martedì 27 febbraio 2018

LA MONTAGNA DEL DEBITO SI SCALA SOLO IN CORDATA in Avvenire 28 febbraio



Servono impegno (trasversale) in Italia e mosse Ue
LA MONTAGNA DEL DEBITO SI SCALA SOLO IN CORDATA
In alcune stazioni ferroviarie, da qualche tempo, i pannelli dell’Istituto Bruno Leoni aggiornano i viaggiatori sul lievitare inesorabile del debito pubblico italiano: cresce di 4.469 euro al secondo, 268mila euro al minuto, 16 milioni all’ora, 386 milioni al giorno, 11 miliardi e mezzo al mese. In effetti, dal 2014 al 2017, il debito pubblico italiano è cresciuto di 138 miliardi di euro.
In rapporto al Pil è aumentato dal 131,6% del 2014 al 134% di fine 2016, per scendere al 132% alla fine del 2017, grazie essenzialmente alla ripresa della produzione e del valore aggiunto segnata negli ultimi 15 mesi.
Partecipo perciò volentieri al dibattito aperto sul tema da 'Avvenire'. Partendo da un dato: quello del debito pubblico non è un fardello che in Europa riguarda solamente l’Italia. Fatta eccezione per la Germania dove, negli ultimi quattro anni, in termini assoluti, il debito è diminuito di 63 miliardi e il rapporto debito/Pil è passato dal 76,3% del 2014 al 66,9% attuale, tutti gli altri Paesi europei hanno visto crescere questo indicatore.
In gran misura a ragione della crisi finanziaria ed economica iniziata nel 2008. In Spagna, il rapporto debito/Pil supera la soglia del 100%, passando dal 98,1% del 2014 al 100,4% del 2017, mentre nel Regno Unito il rapporto è salito dall’86,5 all’88% del Pil. Peggio dell’Italia solo la Francia, che ha visto crescere il rapporto tra debito e Pil di 4,5 punti, raggiungendo quota 98,7%: un aumento considerevole, ma che va comunque a incidere su un debito, in rapporto al prodotto interno lordo, molto inferiore al nostro. In valori assoluti, comunque, negli ultimi tre anni, risultano in crescita tutti i debiti pubblici dei grandi partner europei della Germania: Spagna (+121 miliardi), Italia (+138 miliardi), Regno Unito (+197 miliardi) e Francia (+209 miliardi). Il problema, quindi, è europeo, ma è particolarmente grave per l’Italia: quale che sia l’esito delle elezioni, una cosa è certa, il tema dovrà essere affrontato seriamente dal prossimo governo.
Per uscire dalla trappola del debito (che frena la crescita e, quindi, l’occupazione) occorre un impegno sia nazionale sia europeo. Sotto il profilo nazionale, la strategia deve essere adottata e concordata dall’intera classe politica dirigente, non solo della maggioranza che sosterrà l’esecutivo. Sarebbe anzitutto appropriato costituire, per legge, una commissione - la cui presidenza dovrebbe essere affidata a un esponente autorevole dell’opposizione composta da rappresentanti delle forze politiche e delle istituzioni con l’obiettivo di formulare proposte specifiche per portare il debito a meno del 100% del pil entro la fine della prossima legislatura. E monitorarne l’attuazione. Una proposta in questa direzione è stata formulata in seno alla Luiss School of Government.
Sotto il profilo europeo, le risorse - in gran misura non utilizzate -del Meccanismo europeo di stabilità (e dell’eventuale Fondo monetario europeo) dovrebbero essere impiegate per facilitare la riduzione del debito degli Stati dell’Unione più indebitati. Lo si può fare con forme di garanzia e di riscatto che non comportano quelle mutualizzazione del debito considerate impraticabili per alcuni membri della Ue. È in ogni caso utile ricordare che tali forme di garanzia e riscatto sono state adottate con successo nella Repubblica federale tedesca, dopo la riunificazione, per risolvere problemi finanziari dei Länder orientali. A questi impegni dovrebbero corrispondere una gamma di misure definite nel dettaglio dalla Commissione europea. Tra queste, una potenzialmente significativa è la cosiddetta 'conversione della rendita'.
L’Italia ne ha già esperienza: venne attuata, nel 1906, con grande perizia tecnica (e straordinaria rapidità) per sostituire titoli di Stato in scadenza con altri a tassi inferiori. Oggi si dovrebbero sostituire titoli pluriennali ancora in circolazione emessi negli anni Novanta (quando i tassi erano molto elevati) con titoli a tassi correnti. I detentori dei primi, infatti, hanno avuto un grande vantaggio dall’ingresso dell’Italia nella moneta unica e dal quantitave easing, grazie al conseguente forte ribasso dei tassi. Occorre poi destinare al ripiano del debito varie forme di entrare straordinarie: quelle derivanti dalla voluntary disclosure (la collaborazione volontaria per regolarizzare la propria posizione fiscale), condoni ancora in corso, parte delle privatizzazioni del capitalismo municipale e regionale o i proventi, infine, da grandi imprese a partecipazione statale. Il «percorso è stretto», come è solito dire il ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan. Ma con un impegno di tutte le forze politiche italiane e delle istituzione europee sarebbe possibile mettersi sulla buona strada.
(Dodicesimo intervento di una serie)
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di Giuseppe Pennisi

DA“MISERIA E NOBILTÀ” ALLA “CIOCIARA” COME CAMBIA IL SENSO DELLA GIUSTIZIA NELLA NUOVA OPERA ITALIANAin Il Dubbio 28 febbraio



DA“MISERIA E NOBILTÀ” ALLA “CIOCIARA” COME CAMBIA IL SENSO DELLA GIUSTIZIA NELLA NUOVA OPERA ITALIANA
Tramonta la vox populi e il “ garantismo” gli ruba la scena
GIUSEPPE PENNISI
Alcuni anni fa, un trimestrale di Monaco di Baviera mi invitò a scrivere un breve saggio ( in tedesco) per spiegare perché l’opera italiana non era più quella vox populi che accompagnò il Risorgimento con il suo giustizialismo tagliato con l’accetta e il suo manicheismo etico. E continuò ad essere tale sino alla seconda guerra mondiale. In effetti, tra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo gran parte delle opere italiane che debuttano sui nostri palcoscenici sono sperimentali o quasi, nella drammaturgia, nella musica e nel suo approccio sfumato, “garantista” alle vicende umane e all’umana giustizia. Il pubblico, soprattutto quello giovane, le disertava ed i templi della lirica assomigliavano sempre più a musei.
Qualcosa, però, sta cambiando. Un segno evidenti sono stati i dieci minuti non di applausi ma di vere e proprie ovazioni lo scorso 23 febbraio al gremitissimo Teatro Carlo Felice di Genova ( molti giovani in sala) al debutto di Miseria e Nobiltà di Marco Tutino. Nella musica ( complessa ma di facile e ascolto) e nella drammaturgia, la “nuova opera italiana” incorpora le lezioni di quella americana; negli Usa i teatri sono privati, ricevono poche sovvenzioni e devono, quindi, piacere al pubblico pagante. Ne devono anche riflettere obiettivi e sentimenti. In tempi recenti, si sono viste alcune opere americane in teatri italiani; ad esempio, A Streetcar Named Desire di André Previn al Regio di Torino,
The Death of Klinghoffer di John Adams al Teatro Comunale di Ferrara, A View from the Bridge di William Bolcom e I was looking for the sky and then I saw the ceiling di John Adams al Teatro dell’Opera di Roma. Tratte a volte da film e romanzi di successo, hanno sovente un forte contenuto politico come la vicenda del sequestro dell’Achille Lauro in The Death of Klinghoffer oppure Willie Stark di Carlisle Floyd ispirata alla vita di Huey Long, un politico realmente esistito degli Anni Trenta, oppure a Nixon in China di John Adams, viste ed ascoltate in tutta Europa tranne che in Italia Torniamo a Miseria e Nobiltà. La commedia di Scarpetta, ed il film di Totò, sono solo uno spunto L’azione è spostata 1946 durante la campagna referendaria per scegliere tra Monarchia e Repubblica in una Napoli bombardata ed in cui si soffre la fame. La borghesia commerciale si è arricchita grazie alla borsa nera ed, unitamente con quel- che- resta dell’aristocrazia fa il tifo per la Monarchia. Felice Sciosciammocca è un pover’uomo che ha perso il posto di maestro perché antifascista, ed anche la moglie, finita tra le braccia di un aristocratico dietro la promessa ( mai mantenuta) di farlo reintegrare. In questo contesto, si svolge la vicenda del travestimento di Sciosciamocca da aristocratico per facilitare le nozze del figlio di un borghese arricchito con una ballerina del San Carlo. Scioscamocca viene indotto a partecipare all’inganno con una lauta portata di spaghetti al pomodoro per lui, famiglia e vicini. Scopre che la moglie è al servizio del borghese. Durante la cena, arriva l’aristocratico vero e viene annunciata alla radio la vittoria della Repubblica al referendum. Scattano una serie di equivoci che portano alla benedizione delle nozze dei due giovani ed alla riconciliazione tra Felice e la propria moglie. Mentre borghese ed aristocratico firmano un “patto di ferro” perché con la Repubblica cambi tutto per non cambiare niente. Ma un coro finale inneggia a garanzie costituzionale ed ad una «giustizia giusta».
A fine Novembre si è vista ed ascoltata al Teatro Lirico di Cagliari un’altra opera di Tutino La Ciociara, la prima dai tempi de Il Trittico pucciniano ( 1920), commissionata da un grande teatro americano ( il War Memorial Opera House di San Francisco) ad un autore italiano. Tratta dal romanzo di Moravia e dal film di De Sica dà maggior spazio che in questi due lavori al personaggio del fellone Giovanni, un fascista “di ferro” che si dedica alla borsa nera nella Roma città aperta ma dopo lo sbarco degli alleati ad Anzio si maschera da “proto- antifascita”; scoperto, sta per essere linciato quando la protagoniste, Cesira, interviene con voce imperiosa e chiede la fine di ogni violenza ed un proprio processo Molto interessante anche Ettore Majorana. Cronaca di infinite scomparse, libretto e regia di Stefano Simone Pintor e musica di Roberto Vetrano. Lo spettacolo è stato interamente creato, dalla stesura del libretto alla composizione musicale e alla regia, da professionisti under 35 ( oltre a Pintor e Vetrano, Gregorio Zurla, scenografo e costumista) e prodotto per l’apertura della Stagione 2017/ 2018 di Opera-Lombardia, il brand che raggruppa in un unico grande cartellone d’opera i cinque teatri di tradizione della Lombardia ( Fondazione Donizetti di Bergamo, Teatro Grande di Brescia, Teatro Sociale di Como, Teatro Ponchielli di Cremona e Teatro Fraschini di Pavia). E’ stato visto ed ascoltato, in questi mesi anche al Teatro dell’Opera di Magdeburg ( Germania) e al Palau de les Arts Reina Sofía di Valencia ( Spagna). Dal punto di vista narrativo, l’opera è un poliziesco dall’ampio respiro che affronta, alle soglie dell’ottantesimo anniversario della scomparsa di Ettore Majorana, una delle storie più incredibili e misteriose vicende del Novecento: l’inspiegabile sparizione dello scienziato, a poche ore dal suo imbarco sul piroscafo da Palermo a Napoli, la sera del 26 marzo 1938. Il lavoro illustra alcune delle principali spiegazioni della scomparsa di Ettore Majorana ma non offre, nel finale, una soluzione. Il garantismo richiede che, sino a prova contraria, siano tutte valide.
http://ildubbio.ita.newsmemory.com/newsmemvol1/italy/ildubbio/20180228/20180228_dubbio_dubbio_a10.pdf.0/img/Image_1.jpghttp://ildubbio.ita.newsmemory.com/newsmemvol1/italy/ildubbio/20180228/20180228_dubbio_dubbio_a10.pdf.0/img/Image_0.jpg
IN QUESTO PASSAGGIO SONO STATE FONDAMENTALI LE “LEZIONI” DELLA DRAMMATURGIA AMERICANA DI AUTORI MODERNI E TRASGRESSIVI COME JOHN ADAMS E WILLIAM BOLCOM

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Romanticismo francese in musica. A Venezia in Artribune 27 febbraio



Romanticismo francese in musica. A Venezia

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Il Palazzetto Bru Zane, nel cuore della città lagunare, fa da cornice al Centre per la Musique Romantique Française, producendo e ospitando opere liriche nel solco di un genere, e di un’epoca, spesso dimenticati.
2 Bouffes en 1 acte. Palazzetto Bru Zane, Venezia2 Bouffes en 1 acte. Palazzetto Bru Zane, Venezia
Al di fuori del ristretto numero di critici musicali e di appassionati soprattutto del Veneto, pochi italiani sanno che il principale istituto di analisi e ricerca sulla musica francese dell’Ottocento si trova nel nostro Paese, a Venezia: è il Centre per la Musique Romantique Française, creato e sostenuto a Venezia da una Fondazione svizzera, la Fondazione Bru.
La sede centrale, il Palazzetto Bru Zane, accoglie una bella sala da concerto e produce, a Venezia e altrove in Europa, circa 150 concerti e opere liriche l’anno, a volte in collaborazione con differenti partner. Dal 2009, quando è stato istituito, alla fine del 2017, il Centro ha prodotto quasi 140 registrazioni (diffuse da alcune delle maggiori case discografiche mondiali) e una cinquina di libri. Nel Veneto, ha avviato un progetto didattico sulla musica romantica francese che coinvolge quasi mille alunni e una quarantina di classi. Il costo annuale di queste attività sfiora i quattro milioni di euro, di cui l’80% è coperto dalla Fondazione Bru e il resto da ricavi della vendita di attività musicali, libri e dischi e dalla biglietteria. Quest’istituzione sta compiendo un’attività di ricerca, di approfondimento e di divulgazione molto importante. Infatti, pur se sulla musica e sul teatro in musica francese esiste una letteratura ricchissima, le occasioni di ascoltarla dal vivo sono per varie ragioni poco frequenti.
Per trattare di Romanticismo francese, occorre innanzitutto stabilire alcune date ‒ quando inizia e quando termina ‒, pur tenendo conto che vari generi e stili si accavallano. Nelle conversazioni avute a Palazzetto Bru Zane, il Direttore Scientifico del Centre, Alexandre Dratwicki, ci ha raccontato un aneddoto: secondo Hector Berlioz (che pur si considerava un “classico”, non un “romantico”), il Romanticismo francese inizia con Christoph Willibald Gluck, ovviamente con il Gluck francese, in particolare con il Gluck di Iphigénie en Tauride, raramente messa in scena in Italia. Più difficile dire quando termina: la Francia non ha un’esplosione neo-romantica a partire dagli Anni Settanta del secolo scorso, come avuta dall’Italia (Marco Betta, Michele Dall’Ongaro, Lorenzo Ferrero, Marco Tutino) e soprattutto dagli Stati Uniti d’America (William Bolcom, Thomas Pasatieri).
Durante la Prima Guerra Mondiale il Romanticismo francese sparisce dalle “prime” dei teatri e delle sale di concerto – è il momento e il mondo del “Gruppo dei Sei”, Darius Milhaud, Arthur Honegger, Francis Poulenc, Germaine Tailleferre, Georges Auric e Louis Durey, e della loro “musica oggettiva” ‒ per riapparire come un fiume carsico, però, nella musica da film. Qualcosa del genere si verificò in Germania con quei musicisti tardo-romantici che, di fronte al nazismo, finirono a Hollywood dove conquistarono un Oscar dopo l’altro per la loro musica da film. Il Centre si dedica principalmente ad attività di riscoperta di autori o di partiture oggi dimenticate.
2 Bouffes en 1 acte. Palazzetto Bru Zane, Venezia
2 Bouffes en 1 acte. Palazzetto Bru Zane, Venezia

LA RISCOPERTA DELL’OPERETTA

Un aspetto importante è la riscoperta dell’operetta francese, spesso messa in scena in occasione del Carnevale di Venezia. Tre anni fa, ad esempio, venne proposto Le Ventre de Paris, spettacolo successivamente visto a Milano (in occasione dell’Expo) e a Parigi al Théâtre des Bouffes du Nord. È un’espressione del nesso tra gastronomia, vini di classe e musica nel Romanticismo francese. È una determinante che caratterizzata il periodo 1780-1910 in Francia più che, ad esempio, in Italia e Germania, nel cui teatro in musica non mancano i banchetti ma questi non hanno il ruolo che assumono in Francia, anche a ragione di come il cibo distingueva le classi sociali. Si pensi alla regina Marie-Antoinette, che suggeriva di dare brioches al popolo affamato che protestava, chiedendo pane, di fronte ai palazzi reali. Oppure alla borghesia sempre più golosa che accompagna l’industrializzazione trionfante e l’aumento della produttività in agricoltura sino a tutta la Belle Époque. Le Ventre de Paris ha un unico legame, molto labile, con il trucido romanzo di Émile Zola del 1873, che è stato oggetto di varie riduzioni cinematografiche: il titolo. La storia di Zola si svolge interamente alle Halles, i mercati generali di Parigi costruiti tra il 1854 e il 1870. In effetti, al di là delle intricate e intrecciate vicende, Le Ventre de Paris è una metafora che fa riferimento all’abbondanza di cibo nel quartiere dei mercati generali e alla bellezza di donne “grassocce”, ma anche alla miseria nei bassifondi e nelle periferie. Nulla di ciò è presente nello spettacolo veneziano. In primo luogo, non si basa sul grand-opéra ma sull’operetta e sulla musica popolare, dalle canzonette ai canti d’osteria. Quindi non si mangia e non si beve per tessere intrighi, ma solo per il piacere del gusto (associato a quello dell’eros).
Due anni fa è stata la volta de Les Chevaliers de la Table Ronde al delizioso, più piccolo Teatro Malibran. In effetti si tratta di un’operetta di Florimond Ronger detto Hervé. L’opéra-bouffe, andata in scena per la prima volta nel 1866 al Théâtre des Bouffes-Parisiens e considerata il primo dei quattro capolavori dell’autore, proposta in una trascrizione per 13 cantanti e 12 strumentisti curata da Thibault Perrine e in un nuovo allestimento con la direzione musicale di Christophe Grapperon, regia, scene e costumi di Pierre-André Weitz e, come interpreti, i cantanti e gli strumentisti della compagnia Les Brigands. Ironia e sapidità sono gli ingredienti che rendono Les Chevaliers de la Table ronde uno dei capolavori nel genere. A essere “presi di mira” sono, apparentemente, gli eroi del ciclo bretone, cavalieri e gentildonne dei più celebri poemi cavallereschi che diventano qui damerini cialtroni e dame rapaci, protagonisti di situazioni esilaranti e cariche di divertimento. Ma regia e scene mostrano che certi abitudini o prassi sono ancora presenti in alcune sfere del centro dirigente; il programma di sala contiene un PS, e avvisa che non si tratta di un Post Scriptum. Fin troppo chiara l’allusione (piaccia o non piaccia) all’inquilino dell’Eliseo e a numerosi componenti dell’Assemblea Nazionale.
2 Bouffes en 1 acte. Palazzetto Bru Zane, Venezia
2 Bouffes en 1 acte. Palazzetto Bru Zane, Venezia

GLI SPETTACOLI

Nel Carnevale 2017 è stata la volta di Votate per me!, un collage di canzoni della tradizione satirica della Francia del XIX secolo sul tema delle elezioni, che rievoca l’atmosfera goliardica dei café concerts parigini. In queste partiture spiritose tratte da compositori come Offenbach, Saint-Saëns, Lecocq, Hervé, Bruant, Boissière, la personificazione della Francia sarà contesa tra due candidati politici, in uno scenario pittoresco tra propaganda e protesta popolare. A interpretare questo recital brillante ci saranno i soprano Lara Neumann e Ingrid Perruche, e il baritono Arnaud Marzorati con l’accompagnamento musicale de La Clique des Lunaisiens.
Quest’anno due brevi operette ciascuna in atto: Les Deux Aveugles di Offenbach e Le Compositeur Tocqué di Hervé. L’allestimento è il più possibile fedele agli stilemi di metà Ottocento: in un salone per una settantina di spettatori al massimo, elementi scenici facilmente trasformabili a vista, il palcoscenico e la buca d’orchestra (con solo il pianoforte), costumi sgargianti che i cantanti-attori cambiano in scena. Si tratta di deliziosi sketch: nel primo si è alle prese con due mendicanti che fanno finta di essere ciechi e tentano di rubare “clienti” l’uno all’altro su un ponte di Parigi; nel secondo si ironizza sui compositori “seri” di epoca romantica. Ha già girato in Francia. Sono programmate recite in mezza Europa.
Giuseppe Pennisi
www.bru-zane.com
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Giuseppe Pennisi
Ho cumulato 18 anni di età pensionabile con la Banca Mondiale e 45 con la pubblica amministrazione italiana (dove è stato direttore generale in due ministeri). Quindi, lo hanno sbattuto a riposo forzato. Ha insegnato dieci anni alla Johns Hopkins University e quindici alla Scuola superiore della pubblica amministrazione; per periodi più brevi a Salerno e a Palermo. Ha scritto una dozzina di testi di economia, pubblicati in Italia, Gran Bretagna, Svizzera e Germania, ed è editorialista economico di un paio di quotidiani. Da quando aveva l'età di 12 anni la sua passione è l'opera lirica (specialmente del Novecento e meglio ancora se contemporanea coniugata con electroacustic e live electronics). Ha contagiato la moglie e in parte i figli. Vaga, quindi, da teatro a teatro. Con un calepino a righe e una matita rossa. Il riposo forzato è in una barcaccia.

MA L’ITALIA DEVE CREARE UN CONTESTO FAVOREVOLE ALL’INNOVAZIONE in Start Mag febbraio



MA L’ITALIA DEVE CREARE UN CONTESTO FAVOREVOLE ALL’INNOVAZIONE
Giuseppe Pennisi

Il contesto generale. L’innovazione tecnologica è lo strumento essenziale per ritornare al tasso di crescita potenziale - Pil stimato nel 2017 da Banca centrale europea, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e Ocse all’1,5% - . L’invecchiamento della popolazione, l’obsolescenza degli impianti e l’integrazione economica internazionale con l’accresciuta concorrenza da Paesi a basso costo ed a bassa pressione tributaria - soprattutto del lavoro - rendono difficile ipotizzare il ritorno ai tassi di crescita intorno al 2,5% l’anno che hanno caratterizzato gli Anni Ottanta. Come sottolinea il più recente studio in materia[1], l’innovazione ha importanti ricadute sulla quantità e sulla qualità di occupazione. L’analisi del fenomeno, già caratteristico dei movimenti ‘luddistici’ due secoli orsono, richiede strumenti non solo economici, ma anche politologici e sociologici, ossia di tutto l’armamentario della ricerca sociale e devono essere condivisi non solo nel mondo accademico, ma anche tra parti sociali e gruppi intermedi.
Un pizzico di teoria. Su questi temi stanno lavorando economisti di fama internazionale come Darun Acemoglu, Dani Rodrik, James A. Robinson, grazie ai quali si sta approntando un nuovo quadro teorico in cui l’economia e la politologia vengano coniugate per meglio comprendere le implicazioni politiche di decisioni economiche, i nuovi equilibri che si possono creare e le tecniche per minimizzare effetti controproducenti di scelte economiche che, sotto il profilo della disciplina, sembrano corrette. In Italia, temi di questa natura vengono echeggiati solo nella giovane Rivista di Politica, ma vengono raramente  accennati in riviste professionali di economia. Eppure è proprio questa la materia su cui indagare per comprendere la nostra scarsa capacità adattiva alle trasformazioni dell’economia mondiale, le ragioni del nostro declino e le leve per cercare di rimettersi a crescere. Per una corretta interpretazione di queste determinanti meta-economiche, occorre soffermarsi su due lavori che hanno suscitato un notevole dibattito nel mondo accademico anglo-sassone[2]. I due libri esaminano, in modo differente, temi simili: il secondo è scritto per studenti in corsi magistrali, mentre il primo è rivolto al grande pubblico e per mesi è stato in testa ai best seller. Meritano di essere esaminati con grande cura nel predisporre politiche di crescita. E’ bene farlo gradualmente.
Nei limiti di questa nota per la discussione è importante rilevare che - sulla base di regressioni statistiche su un vasto campione di Paesi e di una narrativa che parte dalle civiltà antiche - Besley e Persson giungono alla conclusione che “non esiste un’ingegneria economica per la crescita” e che “le determinanti meta-economiche più significative sono quelle politiche”. Per Acemoglu e Robinson si può crescere se la politica fornisce “un assetto istituzionale inclusivo”, in cui si incoraggia la partecipazione e quindi la equa suddivisione di costi e benefici; si resta al palo con “un assetto istituzionale estrattivo” che “arricchisce chi decide a spese del resto della società”. Un “assetto istituzionale estrattivo” non significa istituzioni che estraggono risorse (ad esempio minerarie di ‘beni comuni’ per il soddisfacimento di pochi), ma istituzioni che ‘estraggono gettito tributario’ per spesa pubblica improduttiva o poco produttiva.
E’ utile sottolineare che l’attenzione ai temi meta-economici sta diventando centrale anche nei lavori dei centri di analisi economica italiani.  Ad esempio, il Centro per l’Economia e lo Sviluppo Internazionale (CEIS) dell’Università di Tor Vergata, ha appena pubblicato un interessante raffronto tra il modello econometrico del Ministero dell’Economia e delle Finanze (in gergo ITEM) e la strumentazione analoga usata dalla Commissione Europea (QUEST III) per valutare in termini quantitativi gli effetti e gli impatti di riforme strutturali in materia di mercato del lavoro, strategia industriale, liberalizzazioni, privatizzazioni e simili[3]. La conclusione è che l’impiego simultaneo delle due strumentazioni può migliorare la comprensione della qualità delle misure di politica economica in un contesto comunque circondato da incertezza. Ambedue gli strumenti, però, hanno breve respiro (un lasso temporale di 24-48 mesi), mentre appare sempre più chiaro che i problemi dell’Italia riguardano il lungo periodo.

Uno sguardo al passato. E’ utile esaminare due lavori  del servizio studi della Banca d’Italia. Il primo[4] esamina la crescita e lo sviluppo dell’Italia in quella che gli autori chiamano “la prima età della globalizzazione”. In quel periodo, secondo lo studio, l’Italia era alle prese con una significativa scarsità di capitale, ma fu in grado di superare questo vincolo con soluzioni innovative, specialmente di politica industriale, negli anni attorno al 1880 e al 1930, innovazioni che vennero replicate anche in altri Paesi. L’analisi di James e O’Rourke è esatta nelle conclusioni a cui arriva, ma sceglie un periodo discutibile.  Di solito, anche nei libri di O’Rourke,  storico dell’economia di grande qualità, la prima età della globalizzazione viene situata tra il 1870 e il 1910, poiché una delle risposte alla prima guerra mondiale fu la chiusura dei mercati agli scambi commerciali, nonché lo smantellamento di unioni monetarie (come quella latina che resse, in vario modo, dal 1865 al 1927).

Più interessante suddividere il periodo ed esaminare, in particolare, le radici del “miracolo economico”. Come dimostrato in altra sede[5], economisti rigorosamente marxisti e rigorosamente neo-classici[6] concordano sul punto che alla base delle forte “efficienza adattiva” dell’Italia (che consentì al Paese di cogliere le opportunità dell’apertura dei mercati e del ritorno alla convertibilità), fu la forte dotazione di capitale umano, risultato dell’elevata qualità dell’istruzione e della formazione professionale, frutto in gran misura delle iniziative che oggi si chiamerebbero del ‘terzo settore’, come i centri di formazione del movimento cooperativo e dei salesiani. Tale capitale, reso ‘improduttivo’ dal succedersi di guerre dal 1935 al 1945, diventò molto produttivo quando venne coniugato con capitale fisico, politiche economiche liberali e internazionalizzazione. Il ‘miracolo’ si esaurì a ragione della scarsa attenzione al saggio di salario ed alle politiche sociali. Questi punti sono riaffermati su dati contenuti in uno studio appena uscito[7].

Un altro lavoro della Banca d’Italia[8] esamina ‘l’età dell’oro e la seconda globalizzazione’. Al riparo da inflazione e svalutazione, la crescita restò relativamente sostenuta sino alla metà degli anni settanta, ma le esigenze di riassetto strutturale vennero trascurate, anche se riforme dal lato dell’offerta vennero attuate in seguito alla crisi valutaria del 1992. Tali riforme furono meno incisive di quanto necessario. La partecipazione all’unione monetaria europea “non ha portato miglioramenti in termini di prospettive di crescita”. Nelle conclusioni, l’analisi si sofferma su determinanti meta-economiche che ‘bloccano’ il sistema.
Il percorso è difficile a ragione del carattere ‘corporativo’della società italiana. Parlamenti e Governi esprimono piccoli gruppi di interessi organizzati (si pensi alle associazioni/cooperative dei taxi nelle grandi città) che incidono in misura importante sulle scelte pubbliche (come ci ricorda il primo teorema della public choice di James Buchanan e Gordon Tullock). Una ‘grande coalizione’ è meglio attrezzata di una ‘piccola’ ad affrontare questi nodi. Lo documenta a tutto tondo proprio uno storico tedesco, un cui libro fondamentale[9] è giunto in traduzione italiana  nelle librerie da alcuni anni. Ad esso fa quasi da pendant il lavoro di un politologo tedesco[10] in cui l’autore si pone l’interrogativo di fondo: la democrazia rappresentativa liberale è compatibile con le decisioni spedite imposte dall’integrazione economica internazionale? In questo contesto un mix di democrazia diretta, di democrazia rappresentativa e di partecipazione dei corpi intermedi e delle parti sociali viene presentato come possibile risposta a questo nodo di fondo.

La situazione oggi. Secondo i dati dell’annuale report di Clifford Chance, l’automazione industriale, le telecomunicazioni e robotica nel 2016 hanno costituito la parte più importante delle operazioni di fusione e acquisizione tra aziende nel mondo, sfiorando i 700 miliardi di dollari. Secondo Mergermarket, punto di riferimento per gli operatori del mercato internazionale delle fusioni e acquisizioni, in un anno di calo generalizzato (-19% sul 2015), il comparto tecnologico ha messo a segno una crescita del 3% rispetto all’anno precedente. Tra i settori di maggior rilievo  del M&A (merger and acquisition) mondiale, quello della tecnologia, dei media e delle telecomunicazioni è senz’altro il principale. Tra i Paesi europei in testa nella graduatoria c’è la Germania (nella percezione delle imprese estere, a parità di tecnologia, il marchio di un’azienda dell’automazione tedesca vale il 20% in più di quello di una italiana), ma l’Italia ha comunque registrato la sua seconda miglior performance dal 2007. La Cina, protagonista assoluta del 2016, non cerca più risorse naturali, ma partner nell’automazione industriale e nelle tecnologie più innovative.
Numerose indagini segnalano un crescente interesse per le eccellenze italiane del comparto tecnologico da parte degli investitori esteri, i quali  tuttavia non sondano il terreno in generale, ma guardano direttamente a quelle imprese che già conoscono (ciò potrebbe significare che “l’innovazione made in Italy”, di per sé, non è ancora un brand capace di attrarre investimenti)
Con il Piano nazionale su investimenti, produttività ed innovazione “Industria 4.0” l’Italia si impegna su diversi livelli. Da un lato si pone una sfida conoscitiva, nella quale lo Stato dovrebbe giocare un ruolo sussidiario[11], aiutando le imprese a conoscere le tecnologie nelle quali investire, in particolare fornendo al sistema delle piccole e medie imprese italiane gli strumenti necessari a costruire un “ecosistema” con attori in grado di sostenere gli sforzi delle realtà imprenditoriali che intendono investire. In assenza di una rete in grado di sostenere gli sforzi messi in campo dalle imprese che si fanno carico del rischio connesso agli investimenti, questi ultimi potrebbero non dare i risultati attesi. Altra sfida riguarda l’adeguamento di competenze richiesto dall’innovazione tecnologica: la digitalizzazione dell’industria non può prescindere da una adeguata formazione e riqualificazione del capitale umano. L’obiettivo di formare adeguatamente le risorse umane in vista delle specifiche competenze richieste da una industria digitalizzata è presente nelle azioni del Governo, che dovrebbe attivare la filiera dell’istruzione con azioni strategiche, utilizzando il Piano nazionale scuola digitale, valorizzando lo strumento dell’alternanza scuola-lavoro, utilizzando sia i percorsi universitari che quelli offerti dagli istituti tecnici, potenziando i dottorati e sviluppando poli di digital innovation.
La vera sfida che Industria 4.0 comporta, riguarda, più che la tecnologia, il lavoro[12]. Essa potrà essere affrontata nella misura in cui la tecnologia non si ponga come strumento di sostituzione dei lavoratori, ma sia capace di abilitarne le competenze, la creatività e l’autonomia. Occorre che il sistema-Paese riesca a trovare un equilibrio tra investimenti in tecnologia e investimenti in competenze, in modo da porre il lavoratore – a valle di una crisi economica, sociale, globale ed epocale - in una nuova centralità nei processi produttivi. La causa principale della produttività stagnante non si rinviene tutta nella scarsa quantità/qualità degli investimenti in tecnologia, ma nella mancanza di una diffusa organizzazione del lavoro in grado di implicare la piena partecipazione dei lavoratori e lo sviluppo costante delle loro competenze professionali, in particolare digitali, indispensabile per poter tenere il passo con l’organizzazione del lavoro che cambia. L’unico elemento che emerge sistematicamente come cruciale nell’attenuare i fenomeni di spiazzamento/ sostituzione nel mercato del lavoro è dato dall’istruzione e dalla formazione. Nel breve periodo, infatti, e in determinati settori produttivi, l’innovazione può avere effetti dirompenti soprattutto per quei lavoratori non in possesso di competenze e qualifiche necessarie per ricollocarsi facilmente in nuove occupazioni e in settori emergenti. 

La “quarta rivoluzione industriale” che il Governo ha inteso avviare non può prescindere dai necessari investimenti in capitale umano attraverso azioni strutturate e risorse da destinare a istruzione e formazione. Il Programma Nazionale di Riforma può andare in questa direzione solo nella consapevolezza che l’introduzione anche massiccia di sofisticate tecnologie, dove non sostenuta da adeguati investimenti in competenze, potrebbe condurre a una riduzione di occupati (anche se, ad oggi, non si dispone di dati che correlino in modo diretto lo sviluppo tecnologico all’aumento della disoccupazione), mentre l’obiettivo è di attivare una radicale trasformazione del lavoro che si traduca in maggiore produttività, domanda e occupazione[13]. La questione da affrontare è come prepararci alla transizione e come fare in modo che le innovazioni tumultuose in atto possano trasformarsi in un opportunità, agevolando la creazione di nuova occupazione.

Perché il processo di sviluppo e l’innovazione tecnologica siano il motore della crescita, devono tenere conto delle implicazioni sul mercato del lavoro[14].  L’ingresso sul mercato del lavoro delle generazioni “nate con i pc” comporterà una revisione della concezione di lavoro manuale alla quale siamo abituati, con uno spazio diverso affidato alla gestione individuale e collettiva delle competenze in tecnologia e intelligenza artificiale. Più che “impedire lo sviluppo tecnologico”, dunque, diventa strategico l’investimento in politiche attive efficaci, che guidino la forza lavoro attraverso una “riqualificazione permanente” e l’acquisizione di soft-skill, ossia di competenze effettivamente spendibili in un mercato del lavoro in continua trasformazione e adatte a restare flessibili per affrontare i cambiamenti. Già diversi anni fa lo aveva preconizzato Marco Biagi nell’ideare ‘lo statuto dei lavori’[15].

I dati, dall’altra parte, sembrerebbero evidenziare che i Paesi OCSE che più rapidamente stanno automatizzando i processi produttivi mostrano un tasso di disoccupazione molto contenuto, mentre i Paesi ad alto tasso di disoccupazione e bassi livelli occupazionali sono quelli in cui l’automazione dei processi è ancora molto lenta.

In merito alla relazione fra nuove tecnologie dell’informazione e perdita di posti di lavoro, Bessen[16] analizza i dati degli ultimi due secoli dell’economia americana e mostra che l’introduzione dei computer nei processi produttivi ha portato a una diminuzione dell’occupazione nelle industrie manifatturiere, e a un relativo incremento dell’occupazione negli altri settori economici.
Sembrerebbe dunque che le nuove tecnologie portino a un incremento dell’occupazione soltanto sotto due condizioni: mercati sufficientemente concorrenziali e  elasticità della domanda sufficientemente elastica, ossia quando al diminuire del prezzo la quantità domandata aumenta sensibilmente. Infatti il progresso tecnico da un lato riduce il lavoro necessario per produrre una unità di prodotto, dall’altro lato sui mercati competitivi tende a ridurre i prezzi. A fronte della diminuzione di prezzi, se il prodotto ha una elasticità della domanda sufficientemente elevata, le vendite aumentano al punto da richiedere un incremento di lavoro che controbilancia l’effetto produttività delle tecnologie.
I settori che tipicamente presentano elevata elasticità della domanda sono quelli in cui la domanda non è completamente soddisfatta dall’offerta (ad esempio alcuni settori non manifatturieri), mentre i settori saturi presentano una bassa elasticità (ad esempio il settore automobilistico). Solo se l’impresa decide di congelare i propri incrementi di produttività senza alterare il proprio modello competitivo e senza reinvestire in nuova capacità produttiva, si avrà una perdita netta di lavoro. Se invece l’impresa traduce gli incrementi di produttività in nuova strategia competitiva, ad esempio abbassando i prezzi di vendita e aumentando la quota di mercato e la produzione, si tende ad avere creazione di occupazione.
Le evidenze empiriche occupazionali e la capacità di tenuta dei modelli scientifici vanno inoltre “accompagnati” da un’attenta lettura dei trend demografici, che comporterà e sta già comportando un progressivo restringimento dell’offerta di lavoro in alcune aree del pianeta[17].

 

Conclusione. Nel volume di Salvatore Zecchini, citato all’inizio di questa nota, dopo un raffronto internazionale, vengono fornite indicazioni per una migliore politica di innovazione dell’Italia: a) migliorare la governance e definire una strategia; b) istituire un’agenzia per l’innovazione con compiti operativi; c) stimolare l’offerta di ricerca ed innovazione alle imprese; d) sviluppare la domanda di ricerca ed innovazione sia privata sia pubblica; e) creare un contesto favorevole all’innovazione; f) trovare più efficaci modalità di intervento e di finanziamento; g) potenziare la valutazione economica degli interventi. A queste indicazioni è opportuno aggiungere: a) una valutazione delle ricadute occupazionali e formative degli interventi con la partecipazione dei corpi intermedi e delle parti sociali; b) la revisione, ove necessario, delle norme lavoristiche per accompagnare e facilitare le trasformazioni.
Nella sua funzione di alta consulenza al Governo ed al Parlamento, il CNEL può avere un ruolo non secondario in questo processo.


APPENDICE
I ROBOT DEVONO PAGARE LE IMPOSTE?

I robot devono pagare le imposte? Non è stata solo una boutade di Bill Gates il fondatore di Microsoft, l’uomo più ricco del mondo. «Oggi se un essere umano guadagna 50 mila dollari all’anno, lavorando in una fabbrica, deve pagare le imposte. Se un robot svolge gli stessi compiti, dovrebbe essere tassato allo stesso livello». Messa così può sembrare quasi una provocazione. Ma, intervenendo alla Conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera, Gates si proietta nel futuro ormai prossimo: «Non ritengo che le aziende che producono robot si arrabbierebbero se fosse imposta una tassa. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale può generare profitti con risparmi sul costo del lavoro». Il miliardario americano, sembra di capire, prospetta una doppia imposizione. Dovrebbero pagare un prelievo extra le aziende che costruiscono i robot e, poi, le imprese che li installano per sostituire la manodopera di uomini e donne. Solo negli Stati Uniti circa otto milioni di posti potrebbero essere bruciati dall’automazione. In Gran Bretagna, secondo alcune stime, sarebbero addirittura 15 milioni. Le previsioni, però, sono molteplici e non tutte concordanti. Uno studio di McKinsey giunge alla conclusione che, se si considera «l’attuale tecnologia», solo il 5% delle occupazioni attuali verrebbe cancellato dai robot.
Altre stime parlano di un 38% delle occupazioni negli USA (35% in Germania e 30 % in Gran Bretagna) che verrebbero sostituite entro il 2030 dall’automazione e altre stime ancora prevedono che chi entra oggi sul mercato dovrà cambiare tra le 5 e le 7 occupazioni. Il ragionamento, naturalmente, deve tenere conto dei progressi tumultuosi e allora la soglia di sostituzione tra uomo e macchina può salire fino al 45%. Il dibattito è in pieno sviluppo su piani diversi. Dall’aspetto filosofico, con la tesi del trionfo finale della tecnica, sostenuta da Emanuele Severino, a quello tributario, alle implicazioni etiche, esiste già una letteratura sterminata.
Al termine della presente nota è riportato un elenco dei testi scaricati più frequentemente.
Il testo più utile, conciso e più direttamente mirato al tema è quello di Ryan Abbot e di Bret N. Bogenschneider, University of Surrey, messo sulla rete il 24 marzo (per averlo basta scrivere a drryanabbot@gmail.com.).
In sintesi, il lavoro sottolinea che le tecnologie oggi esistenti possono automatizzare gran parte delle funzioni del lavoro. Il loro costo decresce, mentre quello del lavoro umano aumenta. Questa determinante, unitamente al progresso tecnico in materia di informatica, intelligenza artificiale e robotica, inducono a prevedere che ci saranno perdite significative di posti di lavoro, un peggioramento della disuguaglianza dei redditi e la riallocazione dei dipendenti sostituiti dall’automazione in posizioni che richiedono meno competenze, producono meno e danno salari inferiori. Coloro che hanno  responsabilità politiche stanno dibattendo come trattare questi temi: gran parte delle proposte riguardano gli investimenti in formazione o nella spesa sociale per attutire le conseguenze dell’automazione, e i nuovi modelli di welfare che si rendono necessari per tamponare situazioni di in-out dal mercato. Secondo Abbot e Bogenschneider l’importanza della politica tributaria è stata sottovalutata. A loro parere i sistemi tributari incentivano l’automazione anche quando non è socialmente efficiente. Infatti, gran parte del gettito proviene dall’imposta sul reddito, un’imposta che i robot non pagano, grazie a sistemi tributari che tassano il lavoro piuttosto che il capitale. I robot sono, quindi, pessimi contribuenti. Secondo i due autori occorre cambiare rotta: il sistema tributario deve essere almeno neutrale tra lavoro e capitale, ossia tra lavoro dei robot e degli esseri umani. Ciò può essere realizzato abolendo le deduzioni o detrazioni tributarie per l’automazione, oppure introducendo un’imposta sull’automazione, oppure aumentando le imposte sulle persone giuridiche, o meglio ancora combinando queste proposte.
In Italia, fu a suo tempo formulata una proposta[18] concernente la neutralità del fisco rispetto alla scelta lavoro/capitale, che intendeva sostituire i contributi sociali con l'imposta sul valore aggiunto prodotto e distribuito dalle imprese, indipendentemente dalla combinazione produttiva scelta (labour saving o capital saving) e trovò attuazione a livello regionale con l’introduzione dell’IRAP.
Per affascinanti che siano queste proposte, esse hanno il profumo del luddismo, quel movimento di protesta operaia sviluppatosi all'inizio del XIX secolo in Gran Bretagna, caratterizzato dal sabotaggio della produzione industriale. Macchinari  come il telaio meccanico, introdotti durante la rivoluzione industriale, erano infatti considerati una minaccia dai lavoratori salariati, perché causa dei bassi stipendi e della disoccupazione. Il nome del movimento deriva da Ned Ludd, un giovane, forse neppure mai esistito realmente, che nel  1779  avrebbe distrutto un telaio in segno di protesta. Ludd divenne il simbolo della distruzione delle macchine industriali e si trasformò nell'immaginario collettivo in una figura mitica: il “generale Ludd”, il protettore e vendicatore di tutti i lavoratori salariati, oppressi dai padroni e sconvolti dalla rivoluzione industriale.

Elenco testi più scaricati sui temi affrontati dalla presente nota:
·         Jennifer Bird-Pollan (Kentucky), Utilitarianism and Wealth Transfer Taxation, 69 Ark. L. Rev. 695 (2016)
·         Marco Bonomo (Insper Institute of Education and Research), Joao De Mello (Pontifical Catholic University of Rio de Janeiro), and Lira Mota (Columbia Business School), Short-Selling Restrictions and Returns: A Natural Experiment
·         Leopoldo Fergusson (Universidad de los Andes), Carlos Molina (Universidad de los Andes), and Juan Feipe Riaño (University of British Columbia), I Evade Taxes, and So What? A New Database and Evidence from Colombia
·         Jeremiah Harris (Kent State) and William O'Brien (University of Illinois at Chicago), The Effect of the U.S. Worldwide Taxation Policy on Domestic Mergers and Acquisitions
·         Jost Heckemeyer (Leibniz Universität Hannover) and Pia Olligs (University of Cologne), 'Home Sweet Home' versus International Tax Planning: Where Do Multinational Firms Hold Their U.S. Trademarks?
·         Daniel Hemel (Chicago), Pooling and Unpooling in the Uber Economy, 2017 U. Chi. Legal Forum (forthcoming)
·         David Kamin (NYU) and Brad Setser (Council on Foreign Relations), House Plan's Bad Math: Over-Estimates of Revenue from a Border Adjustment, Tax Notes (forthcoming 2017)
·         Jacqueline Lainez (University of the District of Columbia), Holding U.S. Corporations Accountable: The Convergence of U.S. International Tax Policy and International Human Rights
·         Wayne L. Nesbitt, Edmund Outslay, and Anh Persson (Michigan State), The Relation Between Tax Risk and Firm Value: Evidence from the Luxembourg Tax Leaks
·         Dhruv Sanghavi (Maastricht University), BEPS Hybrid Entities Proposal: A Slippery Slope, Especially for Developing Countries, 85 Tax Notes Int’l 357 (Jan. 23, 2017)
·         Richard Schmalbeck (Duke), Jay A. Soled (Rutgers), and Kathleen DeLaney Thomas (North Carolina), Advocating A Carryover Tax Basis Regime, Notre Dame L. Rev. (forthcoming)
·         Anindya Sen (University of Waterloo), Smokes, Smugglers and Lost Tax Revenues: How Governments Should Respond, C.D. Howe Inst., Commentary No. 471 (Feb. 2017)
·         Antony Ting (University of Sydney), Base Erosion by Intra-Group Debt and BEPS Project Action 4's Best Practice Approach - A Case Study of Chevron, 2017 British Tax Rev. no. 1, at 80
·         Studenski Paul, Towards a Theory of Business Taxation, in J. political Economy1940




[1] Salvatore Zecchini, La Politica dell’innovazione industriale: crescita e confronti, Biblioteca di ImpresaLavoro, 2016.
[2] Why Nations Fail: The Origins of Power, Prosperity and Poverty”(Perché le Nazioni falliscono: le origini del potere , della prosperità e della povertà’ di Daron Acemoglu e James Robinson, Crown Business, 2012, e “Pillars of Prosperity: the Political Economy of Development Clusters (I pilastri della prosperità: l’economia politica dei bacini di sviluppo) di Timothy Besley e Torsten Persson, Princeton University Press, 2011.

[3] Barbara Annichiarico, Fabio Di Dio, Francesco  Felici, Francesco Nucci, Structural Reforms and the Potential Effects on the Italian Economy, Riforme strutturali ed effetti potenziali sull’economia italiana, 2012.
[4] Harold James, Kevin  O’Rourke, Italy and the First Age of Globalization, 1861-1940, L’Italia e la prima età della globalizzazione, Banca d’Italia, 2011.
[5] Giuseppe Pennisi, La valutazione economica dei sistemi educativi e formativi, in ‘Rassegna Italiana di Valutazione’, n. 46, 2010.
[6] Tra i primi, Ferenc Janossy, La Fin des Miracles Economique, La fine dei miracoli economici, Editions du Seuil, 1973; tra i secondi, Charles Kindleberger Europe’s Post War Growth: the Role of Labor Supply, La crescita nel dopoguerra in Italia: il ruolo dell’offerta di lavoro’,  Harvard University Press, 1967.

[7] Raphael Frank e Oder Galor, Technology–Skill Complementarity, Complementarità tra tecnologia e formazione, CEPR Discusssion Paper n. DP 11865, 2017.

[8] Nicholas Crafts,e Marco Magnani, The Golden Age and the Second Globalization in Italy, ‘L’età dell’oro e la seconda globalizzazione in Italia, Banca d’Italia 2011.
[9] Jan Werner Müller, L’enigma democrazia. Le idee politiche nell’Europa del Novecento, Einaudi, 2012.
[10] Wolfgang Steeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, 2013.
[11] “Industria 4.0, il piano del Governo e la mappatura delle imprese”, Bollettino Adapt del 26 settembre 2016.
[12] “Lavoro, vera sfida di Industria 4.0”,  Bollettino Adapt del 3 ottobre 2016.

[13] G. Dosi, M. Pereira, A. Roventini, M. E. Virgilio, Causes and Consequences of Hysteresis: Aggregate Demand, Productivity and Employment, Cause e Conseguenze dell’Isteresi, Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Laboratory of Economics and Management, febbraio 2017.

[14] Andrea Cefis, Technology at Work. The Future of Innovation and Employment, di Frey e Osborne, Oxford Martin School, 2016.
[15] Quando il tempo è galantuomo. Scritti scelti di Marco Biagi, Edizioni Lavoro, 2008.
[16] James Bessen, “Automation and jobs: when technology boosts employment”, Boston University School of Law, paper n. 17-09, 2017.
[17] G. Cazzola, Il progresso tecnologico non uccide il lavoro ma lo trasforma, in Bolletino Adapt, marzo 2017.
[18] A. Di Majo, Struttura economica e struttura tributaria :il prelievo sulle imprese in AA.VV., Il sistema tributario oggi e domani, F. Angeli 1986, anche in Temi di discussione del servizio studi della Banca d'Italia , n.59, 1986, pp.1-100.