.
E’ a questo gruppo di lavori che voglio rivolgere l’attenzione poiché mi chiedo se non ci sia un’affinità con il «trasformismo» degli anni di Depetris ed altri.
In questo articolo, dopo un cenno al grand opéra padano, tratterò principalmente di autori ed opere veriste tornate in questi anni sui palcoscenici dopo un periodo in cui erano sembrate scomparse per sempre. Non vengono incluse le opere di Puccini, autore trattato di recente su La Nuova Antologia (Vol. 613, Fasc.2272, Ottobre-Dicembre 2014) sia soprattutto perché la sua statura è tale da non poterlo ingabbiare in uno stile specifico. Non viene neanche incluso Mefistofele di Arrigo Boito, sia perché già trattato (La Nuova Antologia, Vol.608, Fasc.2261, Gennaio-Marzo 2012) sia per l’unicità di questo lavoro, al di fuori di ogni schema e stilema, anche se Boito era partito con l’idea di farne un’opera wagneriana all’italiana.
Il grand opéra padano
Il grand opéra padano precede il verismo e quasi accompagna la prima fase del «trasformismo». In cosa consiste il genere (che ebbe notevole successo per circa tre lustri)? Si era in uno dei rari periodi in cui la «musa bizzarra ed altera» (ossia la lirica) era, in Italia, puramente commerciale. Ciò comportava guerre tra editori (e tra teatri) alla ricerca di nuovi talenti e di nuove strade che attirassero un pubblico sempre più appartenente alla nuova borghesia dell’industria e dei commerci - nonché della nascente e balbettante finanza - non all’aristocrazia grande e piccola, con i ceti a basso reddito confinati nei loggioni (che, come si fa ancora oggi al Teatro alla Scala, entravano in teatro da porte separate da quella per il pubblico della platea e dei palchi).
Nella Padania (ossia tra Torino e Bologna avendo come punto di riferimento i teatri La Scala e Dal Verme di Milano) nacque un genere che mutuava elementi dal grand opéra francese (allora ormai superato anche Oltralpe) e dal wagnerismo (che dopo la prima italiana del Lohengrin nella città felsinea influiva pure sui compositori che vi si opponevano). La letteratura sul genere è stringata: un saggio fondamentale di Guido Salvetti (alla fine degli Anni Settanta del secolo scorso) e lavori più recenti di Giancarlo Landini e di Antonio Caroccia. Secondo Fedele D’Amico, il genere durò appena una dozzina d’anni, e riguardò essenzialmente l’area tra Bologna e Milano; ora gran parte dei suoi autori (Franchetti, Rossi) non si rappresentano quasi più.
Il grand opéra padano aveva alcune sue caratteristiche: intrecci complicati in terre lontane con tradimenti di ogni sorta (vediamo alcuni titoli: I Lituani di Amilcare Ponchielli, Guarany di Carlos Gomez, Ruy Blas di Filippo Marchetti, I Goti di Stefano Gobatti, tutti di enorme successo sia di pubblico sia di critica alla fine dell’Ottocento) che consentivano di coniugare ballo con canto e davano la stura a «effetti speciali» (incendi, battaglie, crolli); si completava il superamento nei «numeri chiusi» privilegiando tableau con sinfonismo continuo. A questi due elementi – il primo d’origine francese, il secondo d’ispirazione wagneriana – si aggiungeva il perbenismo di un’Italia in via di diventare umbertina ed in cui la borghesia padana aveva la consapevolezza di responsabilità e doveri speciali nell’amalgamare le culture degli «statarelli» su cui si costruivano le ambizioni di un nuovo Stato proteso ad entrare nel novero delle Grandi Potenze (per utilizzare il lessico dell’epoca). A questo pubblico si addicevano spettacoli magniloquenti, densi di concertati, cori e balletti, e con allusioni vagamente anti-clericali (come si addiceva all’Italia post-unitaria in cui erano ancora irrisolta la «questione Romana» ed il «non expedit» papale che vietava ai cattolici di partecipare alla politica del Regno d’Italia).
Il grand opéra padano aveva due limiti importanti; a) nell’incorporare elementi francesi, non aveva i mezzi finanziari e tecnologici per competere con i modelli d’Oltralpe (anche perché in Italia i teatri erano condominii privati di palchettisti mentre in Francia, almeno i maggiori, erano statali); b) nell’incorporare elementi wagneriani, in Italia mancava la cultura sinfonica e strumentale della Germania.
Di questo genere è rimasta sempre in repertorio, ed in tutto il mondo, La Gioconda di Amilcare Ponchielli. Sembrava sparito, almeno dai circuiti maggiori, Andrea Chénier di Umberto Giordano (che alcuni considerano un’opera verista) ma nel 2017 l’Opera di Roma ne ha proposto un nuovo allestimento ed il 7 dicembre il Teatro alla Scala la ha scelta come titolo inaugurale della stagione 2017-2018. Altri titoli ritornano. E piacciono.
Prima di trattare La Gioconda e le ragioni del suo imperituro successo ed il redivivo Andrea Chénier, mi sembra utile fare riferimento al compositore marchigiano, ma trapiantato a Milano, Lauro Rossi (a cui è intitolato il Teatro di Macerata) e di cui si sono rivisti due lavori Il Domino Nero nel 2001 a Jesi e Cleopatra a Macerata nel 2008, due opere tipiche del genere.
Il Domino Nero fece scalpore in quanto metteva in scena un vero e proprio bordello (con tanto di maîtresse e signorine discinte) giustapponendolo, in aggiunta, ad un convento. Inoltre, i frequentatori della casa di tolleranza del secondo atto erano tutti gli uomini visti, nel primo, in un ballo (la sera stessa) a Palazzo Reale. Erano temi e luoghi scabrosi per un’epoca in cui nel teatro lirico italiano l’eros non appariva più: era finito con il rossiniano Le Comte Ory e si sarebbe dovuto aspettare sino alla pucciniana Manon Lescaut, passando per il duetto carnale del secondo atto del verdiano Un Ballo in Maschera. Nel frattempo, in Germania Wagner indugiava in orgasmi in scena di 45 minuti ciascuno (secondo atto del Tristan und Isolde e terzo del Sigfried) e rappresentava pure un lungo e complesso coito interrotto (secondo atto del Parsifal).
Il Domino Nero ruota sulla vicenda di una fanciulla costretta al chiostro, mentre, invece, vorrebbe un giovane marito ed ama le feste ed i balli; dopo peripezie ed equivoci (anche un soggiorno in un bordello), tutto si sistema grazie all’intervento di una Regina tanto provvida quanto generosa. Lo spartito, pur con tutti gli stilemi del grand opéra padano, ricorda anche la zarzuela spagnola (appresa da Rossi in Messico e Cuba dove fece lunghi soggiorni).
Cleopatra di Lauro Rossi vista ed ascoltata nella deliziosa sala dei Bibiena (un teatrino di 400 posti con tre ordini di palchi ed un loggione, incardinato nel Palazzo di Città di Macerata) ha tutte le caratteristiche del grand opéra padano. Il regista (Pier Luigi Pizzi) le ha evidenziate con cura nonostante l’esiguità dello spazio (l’opera era stata concepita per il Regio di Torino ed il San Carlo di Napoli). Interessante lo sviluppo drammaturgico (tratto dalla tragedia di Shakespeare, allora di repertorio in versioni molto tagliate): Cleopatra non è la donna vampiro del mito ma un’amante abbandonata che va a Roma a fare una scenata al suo Marc’Antonio in procinto di concludere un matrimonio d’interessi (politici). Sembra di essere a Piazza Barberini (od anche a Piazza Mastai) nonostante le scene in bianco e nero ed i costumi (in cui al bianco e nero si aggiungono il rosso ed il giallo oro) tratteggino l’Egitto alessandrino e la Roma sulla via di diventare Impero. Per il buon Marco D’Arenzio (autore del libretto) e per Lauro Rossi, però, il mondo di riferimento è quello di Come le foglie e Tristi amori di Giuseppe Giocosa. L’Egitto e Roma servono per le danze (al primo atto mentre il grand opéra francese le vietava prima del secondo) e come spunto per una partitura maestosa. La protagonista ha una vocalità Falcon a metà tra soprano drammatico e mezzo-soprano, è anche quella della borghese tradita ed inalberata. Travolto in Italia sia dal verismo sia dai tentativi di teatro in musica favolistica, Lauro Rossi ha avuto per diversi lustri successo nelle Americhe (dove ad esempio Gomez e Marchetti sono ancora  rappresentati abbastanza spesso).
Andiamo a Andrea Chénier di Umberto Giordano, tornato di recente – come si è detto - sia al Teatro dell’Opera di Roma sia al Teatro alla Scala, due «templi della lirica» da dove mancava da decenni (ne ricordo allestimenti tra il 1998 ed il 2006 a Bologna, Catania e Venezia oltre che nei teatri di tradizione dell’Emilia Romagna). Il lavoro è stato sovente maltrattato dalla critica, ma amato dal pubblico. Regge ancora nonostante la difficoltà di trovare voci (specialmente quelle tenorili) imperniate sul registro di centro (ma in grado di ascendere e svettare anche in tempi molto rapidi sia di discendere delicatamente) e la macchinosità di un libretto giustamente considerato polveroso.
Andrea Chénier è, innanzitutto, un’opera di voci. Ciascun dei tre protagonisti (un tenore drammatico spinto, un soprano lirico puro ed un baritono) ha almeno due arie o romanze che possono portare all’applauso a scena aperta e otto personaggi in ruoli minori, ma che hanno modo e maniera di farsi valere ed apprezzare. E’ anche opera di regia (per far rendere credibile il libretto) e di orchestra (di grandi dimensioni e tale da contenere anticipazioni (incluso il «chiacchierar cantando») che diventeranno fondamentali nel Novecento Storico.
E’ un esempio di dramma storico (anzi «istorico» seguendo la dizione della versione originale del libretto) che prende le distanze dal melodramma e si situa verso quella che sarebbe stata la caratteristica dei «drammi in musica»: una vicenda relativamente semplice (nel caso in questione una situazione imperniata su differenze di classe sociale) situata in un contesto storico (dall’inizio della rivoluzione francese ai momenti più oscuri del Terrore giacobino) trattato come un grande affresco e, quindi, popolato di figure minori ma ciascuna con una propria marcata personalità.
Andrea Chénier ritorna a richiesta di un pubblico che (come dicono le cronache cittadine di questi mesi) vuole law and order e detesta i giacobini. In Andrea Chénier si tesse l’elogio dell’aristocrazia (pronta a morire pur se innocente) e si condannano senza appello i giacobini (tra cui il parvenu Gérard diventato un taglia teste pur con il cuore buono ed il pentimento facile). La scrittura musicale e vocale ci mette del suo: ingrandisce tanto i «buoni» (gli aristocratici ed il poeta girondino) quanto i «cattivi» (i giacobini). Quando l’opera ebbe la prima alla Scala il 28 marzo 1896 ci fu chi vi lesse una critica nei confronti della Sinistra trasformista di Depretis ed il sogno del ritorno alla Destra Storica nobile e risorgimentale.
All’epoca del debutto, nessuno avrebbe scommesso che La Gioconda, un lavoro di Amilcare Ponchielli, a lungo modesto direttore di banda di Cremona e maestro di cappella a Bergamo, sarebbe rimasta nei repertori sino al XXI Secolo. Il buon e timido Ponchielli aveva messo in musica un’opera, peraltro modesta, tratta da I Promessi Sposi di Manzoni (anch’essa duratura: non si rappresenta più nei teatri lirici ma è nel repertorio del teatro di marionette dei Fratelli Colla a Milano, con la musica su nastri basata su rappresentazioni degli Anni Quaranta del secolo scorso). L’opera I Promessi Sposi ebbe un buon esito al Dal Verme e fece notare Ponchielli all’editore Ricordi. Dopo I Lituani, grande successo negli ultimi lustri dell’Ottocento ma ormai dimenticata, arrivò, su libretto di Arrigo Boito (che si nascondeva dietro lo pseudonimo di Tobia Gorro), La Gioconda. Il titolo non ha nulla a che vedere con il sorriso ambiguo del ritratto di Leonardo Da Vinci. E’ un grand-guignol tratto da un drammone di Victor Hugo, che si svolge nella Venezia di fine Cinquecento (da cui, peraltro, già Mercadante aveva tratto un’opera - addirittura modificandone il finale da tragico a lieto). La Gioconda è una cantante con mamma cieca a carico: si innamora del proscritto Ezio Grimaldo, a sua volta spasimante (corrisposto) di Laura sposa del Capo dell’Inquisizione, Alvise. La spia Barnaba desidera fare sesso con la cantante e a tal fine esercita ogni pressione (accusando la cieca di stregoneria). Al termine di una complicata vicenda dove vediamo il carnevale di Venezia, una festa (con cadavere) nella Ca’ d’Oro, l’incendio di un brigantino, una morte apparente, un tentativo di avvelenamento, un annegamento ed un suicidio, Laura ed Ezio fuggono verso la libertà mentre tutti gli altri vengono sconfitti dal Fato o dalla cattiveria umana. Nell’intreccio, tranne Gioconda, tutti tradiscono tutti (proprio come nel Parlamento del «trasformismo»). Ciascuno dei quattro atti so svolge in un luogo di Venezia, che all’epoca, date la difficoltà di viaggiare, molti spettatori avevano sognato sulla base di cartoline illustrate: Piazza San Marco durante il Carnevale, un naviglio ancorato alla Riva degli Schiavoni, il salone principale della Cà d’Oro, la casa di Gioconda in un palazzo diroccato sul canale della Giudecca.
Per un secolo e mezzo, l’opera ha mandato il pubblico in visibilio. E’ il miglior esempio di grand opéra padano. Ciò è merito di Ponchielli, non di Boito che, sotto pseudonimo (si vergognava, lui raffinatissimo, di essere alle prese con un romanzaccio popolare) ne scrisse il libretto. Il maestro cremonese era un fine orchestratore, culturalmente vicino a quella «scapigliatura» milanese che voleva innovare. Il suo flusso orchestrale continuo risente anche di wagnerismo cromatico ed intriso di leitmotif (ovviamente, alla polenta padana). La scrittura vocale richiede sei grandi voci con registri in grado di spaziare dalle romanze e concertati tradizionali al declamato wagneriano.
Negli ultimi venti anni, se ne ricordano due buone edizioni a La Scala e al Teatro dell’Opera di Roma. Nel 2004 un allestimento del circuito toscano (peraltro in economia e con una discutibile regia di Micha van Hoecke) è stato apprezzato dagli spettatori. Riappare periodicamente al Metropolitan di New York.
L’aspetto più significativo delle edizioni da me viste di recente alla Scala, all’Arena di Verona ed al Teatro dell’Opera di Roma è l’accento sulla direzione musicale. La Gioconda è erroneamente ritenuta un’opera principalmente di voci (meglio se con volumi da fare tremare i lampadari) mentre il suo apporto migliore è la complessa e delicata orchestrazione (ad esempio, gli accompagnamenti per arpa e fiati, il gioco astuto degli archi). In passato, per avere «voci», i direttori artistici hanno risparmiato sui maestri concertatori e ingaggiato mestieranti a poco prezzo. Occorre dare atto ai direttori artistici di questi ultimi anni di non essere caduti in tale trappola.
L’ultimo allestimento che ho visto ed ascoltato ha debuttato all’Arena di Verona nel 2005 dove le scene e la regia sembravano schiacciate dal monumento. Lo ho rivisto e riascoltato nel 2012 a Roma dopo tappe a Barcellona, Madrid, Bilbao, Monte Carlo, ed altrove. Il truculento intreccio era reso credibile da una recitazione sobria e una Venezia nebbiosa, macera e decadente, senza Piazze San Marco e Cà d’Oro in cartapesta, stilizzata da essere quasi atemporale, dove dominano varie tonalità di bianco e grigio ed alcuni elementi di rosso. In tal modo il miglior esempio di grand opéra padano funzionava anche per i gusti moderni.
Il Verismo
Il 17 maggio 1890, un giovane livornese che di mestiere faceva il capo della banda municipale di Bisceglie in Puglia, Pietro Mascagni, con un vestito stretto preso in affitto, venne travolto da ovazioni dal pubblico, un vero e proprio delirio, al Teatro dell’Opera di Roma. Era apparso sul palcoscenico per ringraziare dopo il debutto di Cavalleria Rusticana, opera in un atto che veniva messa in scena grazie ad un concorso tra giovani compositori bandito dall’editore Sonzogno. Cavalleria Rusticana – amava dire il caro amico e grande critico musicale Giorgio Gualerzi – avrebbe travolto il grand opéra padano. Anche se il grand opéra padano continuò a resistere per decenni, e spesso ci furono confluenze tra verismo di cui Cavalleria fu il primo frutto e ne restò il più completo. Il nuovo stile ebbe un forte impatto e dall’Italia si trapiantò in altri Paesi, in particolare negli Stati Uniti, nonostante alcuni musicologi rigoristi- come Carlo Parmentola - affermano che «il periodo verista in senso stretto comincia con il trionfo di Cavalleria nel 1890 e si conclude con quello bresciano di Madama Butterfly nel 1904[1].
Cavalleria Rusticana, ed il verismo, rispecchiavano anche un cambiamento profondo nella società e nella politica. Governo e Parlamento, eletto ad un suffragio molto ristretto, erano ancora in pieno trasformismo ma altre forze politiche e sociali acquistavano protagonismo. Meno di un anno dopo il debutto di Cavalleria, gli operai di Milano tennero un Congresso in cui fu deciso per l’anno seguente un altro che avrebbe raccolto «tutte le forze proletarie e rivoluzionarie»; nasceva il Partito dei Lavoratori Italiani che due anni dopo sarebbe diventato il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. L’ingresso dei socialisti (tra cui Mascagni) nell’agone politico cambiò il contesto generale in cui evolveva il teatro d’opera italiano. Non che l’opera diventasse un vessillo per le nuove forze politiche (anche se Iris, sempre di Mascagni, del 1908 contiene, accanto al gusto liberty dell’epoca, un forte contenuto di denuncia sociale a favore degli esclusi).
Cavalleria fu la dimostrazione di come l’opera possa trattare temi e vicende attuali, contemporanee agli spettatori ed a ciò che essi leggevano sui giornali, e rendere protagonista «il popolo», diventare vox populi. Cavalleria ha poche innovazioni formali (una geniale trovata è l’inserimento, nel preludio, della serenata di Turiddu a Lola). Anzi recupera, in parte, i «numeri chiusi» che non corrispondono, però, a forme «chiuse» ma a gruppi di situazioni trattate alcune in forma chiusa, altre nello stile di recitativo con ariosi, spesso con frammentazione assai minuta, quasi sempre senza soluzione di continuità. Il musicologo austriaco Mosco Carner chiamò «strutturazione a mosaico» questo modo di procedere. Il coro, poi, non fa mai da fondale o da cassa di risonanza: ha quattro interventi (un canto di lavoro, una preghiera, un brindisi e l’urlo finale). I primi tre definiscono la cultura dell’ambiente: il lavoro, il senso religioso, l’aria di festa forzata quasi artificiale ma comunque fortemente partecipata. La coralità è sempre spontanea. L’orchestrazione è molto curata, con poco peso all’armonia e gran rilievo ai cromatismi. In questo quadro hanno rilievo le voci: un tenore con un vigoroso registro di centro (come nel grand opéra padano), un soprano drammatico in grado di scendere di registro come un mezzo soprano, un baritono agile ma dai colori scuri, ed un soprano leggero. La forte carica di passionalità, il prevalere della melodia sull’accompagnamento, il canto appassionato non mancarono di essere considerati parte di una solare individualità italiana. Il libretto, infine, utilizza espressioni prese dal linguaggio quotidiano non arcaismi ed espressioni legate alla poesia, ponendo (ed in Cavalleria risolvendo) il problema del rapporto tra parola e musica.
Pur avendo le caratteristiche di un’opera tradizionale, Cavalleria non era, e non è, riconducibile a nessun modello precedente e, dunque, assolutamente nuova, originale e rivoluzionaria, pur se radicata nella cultura operistica italiana. Il suo trionfo a Roma ed il successo, nel giro di pochi mesi in tutto il mondo, nonché il suo perdurare nei repertori tra le opere più rappresentate, fanno sì che essa stessa diventasse un modello per opere che cercavano nella cronaca, nella «vita vera» la loro ispirazione.
Mascagni, Leoncavallo, Giordano, Cilea ed altri meno importanti (ed in gran misura spariti dai repertori dei maggiori teatri) vengono accumunati come i principali autori della scuola verista. In effetti, provenivano da «scuole» differenti. Mascagni seguì corsi di perfezionamento al Conservatorio di Milano, gli altri avevano studiato al Conservatorio di San Pietro a Majella a Napoli. Ebbero, però, un editore in comune, Edoardo Sonzogno mentre Puccini (da alcuni, come si è detto, annoverato tra i veristi), restò sempre con Giulio Ricordi, con un’eccezione (La Rondine). Amavano chiamarsi «giovane scuola» per giustapporsi a Verdi (di cui pur si consideravano eredi) ed al grand opéra padano (a cui, però, sia Giordano sia Cilea sia gli stessi Mascagni e Leoncavallo pagarono più di un tributo). Quando nel 1892, l’editore Sonzogno presentò ad una Esposizione Internazionale di Musica (un festival dei festival del teatro in musica contemporaneo) Cavalleria Rusticana (Mascagni), Pagliacci (Leoncavallo), Mala Vita (Giordano), Birichino (Mugnone) e Tilda (Cilea) suscitò grande interesse. Il critico Eduard Hanslick, uno dei più autorevoli dell’epoca, inquadrò il verismo in un più vasto movimento di rinnovamento culturale che, in filosofia, aveva il suo corrispettivo nel positivismo.
Pagliacci (1893) di Ruggero Leoncavallo viene quasi sempre abbinata a Cavalleria. Ne segue, infatti, il modello, anche se non ne ha né lo spessore né il fiato. Tratta di un fattaccio di sesso e sangue in un villaggio calabrese che Leoncavallo sostenne di avere visto da giovane (ma la trama è molto simile ad una pièce francese di successo in quegli anni La Femme du Tabarin di Catullo Mendès). E’ scritto come una cronaca di un quotidiano di provincia e sfoggia due tenori, uno lirico ed uno drammatico. Al tenore drammatico ed al soprano vengono affidate parti molto ardue. Viene, a volte, rappresentata da sola od abbinata ad un’altra opera o ad un balletto in un atto (La Scala lo ha spesso abbinato a La Strada di Nino Rota). Ma in termini televisivi il suo traino naturale è Cavalleria. E’ l’unica opera verista di Leoncavallo, il quale, coltissimo (anzi erudito) e più anziano degli altri, si dedicò ad opere storiche (da grand opéra padano) ad operette, «trasformandosi» ogni volta che si rivolgeva ad un differente stile.
Anche Mascagni nella sua vita (1863-1945) fu un «trasformista» sia politicamente sia stilisticamente. Da socialista diventò il capo della corrente tradizionalista alla corte di Mussolini (di cui riceveva una prebenda), ma non lo seguì dopo il 25 luglio 1943 e si collocò nella vasta area centrista. Compose alcune opere veriste ma anche un’opera buffa su modelli goldoniani, tragedie con libretti dannunziani, ed almeno un grand opéra padano (Nerone, al cui libretto avrebbe collaborato lo stesso Mussolini).
Di Giordano e del suo Andrea Chénier si è parlato. Vale la pena di citare il suo contributo più specificatamente verista. E’ sparita dai repertori da oltre un secolo la sua opera più spiccatamente verista, Mala Vita (successivamente re-intitolata Il Voto) che ebbe una certa fortuna tra il 1892 e l’inizio del Novecento: una storia di buone intenzioni che finiscono male, interamente tra i «bassi» di Napoli ed i bordelli. Si introducono canzoni napoletane e tarantelle. I detrattori hanno criticato il lavoro come una serie di cartoline illustrate. Stanno tornando altre opere di stampo verista del compositore come Siberia (alcuni anni fa al Festival di Valle d’Itria ), La Cena delle Beffe (vista in due diverse recenti produzioni a Bologna ed alla Scala) e Fedora (dopo più di dieci anni di assenza dalle programmazioni in procinto di tornare alla Scala). Di questi titoli, a mio avviso, Fedora è il più brillante, ove non il capolavoro assoluto del compositore. La vicenda tratta un argomento contemporaneo all’opera (del 1898): gli attentati dei nichilisti in Russia. Il primo atto è un «giallo» che precede quelli di Leóš Janáček (ad esempio, Il caso Makropulos), con una struttura musicale spezzettata. In ciascun atto (il primo a San Pietroburgo, il secondo a Parigi, il terzo in Svizzera), l’orchestra (ed anche le voci) creano l’atmosfera. Il pezzo di bravura per il tenore (Amor ti vieta) è un arioso che emerge da un dialogo declamato. La Cena delle Beffe, pur se ambientata, nella versione originale, nella Firenze dei Medici, è così verista che nella recente ripresa scaligera, il regista Mario Martone la ha attualizzata all’America di Al Capone, ove non de Il Padrino. Siberia del 1903 ebbe tanto successo che all’inizio del Novecento aprì a Giordano le porte dell’Opéra di Parigi, onore che sino ad allora, era stato tributato solo a Verdi; oggi ha un sapore stantio.
Al pari di Giordano, Francesco Cilea è in bilico tra grand opéra padano e verismo. La sua opera ancora più rappresentata (Adriana Lecouvreur del 1902 ) si basa su un personaggio storico e, al pari di Andrea Chénier, richiede un grande allestimento in quattro tableau con balli e numerosi personaggi minori. La meno rappresentata L’Arlesiana del 1897 tiene apertamente conto delle lezioni di Cavalleria. Ambedue devono il loro successo iniziale ad Enrico Caruso, tenore la cui voci era perfetta per il verismo.
Come detto, il verismo tramontò, in Italia, dopo la Prima Guerra Mondiale ed in particolare durante il fascismo. Ne La Nuova Antologia Vol. 617 Fasc. 2279, si è documentato come Mussolini, considerandosi lui stesso musicista poiché strimpellava il violino, fu forse l’unico governante che diede all’Italia una politica musicale. Era attratto dalla musica sperimentale che veniva del resto d’Europa, organizzò il primo festival internazionale di musica contemporanea (dove invitò tutti i compositi messi al bando nel Reich tedesco). Mantenne Mascagni e Cilea alla propria corte e li coprì di onori perché piacevano al pubblico tanto da collaborare con il primo per Nerone ma il suo cuore batteva per gli innovatori come Casella, Dallapiccola e Malipiero e, tra gli stranieri, soprattutto Stravinskij. Era anche finito, pour cause, il «trasformismo» parlamentare. Perché il Parlamento non esisteva più.
Effetti del gran Opéra padano e del verismo sulla musica di altri Paesi.
Ciò non vuol dire che grand opéra padano e verismo siano spariti. Non solo i titoli di migliore qualità o che più continuavano, e continuano, a piacere al pubblico restarono, e restano,  sempre in repertorio ma tanto il grand opéra padano quanto il verismo ebbero un notevole impatto sull’evoluzione dell’opera altrove, soprattutto nelle Americhe. Nel contesto di questo articolo si può fare solo un cenno, anche in quanto pochi titoli di teatro in musica americano contemporaneo si vedono in Italia. In tempi recenti, ricordo solo A Streetcar Named Desire di André Previn al Regio di Torino, The Death of Klinghoffer di John Adams al Teatro Comunale di Ferrara, A View from the Bridge di William Bolcom e I was looking for the sky and then I saw the ceiling di John Adams al Teatro dell’Opera di Roma.
L’opera scelta per l’inaugurazione della sede attuale del Metropolitan al Lincoln Centre di New York nel 1966 (Anthony and Cleopatra di Samuel Barber) e proposta alcuni anni fa al Teatro Nuovo di Spoleto è certamente figlia del grand opéra padano. Si riallaccia al grand opéra padano anche il compositore napoletano contemporaneo (deceduto nel 2009), ma di cultura parigina-milanese (e per decenni critico musicale dell’Osservatore Romano), Antonio Braga: 1492, Epopea Lirica d’America, una commissione dell’Opera di Santo Domingo per i cinquecento anni dalla scoperta dell’America, ancora spesso in scena oltreoceano. In Italia, le opere Beatrice Cenci (1942) e Madame Bovary (1955) di Guido Pannain (compositore quanto mai eclettico) risentono del grand opéra padano.
Molto più incisivo l’impatto del verismo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Uno sguardo dal ponte di Renzo Rossellini (noto soprattutto per le sue colonne sonore e come critico musicale) può essere considerata un’opera verista. Così è stata vista da alcuni critici La Ciociara di Marco Tutino, commissionata non da un teatro italiano (si è vista ed ascoltata al Teatro Lirico di Cagliari nel 2017) ma dal War Memorial Opera House di San Francisco dove ha debuttato nel 2015. Sempre di Marco Tutino, Senso (vista ed ascoltata al Teatro Massimo di Palermo nel 2013) e Federico II (commissionata dal Teatro di Bonn ma vista ed ascoltata in Italia al Teatro Pergolesi di Jesi nel 2004) risentono sia del grand opéra padano sia del verismo.
E’ soprattutto negli Stati Uniti che il verismo ha avuto un impatto profondo e di lungo periodo. Rigorosamente veriste sono le due maggiori opera di Gian Carlo Menotti (The Consul e The Saint of Bleecker Street), e molte delle altre; per quanto concepite negli USA e per un pubblico americano hanno avuto una certa circuitazione anche in Italia. Sono lavori degli Anni Cinquanta e per un pubblico americano. Ma già negli Anni Trenta, quelle che il musicologo statunitense Ethan Mordden considera «le due prime opere americane di merito» (Porgy and Bess di George Gershwin e Four Saints in Thee Acts di Virgil Thompson su libretto di Gertrud Stein) sono intrise di verismo. Sempre il duo Thompson-Stein sforna, nel 1947, The Mother of Us All, sulla suffragetta Susan B. Anthony, dove il verismo è fuso con un fortissimo senso del ritmo.
Di impianto strettamente verista sono le opere di Carlisle Floyd, numerose tratte da romanzi di successo e che hanno inspirato anche film, come Willie Stark del 1980. Basata su All the King’s Men di Robert Penn Warren, l’opera racconta l'ascesa e le difficoltà di Willie Stark, un uomo onesto che decide di scendere in politica, ma perde progressivamente la sua integrità morale, con conseguenze devastanti soprattutto nella vita privata; alla fine, la sequenza di bugie, inganni e tradimenti gli costeranno la vita. La trama è ispirata alla vita di Huey Long, un politico realmente esistito degli Anni Trenta. Un aspetto importante della vicenda è il «trasformismo» che in un sistema federale e presidenziale come quello americano ha caratteristiche differenti da quelle prevalenti nei sistemi parlamentari europei. L’opera, come i due film ispirati dal libro (il primo ha avuto l’Oscar come miglior film del 1950), si svolge uno degli Stati dell’Unione, la Louisiana, dove l’elezione del Governatore e i lavori dell’Assemblea legislativa più assomigliano ai sistemi dell’Europa continentale. Di assoluto rilievo, con stilemi veristi, Dead Man Walking di Jacke Heggie, tratta da un fatto di cronaca nera che ha ispirato un romanzo ed un film; ha debuttato nel 2000 con grande successo a San Francisco e si è vista ed ascoltata, oltre che negli Stati Uniti ed in Canada, a Vienna, Dresda , Parigi ed altri teatri europei, ma non è mai giunta in Italia in rappresentazioni dal vivo (è apparsa in canali televisivi specializzati in musica classica).
Due tra le principali opere del compositore John Adams considerato un «minimalista» specialmente per i suoi lavori più recenti (quali I was looking for the sky and then I saw the ceiling), Nixon in China (1987) e The Death of Klinghoffer (1991), pur non seguendo canoni del verismo di fine Ottocento- inizio Novecento ed utilizzando anche strumentazione elettronica, hanno aspetti (l’argomento contemporaneo, il ruolo del coro, specialmente in The Death of Klinghoffer, il grande organico orchestrale) che rispecchiano la sintassi del verismo.
Si potrebbe andare oltre, ma si tratterebbe di pura erudizione di poco interesse per i lettori italiani. Questo cenno credo sia sufficiente per smentire l’ipotesi di una breve durata del verismo – da Cavalleria Rusticana a Madama Butterfly - con «qualche» opera successivamente.
Conclusioni
Non è certamente possibile fare una correlazione matematica tra «trasformismo», da un lato, e grand opéra padano e verismo, dall’altro. Un nesso, tuttavia, pare chiaro. Quando la politica non è più basata su contrapposizione tra differenti weltanschauung e diventa un mero gioco di potere in cui i cambiamenti di schieramento rispecchiano, in grande misura, ambizioni ed interessi personali il teatro in musica va verso il grand opéra in cui i tradimenti ed i particolarismi vengono mostrati in mondi lontani (nel tempo o nello spazio) e nel verismo ispirato alla cronaca quotidiana (anche politica, come nel caso di alcune opere americane citate). Tutte le espressioni artistiche hanno un nesso con la politica del loro tempo. Ma, come visto in precedenti articoli de «La Nuova Antologia», per il teatro in musica appare particolarmente forte ed eloquente.
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[1] Parmentola aggiunge che ‘vi furono opere veriste anche dopo, e tra queste può annoverarsi Il Tabarro (di Puccini- n.d.r) ma la stretta connessione tra il verismo ed il periodo indicato e l’opera italiana anche nelle sue manifestazioni non veriste si può circoscrivere al periodo indicato” – ossia ad appena quattro anni.