lunedì 29 gennaio 2018

I Pink Floyd vanno all'Opera (di Roma) in Il Sussidiario del 30 gen



L'EVENTO/ I Pink Floyd vanno all'Opera (di Roma)

Un balletto impostato sulle musiche celeberrime del gruppo rock dei Pink Floyd, ma non è una novità. Questa volta si distingue per una coreografia di grande bellezza. GIUSEPPE PENNISI
Foto Yasuko KageyamaFoto Yasuko Kageyama
Chi si ricorda dei Pink Floyd, uno dei maggiori gruppi musicali rock degli anni sessanta? Nel corso di una lunga e travagliata carriera, il gruppo è riuscito a riscrivere le tendenze musicali della propria epoca, diventando uno dei più importanti della storia. Dedicatisi inizialmente alla musica psichedelica ed allo space rock, si sono successivamente specializzati nel rock progressivo, caratterizzato da una coerente ricerca filosofica, esperimenti sonori, grafiche innovative e spettacolari concerti. Una stima effettuata nel 2008 afferma che hanno venduto 250 milioni di dischi, di cui 75 milioni negli Stati Uniti. Per festeggiare i 50 anni di carriera della band, nel 2016 la Royal Mail britannica ha prodotto una serie di 10 francobolli dedicati ai migliori album del gruppo.
Del gruppo iniziale di cinque giovani (nel 1965) oggi ne sopravvivano solamente tre. Anziani e non in grande salute, non hanno potuto essere presenti alle vere e proprie ovazioni tributate, il 28 gennaio, alle loro canzoni nel paludato Teatro dell’Opera di Roma in occasione della ripresa del Pink Floyd Ballet.
Non è uno spettacolo nuovo; a Roma se ne è vista un’edizione alcuni anni fa nella stagione estiva alla Terme di Caracalla. Nacque nel 1972 a Marsiglia, al Palazzo dello Sport; davanti ad una folla in delirio, il gruppo, collocato su un palco dominante la scena, suonò in una nube di fumogeno, mentre al di sotto dei musicisti i ballerini, in accademica uniforme bianca, fornivano un contrappunto coreografico alle canzoni prescelte. L’idea iniziale era stata della figlia, allora decenne, del grande coreografo Roland Petit, il quale, dopo un’esperienza amara all’Opéra de Paris, aveva accettato l’invito di Marsiglia di creare nella città mediterranea una compagnia di balletto di grande livello. 
La bambina, appassionata dei Pink Floyd, aveva chiesto al padre di coreografarne le canzoni. Petit contattò il gruppo, scelse con loro le canzoni e ne risultò un balletto in quattro movimenti con uno gioco di luci estremamente raffinato. Dal 1972 ad oggi ha girato in tutto il mondo, a volte con i Pink Floyd che cantavano dal vivo, molto più spesso con le canzoni su nastro registrato (come al Teatro dell’Opera di Roma.
E’ coreografia di grande bellezza e che richiede anche notevoli qualità atletiche. Nello spettacolo domina la parte visiva. Tuttavia la musica dei Pink Floyd vive ancora, non solo grazie ai ricordi dei coetanei (o quasi) del gruppo ma anche allo loro influenza su musica contemporanea come quella dei Nine Inch Nails, dei Dream Theater e dei Porcupine Tree.
Il virtuosismo dei ballerini ha una grande presa sul pubblico anche perché il Pink Floyd Ballet è la seconda parte di un programma complessivo intitolato Soirée Français nella cui prima parte è stato presentato un altro balletto, raffinatissimo ma non acrobatico, firmato da Serge Lifar – Suite en Blanc, su musica di uno dei protagonisti del romanticismo francese. Èdouard Lalo, di cui si rappresenta ancora spesso (soprattutto in Francia ) l’opera Le Roi de Lys. Al pari del Pink Floyd Ballet, in Suite en Blanc - in cui danza la direttrice del corpo di ballo, Eleonora Abbagnato - non c’è un intreccio , ma esclusivamente coreografia. I ballerini sono rigorosamente in bianco e danzano su un fondale nero  sulle dolcissime note di Lalo.
Grande meritato successo.

Essere atlantici in L'Atlantico del 29 gen



Essere atlantici
http://1.gravatar.com/avatar/7a0d00b20269f859fb87932894b6a2d1?s=24&d=mm&r=gdi Giuseppe Pennisi, in Cultura, Quotidiano, del 29 Gen 2018, 07:31
http://www.atlanticoquotidiano.it/wp-content/uploads/2018/01/vesp-900x507.jpg
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Cosa vuol dire ‘essere atlantici’? e come ci si diventa? A mio avviso, ‘essere atlantici’ vuole dire coniugare libertà (per sé e per gli altri) con responsabilità (rispetto agli altri) , nonché sentirsi a proprio agio, ‘a casa propria’, sulle due sponde dell’Atlantico. Coniugando libertà con responsabilità si è necessariamente meritocratici.
Considero di essere un “uomo atlantico” perché nato nel gennaio 1942, ho vissuto metà circa della mia vita professionale nella capitale degli Stati Uniti, ed il resto prevalentemente in Italia, mia moglie è francese, i miei figli hanno “padrini” di battesimo americani e britannici, hanno tre passaporti (Italia, Usa e Francia) e votano a tre elezioni politiche, i miei amici più stretti e di più lunga data sono, oltre che italiani, americani, austriaci, britannici, tedeschi, danesi e svedesi ed hanno avuto carriere sia nel settore pubblico (nazionale ed internazionale) che privato (soprattutto insegnamento, giornalismo e banche), e mi sento egualmente a mio agio in qualsiasi grande città (non ha desiderato vivere in campagna) dei Paesi “atlantici”.
Nella mia formazione “atlantica” ha avuto una grande importanza la School of Advanced International Studies (SAIS) della Johns Hopkins University. Nel 1966-68, grazie a borse di studio, ho frequentato le sedi di Bologna (oggi SAIS Europe) e Washington. A Bologna eravamo 89; di questo totale una quarantina, dopo un anno a Bologna, proseguì per un secondo anno nella sede centrale di Washington (che allora aveva circa 250 studenti). Della quarantina, un terzo circa erano europei con borse di studio. I “bolognesi” (sia americani sia europei) avevano la tendenza di stare molto insieme perché per gli americani l’esperienza di un anno di studi e di vita Bologna era stata fondante e gli europei tendevano ad essere vicini ai loro amici statunitensi nella loro iniziazione alla vita negli USA. Al SAIS di Bologna ho, poi, tenuto corsi per una decina di anni, mentre, rientrato in Italia, perseguivo una carriera in Patria. Con i colleghi “bolognesi”, in 22 (più 10 coniugi)  abbiamo ricordato nel giugno scorso, con una riunione nella città felsinea, i cinquanta anni dal completamento dei nostri studi a Bologna. Nei cinquanta anni trascorsi, 10 sono deceduti; 22 su 79 disposti a fare un lungo viaggio per una ricorrenza di tre giorni è una percentuale elevata. Questi elementi sono stati il vero “grimaldello” per trasformarmi in un “uomo atlantico”.
Alla fine degli anni sessanta, si sognava una Comunità Economica e Politica Atlantica, con due pilastri-da un lato, l’Unione Europea (allora ancora Comunità Economica a sei Stati) e dall’altro, gli Stati Uniti; gli ‘atlantici’ erano ovviamente favorevoli ad un ampliamento della Comunità Europea, in primo luogo in Gran Bretagna. In Europa, incombeva ancora la minaccia del totalitarismo comunista. Gli Stati Uniti si stavano sempre più impegnando in una guerra in Estremo Oriente con la motivazione che il totalitarismo comunista si sarebbe esteso nell’area del Pacifico. A livello internazionale, dopo anni di difficili trattative, si concludeva felicemente il “Kennedy Round” dei negoziati multilaterali sugli scambi, da noi giovani “atlantici” vissuto come la premessa che un commercio più libero significasse anche un mondo più libero per tutti.
Da allora ad oggi sono passati alcuni decenni. L’impero comunista in Europa orientale si è sgretolato nelle sue contraddizioni. In Asia, un mercato semi-libero convive, non molto bene, con l’autoritarismo politico. Negli Stati Uniti, è al Governo, ed ha la maggioranza del Congresso, un gruppo dirigente che guarda con poca attenzione all’Europa e intende riaffermare un primato americano, al di fuori di qualsiasi partnership con l’Europa.
Può esistere ancora quella che David Calleo, un grande scienziato della politica che viveva diversi mesi l’anno in Europa (più specificatamente all’Isola d’Elba), ha chiamato, nel titolo di un suo saggio della fine degli anni settanta, l'”Atlantic Fantasy” nel senso di sogno per il quale occorre impegnarsi a fondo per vederlo realizzato?
Credo di sì, tanto più che i bacilli totalitari imperversano anche nell’Unione Europea e negli stessi Stati Uniti e, come tutti i virus, hanno mutazioni ed aggrediscono quando meno se lo ci si aspetta.
Oggi, gli uomini e le donne potenzialmente “atlantici” sono molto più numerosi di quanto lo fossero cinquanta anni fa perché le occasioni di viaggio, di studio e di attività professionale sulle due sponde dell’Atlantico sono molto più frequenti. Pochi di loro, però, perseguono carriere nella vita pubblica in primo luogo perché – come hanno documentato studiosi italiani che vivono ed insegnano negli Stati Uniti – nella politica imperversa la “mediocrazia” che essi rifiutano e che comunque li respinge: uno degli studi più recente della University of Pennsylvania, chiama il gruppo dirigente al governo in Italia negli ultimi anni “il più mediocre” dall’inizio della Repubblica.
Mai come oggi non solo è necessario essere “atlantici” ma è urgente che gli “atlantici” si colleghino tra loro per proposte ed azioni che frenino la deriva mediocratica e diano alla partnership economica e politica atlantica la centralità essenziale nell’interesse del mondo intero.
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Giuseppe Pennisi

domenica 28 gennaio 2018

Da Pioltello a Philadelphia, la crescita che non ci aspetta più in Il Sussidiairo 29 gen



FINANZA E POLITICA/ Da Pioltello a Philadelphia, la crescita che non ci aspetta più
C'è un problema che l'Italia condivide con altri paesi avanzati: la stagnante produttività del lavoro, che influisce negativamente sull'economia. GIUSEPPE PENNISI 29 gennaio 2018 Giuseppe Pennisi
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Il recente disastro ferroviario nei pressi di Pioltello non è che un esempio, a livello micro-economico, del nodo della produttività in Italia, che ha smesso di crescere attorno al 1995 e, dopo una caduta, si è assestata dal 2007 a livelli inferiori a quelli raggiunti un lustro prima della fine del secolo scorso. Sta alle indagini dei magistrati individuare se ci sono colpe e a chi attribuirle. Tuttavia, gli elementi ci sono tutti perché un'analisi economica metta in evidenza la scarsa produttività della rete ferroviaria: a) c'erano i mezzi tecnici, a pochi passi dal binario che ha ceduto, per sostituire il tratto di binario, ma la sostituzione non è stata tempestiva; b) permangono dubbi sull'efficacia della manutenzione; c) sorgono domande sull'allocazione delle risorse tra tratti ad alto rendimento (quali quelli delle varie "frecce") e i treni per i pendolari; d) emergono interrogativi sulla saggezza della fusione tra Ferrovie dello Stato e Anas e sull'opportunità delle nomine di vertice fatte da un Governo in ordinaria amministrazione, nonché della decisione presa circa due anni e mezzo fa di smantellare il gruppo tecnico che componeva la "struttura di missione" per l'attuazione della "legge obiettivo"; e) soprattutto, appare una certa disorganizzazione. Tutti elementi che incidono negativamente sulla produttività e che non vengono curati da un aumento delle spese per ricerca e sviluppo.
Se dalla tragedia di Pioltello andiamo agli aspetti macro-economici vediamo che il nodo della produttività riguarda tutti i Paesi industrializzati a economia di mercato, anche quelli che corrono di più, come gli Stati Uniti. Negli Usa non c'è stata una riduzione, prima, e un ristagno, poi, della produttività come in Italia ma la produttività del lavoro (quella più semplice da stimare), dopo una crescita del 2,5% dal 1995 al 2004 segna un aumento annuo appena dell'1%, nonostante lo sviluppo di grandi imprese ad alta tecnologia, nate, e localizzate, nel Nord America come Amazon, Google, Facebook e simili.
Le determinanti della riduzione della produttività negli Stati Uniti, e della sua stagnazione in Paesi come l'Italia, sono state uno degli elementi centrali della riunione annuale di circa tremila economisti iscritti all'American Economic Association tenuta all'inizio di gennaio a Philadelphia. Una selezione degli studi presentata verrà, come ogni anno, pubblicata in un numero speciale dell'American Economic Review all'inizio dell'estate, ma numerosi lavori sono consultabili in siti ad abbonamento. Possono essere utili al Governo italiano che verrà formato dopo le elezioni del 4 marzo.
L'interrogativo di fondo è perché la produttività ha rallentato, o stagnato, nonostante il forte aumento degli investimenti in ricerca. È quanto avvenuto negli Stati Uniti, come documentato in uno studio collettaneo, guidato da John Fernald della Federal Reserve Bank di San Francisco. Una spiegazione è offerta da un nuovo modello teorico presentato da Daron Acemoglu del Massachusetts Institute of Technology (Mit) e da Pascual Restrepo della Boston University. Il loro lavoro distingue due differenti tipologie di progresso tecnologico: a) quello che rimpiazza lavoro con macchine (e che crea disoccupazione e abbassa le retribuzioni di chi lavora); b) quello che crea nuove, e più complesse, attività per uomini e donne (che invece aumenta la loro produttività e i loro guadagni).
Nella storia economica queste due tipologie si sono mosse quasi di pari passo, spinte dalle forze del mercato. Tuttavia, da tempo non sono in sincronia. Le determinanti sono molteplici: il capitale ha un prezzo basso (a ragione delle varie misure di Quantitative easing) rispetto al lavoro, la fiscalità premia gli investimenti in capitale, l'attenzione delle imprese e della politica economica è soprattutto rivolta all'automazione e via discorrendo. In questi casi, si dà poco peso a nuove, e più produttive, attività per uomini e donne. Un altro elemento è che una parte significativa della forza lavoro non ha la formazione di base per essere addestrata ad affrontare le nuove attività; in questo caso, gli investimenti in ricerca e sviluppo non trovano un terreno da fertilizzare.
Un lavoro di Erik Brynjolfsson (anche lui del Mit) fa da complemento alle analisi di Acemoglu e Restrepo: quando si è alle prese con tecnologie che possono essere utilizzate in vari settori e per molteplici scopi (in gergo general purpose technologies) possono essere necessari anni perché si vedano i risultati, perché occorre non solo alfabetizzare, nelle nuove tecnologie, i lavoratori a tutti i livelli (dai più alti dirigenti alla manovalanza), ma si deve modificare "l'ambiente" (organizzazioni, gerarchie, procedure, prassi). È quanto avvenuto, ad esempio, in Europa quando negli anni Novanta e nei primi anni di questo secolo si ebbe l'introduzione diffusa della net economy, ma una proporzione significativa della forza lavoro non aveva la preparazione e ai piani alti di aziende e di Pubblica amministrazione si pensava di poter introdurre le nuove tecnologie senza modificare organigrammi, procedure e prassi.
La conclusione immediata che si trae da queste analisi è che non basta l'attenzione su investimenti in ricerca e sviluppo (come nel programma Industria 4.0) se non c'è una pari attenzione alla formazione e una ferma volontà di modificare "l'ambiente". Sul primo punto possono essere importanti i risultati della ricerca sull'occupazione dei diplomati tecnici e professionali, condotta dalla Fondazione Agnelli e dal Centro Interuniversitario di Ricerca per i Servizi di pubblica utilità, che verranno presentati a Roma il primo febbraio. Sul secondo punto, tutti debbono farsi un esame di coscienza, soprattutto le alte dirigenze.
© Riproduzione Riservata.
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sabato 27 gennaio 2018

Se fosse Trump a temere una guerra commerciale? in Formiche 27 gennaio



Se fosse Trump a temere una guerra commerciale?
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Se fosse Trump a temere una guerra commerciale?
Il commento dell'economista Giuseppe Pennisi sul Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ospite al World Economic Forum di Davos
Le cronache che giungono da Davos mostrano un presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, molto più moderato, in materia di commercio internazionale, di quanto non fosse in campagna elettorale – quando ha formulato la dottrina America First – e di quanto non apparisse dalle misure prese nei giorni scorsi.
Vale la pena ricordare che, il 22 gennaio, un decreto presidenziale ha imposto dazi elevati nei confronti di importazioni di lavatrici. A Washington, sono in cantiere misure restrittive nei confronti di siderurgia, alluminio, pannelli solari e una lunga lista di altri prodotti. Il deprezzamento del dollaro è parte di una strategia per respingere le importazioni negli Usa e stimolare, invece, l’export del made in Usa.
Cosa spiega il tono differente assunto al World Economic Forum? Non dipende certo dal contesto, ossia dall’essere tra i “grandi” dell’economia e della politica. Anzi, entrato in politica al termine di una carriera in industria immobiliare e finanza, non si è certamente sentito spaesato tra industriali e finanzieri tra i maggiori del mondo.
La determinante è, a mio avviso, differente. Ha metabolizzato, o gli è stato fatto notare, che le parole forti in tema di scambi commerciali, dazi e tariffe possono essere utili a trovare voti in Stati dell’Unione dove ci sono industrie poco competitive e alta disoccupazione, ma che da una guerra commerciale gli Usa rischiano di uscire perdenti. Non solo a ragione delle misure di ritorsione che applicherebbero altri Stati e che, nelle circostanze, verrebbero probabilmente approvate dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) nella sua funzione giurisdizionale, ma perché gli Usa rischiano l’isolamento in un mondo in cui la libertà degli scambi è vincente.
Non sono in corso negoziati multilaterali sugli scambi in seno all’Omc (come i vari rounds che si sono succeduti dalla fine della Seconda guerra mondiale), ma ci sono ben trentacinque importanti trattative o bilaterali o regionali per ridurre quel che resta dai dazi, liberalizzare le barriere non tariffarie agli scambi, eliminare gli ultimi contingenti quantitativi.
Il mondo si muove anche senza di noi, ha scritto Phil Levy del Chicago Council on Global Affairs, repubblicano da sempre e a lungo consigliere di George W. Bush per la politica economica internazionale.
Alla Casa Bianca – si dice a Washington – si comincia a temere l’isolamento commerciale degli Stati Uniti, anche e soprattutto in quanto una parte importante della business community americana teme ripercussioni negative sui propri conti economici. Numerosi industriali e finanzieri americani hanno guardato con preoccupazione l’accordo del luglio scorso tra Unione Europea e Giappone, chiamato dal premier nipponico Shinzo Abe come “la bandiera del libero mercato mentre imperversano tendenze protezionistiche”. Un messaggio chiaro ed eloquente.