martedì 25 ottobre 2016

Jenufa, il dramma E poi il perdono in Avvenire del 26 ottobre



Opera
Jenufa, il dramma E poi il perdono
PALERMO
In un villaggio della Moravia all’inizio del Novecento, la bella Jenufa, figliastra della Sacrestana, è corteggiata dall’aitante Steva, che, messala incinta, l’abbandona. Il fratellastro di Steva, Laça, ne è innamorato (e continua ad esserlo pur al corrente dello stato della ragazza). Per far sì che Laça non desista dai propositi matrimoniali, la Sacrestana, madrigna di Jenufa, fa morire il neonato esponendolo al freddo. L’infanticidio viene scoperto proprio durante la festa di nozze tra Jenufa e Laça, il quale si stringe ancora di più alla moglie, aiutandola a cercare speranza nonostante la riprovazione della società che li circonda. Nel grande arioso finale, perdonano insieme la Sacrestana infanticida e il gretto mondo del villaggio che, invece, sembra condannare tanto l’anziana quanto i tre giovani.
La coppia è perdonata dall’Alto. Per Leos Janácek, autore tanto del testo (tratto da un romanzo popolare) quanto della musica, Jenufa «rappresentò l’opportunità di scavare nella complessità dell’animo umano e di innovare profondamente nella scrittura musicale. Furono necessari 12 anni (e l’entusiasmo dell’intellettuale tedesco Max Brod) perché da un teatro di provincia (quello di Brno), il lavoro raggiungesse l’opera nazionale di Praga e, quindi, i maggiori palcoscenici tedeschi e Londra, per essere considerato uno dei capolavori del Novecento.
In Italia, arrivò alla Biennale veneziana del 1941. Il dramma è incentrato nel confronto tra due donne (entrambe soprano, anche se di differente tessitura): l’austera, altera e lucida ma tormentata Sacrestana e la passionale figliastra: ambedue sono riscattate dalla preghiera, Jenufa dall’Ave Maria del primo atto e dal Salve Regina del secondo; la matrigna dall’invocazione a Dio con cui inizia il secondo atto e dalla richiesta di comprensione e perdono all’Alto nel terzo. A un passo di distanza, il confronto tra due uomini (entrambi tenori, pur se di differente timbro e registro): Laça nevrotico e passionale come Jenufa e Steva, ragazzaccio amorale. Nel fondale, la gretta società morava. Nei cento minuti dei tre intensissimi atti, la partitura è in gran misura fatta di cellule musicali e di frammenti emotivi che si fondono a perfezione con il parlato in prosa; la scrittura orchestrale e vocale richiede, accanto alla tenuta d’insieme, virtuosismo da parte dei singoli strumenti. Lo spettacolo di Robert Carsen, nato ad Anversa, giunge per la prima volta in Italia. Si differenzia dalle versioni viste nove anni fa alla Scala e l’anno scorso a Bologna (per non citare che le più note). Con Patrick Kinmonth (scene e costumi), Carsen porta l’azione agli anni Quaranta o Cinquanta del secolo scorso. La scena, unica, sono pannelli a forma di porte che si trasformano nella piazza del villaggio, nella casa della Secrestana e nella scena nuda dell’arioso finale.
Sono porte in cui dal di fuori la comunità farisea assiste e commenta il dramma. Molto buona l’esecuzione musicale. Il direttore Gabriele Ferro e l’orchestra del Massimo (che ha un ottimo livello) rendono incisivo il lavoro, utilizzando sapientemente da “ostinati” di Janácek, le “figurazioni” discendenti e ruotanti. Sino allo scioglimento finale, l’arioso del perdono. Di livello tutte le voci (i numerosi comprimari agiscono da coro), specialmente Ángeles Balcan Gulín (la Sacrestana), Andrea Danková ( Jenufa), Peter Berger (Laça) e Martin Šrejma (Steva). Teatro pieno, per un lavoro che mancava da Palermo da circa 40 anni. Molti giovani. Pubblico entusiasta.
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Al Massimo di Palermo tutto esaurito per la prima nazionale del capolavoro di Janácek Regia di Carsen Sul podio Gabriele Ferro. Di livello tutte le voci

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