mercoledì 1 marzo 2017

I maestri cantori tornano a Milano da Formiche mensile 1 marzo



Palchi e platee

Beckmesser

I maestri cantori tornano a Milano

Balzac era notoriamente ateo: scrisse, però, che il Meursault (il Re dei vini bianchi di Borgogna) va bevuto in ginocchio in quanto è l’unica prova dell’esistenza di Dio. Analogamente, Theodor Adorno, guida della Scuola di Francoforte, poco aveva a che spartire con il nazionalismo tedesco, anzi, era decisamente marxista. Ha scritto, tuttavia, che Die Meistersinger von Nürnberg è la più alta espressione del genio dell’occidente. Non solo condivido l’affermazione di Adorno; ma, a mio avviso, Die Meistersinger è (con le mozartiane Nozze di Figaro e poche altre) una di quelle opere al termine della cui esecuzione vorrei veder ri-iniziare. Pur se la partitura di Die Meistersinger (escludendo gli intervalli) dura poco meno di cinque ore. Dopo 25 anni, il capolavoro torna alla Scala. La trama è semplice. Nella Norimberga a cavallo tra la fine del medioevo e l’inizio del rinascimento, si svolge una gara di canto. L’orafo Pogner ha messo in palio la figlia (la 18enne Eva) che, se decide di non impalmare il vincitore, deve comunque scegliere come sposo un maestro cantore. Due 40enni i principali contendenti: il calzolaio poeta Hans Sachs e il segretario comunale, nonché occhialuto censore delle arti, Beckmesser. Eva, però, è innamorata del cavaliere di Franconia (un aristocratico, pur se non di alto rango) Walther, il quale la ricambia ma fallisce la prova necessaria per essere ammesso alla corporazione dei cantori. Sachs comprende l’amore dei giovani, rinuncia ai propri disegni su Eva e, in una lunga notte di imbrogli, addestra Walther in modo che sconfigga Beckmesser, vinca la mano di Eva e abbia sempre presente i valori della sacra arte tedesca. Su questa trama, se ne inseriscono secondarie, nonché una serie di intrighi e colpi di scena e un impagabile finale a sorpresa. Pur se storicizzata nella società tedesca alla fine del XV secolo, Die Meistersinger è una grande commedia umana con valenza generale e a-storica, ma fortemente salda ai valori dell’occidente: esalta le libertà civili ed economiche, la tolleranza, il mercato, il lavoro, l’industriosità, l’apprendimento, l’amore in tutte le sue guise, la lealtà intergenerazionale, la sacralità dell’arte e del pensiero e la continuità dei valori in un periodo di cambiamento. C’è anche un forte senso religioso, dal “do” iniziale dell’ouverture (quasi il rintocco di una campana) ai riferimenti alla provvidenza da parte del protagonista (il poeta- ciabattino Hans Sachs, per cui la rinuncia a Eva è un dono della provvidenza). Nelle circa sei ore di spettacolo (intervalli compresi), si ride e ci si commuove e si è trascinati da un flusso continuo diatonico, dove domina il contrappunto e ha un ruolo determinante la polifonia. La sua messa in scena presenta enormi difficoltà per la regia, per l’orchestra, per le voci (17 solisti, un doppio coro, un coro di voci bianche e anche un breve ma incisivo balletto). Ricordo edizioni eccellenti, ma anche alcune del tutto inadeguate. Ne ho visto e ascoltato ottime e spesso, la comprensione del testo – a volte presentato in Germania anche senza musica, ossia come una pura commedia – era agevolata dai sovra titoli, naturalmente non presenti alla Scala di 25 anni fa. Senza dubbio, conosco molto bene l’opera (piena di battute scoppiettanti e in cui il sinfonismo continuo del Wagner post-Lohengrin lascia spazio ad arie, duetti, terzetti ed a un magnifico quintetto in cui si riassume il significato del lavoro e si facilita il cambio scena tra il primo e il secondo quadro del terzo atto). L’esaltazione dei valori dell’occidente è la chiave attraverso cui si comprende Die Meistersinger anche con una conoscenza approssimativa del tedesco. Cosa di più “trasparente” si può immaginare?

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