martedì 23 maggio 2017

Torna lo Stato padrone? in Formiche 23 maggio



Torna lo Stato padrone?

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Torna lo Stato padrone?
L'articolo dell'economista Giuseppe Pennisi
Circa tre anni fa, su Formiche.net, presi in prestito una celebre battuta del comico romano Ettore Petrolini: “Lo ‘charme’ delle privatizzazioni è tanto discreto e tanto fine che non si vede’” Allora si parlava ancora di privatizzazioni o, come io preferisco dire, di denazionalizzazioni. Tuttavia, man mano che passavano i mesi la stima di quanto si sarebbe privatizzato nel 2014 si restringeva. A fronte di un programma di circa 20 miliardi presentato il 21 novembre 2013 (e di un programma di almeno 60 miliardi delineato in uno studio di Glocus e dell’Istituto Bruno Leoni), all’inizio di febbraio 2014 (ossia poco prima che il Governo Letta venisse rimpiazzato dal Governo Renzi), l’allora ministro dell’Economia e delle Finanze Fabrizio Saccomanni aveva ridotto la stima a 8 miliardi. Poco dopo essersi insediato a Via Venti Settembre, il suo successore Pier Carlo Padoan ha detto che si sarebbe potuto fare di più, ha parlato di cessioni di quote di Enel ed Eni, nonché di Fincantieri. Non ha azzardato alcuna stima quantitativa. Non ha neanche indicato se lo Stato avrebbe ceduto a privati lo scettro della gestione delle holding menzionate; difficile parlare di privatizzazioni se la stanza dei bottoni continua a essere al ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef). Come avviene, anche quando, come nel caso della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), l’azionista pubblico ha ‘solo’ il 30% del capitale, quanto basta per dettare strategie e programmi.
Eravamo già allora ben lontani dalle stime di novembre 2013 secondo cui le prime dismissioni avrebbero riguardato una partecipazione non di controllo di Poste Italiane ed Enav (deliberata il 24 gennaio 2014 dal Consiglio dei ministri) a cui avrebbero fatto seguito, nei prossimi mesi, quelle di Sace e Grandi Stazioni (partecipata al 59,99% dalle Ferrovie dello Stato Italiane) e quote non di maggioranza di Stm, Fincantieri e Cdp Reti, nonché di Eni.
Nonostante nel biennio 2015-2016 a livello mondiale ci siano state privatizzazioni da record (oltre 531miliardi di euro), l’Unione Europea ha rallentato il passo e l’Italia ancora di più. Non sono mancate iniziative nel nostro Paese. Nel mese di febbraio 2015, il ministero dell’Economia e delle Finanze ha ceduto a primarie banche nazionali e internazionali, attraverso una procedura di vendita accelerata (accelerated book building), un pacchetto di azioni Enel pari al 5,74% del capitale della Società, riducendo la propria partecipazione dal 31,24% al 25,50%. Sono state delineate le attività preparatorie per la privatizzazione del gruppo Ferrovie, di intesa con la società e il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, al fine di individuare le modalità più idonee per la realizzazione della privatizzazione stessa. La realizzazione delle cessioni delle quote di Poste Italiane è stata conclusa nel mese di ottobre 2015 con buoni risultati. Si è completata la privatizzazione dell’Enav.
Nel contempo, tuttavia, lo Stato è intervenuto nel salvataggio di banche di medie dimensioni (Banca Etruria, Banca Marche e via discorrendo), in quello (peraltro ancora lontano dall’essere concluso) del Monte dei Paschi di Siena e forse anche di banche venete, un tempo floride.
È in questo quadro che occorre situare il convegno organizzato dalla Commissione Industria del Senato nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani il 22 maggio. Economisti, manager di imprese ad azionariato in parte pubblico e politici erano presenti. Come ha riferito Formiche.net in sede di resoconto dell’iniziativa, hanno animato le discussioni il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, l’ex ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti, il Presidente della Cassa depositi e prestiti, Claudio Costamagna, il presidente della Fincantieri, Giuseppe Bono, e studiosi come Fulvio Coltorti, ora docente alla Cattolica ma per molti anni responsabile dell’Ufficio Studi di Mediobanca, Massimo Florio della Statale di Milano e Franco Mosconi dell’Università di Parma, già braccio destro di Romano Prodi quand’era presidente della Commissione Europea.
In effetti, tranne un’eccezione (l’intervento di Giulio Tremonti), aleggiava un’atmosfera di ‘pubblico è bello’. In questa ottica, se ben gestita, l’impresa pubblica porta lauti dividendi all’erario e resiste meglio a crisi economiche. Anzi può essere il motore ‘promozionale’ o propulsivo del privato. “Se non avessimo privatizzato tanto in passato – era questo il mormorio nei corridoi di Palazzo Giustiniani – saremmo usciti meglio e prima dalla crisi”.
Nessuno parlava di apporto, spesso distorsivo, della regolamentazione che spesso implicitamente ed in alcuni casi esplicitamente, fornisce al pubblico. Non si celava una non piccola nostalgia dello Stato imprenditore, il politico ed il dirigente pubblicano delineano, plasmano ed attuano la politica industriale. Bureacrats are still in business: così era intitolato un volume della Banca mondiale sulle resistenze ad uscire di scena di coloro un tempo chiamati bojardi di Stato o sulla rapidità a tornarci appena se ne presenti l’occasione. Nonostante in Parlamento (ed in politica in generale) ci sia stato un drastico mutamento generazionale.

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