martedì 4 ottobre 2016

FESTIVAL VERDI/ Politica e musica nel "Don Carlo" in bianco e nero in Il Sussidiario 4 ottobre



FESTIVAL VERDI/ Politica e musica nel "Don Carlo" in bianco e nero
Pubblicazione: martedì 4 ottobre 2016
Foto di  Roberto Ricci Foto di Roberto Ricci
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Dopo alcuni anni di difficoltà il Festival Verdi di Parma riparte in grande stile: tre opere collegate tra il compositore ed il poeta e drammaturgo tedesco Friederich Schiller, numerosi spettacoli collaterali, attività per le scuole. In breve un mese intenso grazie alla capacità del management di organizzare un articolato crowdfunding con una molteplicità di piccole e grandi aziende.
L’opera inaugurale è Don Carlo, un lavoro spiccatamente politico. Gli storici dell’economia ricordano che, prima dell’attuale, ci furono altre due fasi di integrazione economica e culturale internazionale-  quella tra il 1870 ed il 1910 sulla spinta del progresso tecnologico specialmente nel settore dei trasporti e quella della Spagna di Carlo V “sul cui impero non tramontava mai il sole” grazie alle conquiste transatlantiche, ai possedimenti nelle Fiandre ed alle alleanze strategiche, tramite un complicato intreccio di matrimoni, con la Francia e la Gran Bretagna. 
Quella di Carlo V fu una stagione breve: l’Inquisizione la minò internamente (con l’istituto della delazione che distrusse la base patrimoniale dell’Impero) e la nascita degli Stati nazionali (tra cui quello delle Libere Province Unite, i Paesi Bassi) la frantumò esternamente.
Don Carlo, l’opera forse più squisitamente politica di Giuseppe Verdi, tratteggia, nella prima delle due versioni, quella in cinque atti per l’Opéra di Parigi (raramente eseguite in Italia), l’inizio della fine di questa fase di globalizzazione;  traccia, quindi, l’avvio alla deglobalizzazione mettendo in scena il decadimento degli Asburgo nel passaggio da Carlo V (nell’opera  sempre presente in spirito ma mai sul palcoscenico – non si sa se è morto o se si è invece celato al mondo, nel Monastero di San Giusto) a Filippo II in contrasto con il Grande Inquisitore e con il proprio figlio – l’”infante” Don Carlo il cui destino resta misterioso nell’affascinante ambiguo finale (si rifugia a San Giusto, ma non è chiaro se finirà nelle mani del Grande Inquisitore o, riuscirà, a porsi alla testa della rivolta nelle Fiandre).
Don Carlo  è la grande ’”incompiuta” di Giuseppe Verdi. Lo è più di altre sue opere più volte rielaborate nel corso degli anni quali Simon Boccanegra, La forza del destino e Stiffelio. E’ la sola che non ha avuto una versione definitiva se non si considera tale quella “di Modena” del 1886 che riprendeva in versione ritmica italiana, ma scorciandola, l’edizione originale parigina del 1867; l’ur-Don Carlo parigino richiede circa 7 ore di spettacolo, include  mediocri ballabili; i tentativi di riesumarla, in lingua originale e con il lungo (25 minuti) ballo del terzo atto, quaranta  anni fa a Boston (grazie a quella diavoloccia di Sarah Caldllwell), e quasi contemporaneamente a La Fenice , nonché un quarto di secolo fa a Torino ed in disco per la bacchetta di Claudio Abbado sono stati deludenti. 
Per ragioni di durata, in Italia è invalso l’uso di rappresentare la versione “di Milano” o “della Scala” del 1884 - in quattro, invece, che in cinque atti – da cui si perde, musicalmente e drammaticamente, l’“atto di Fontainebleau”, premessa essenziale della vicenda e soprattutto, momento onirico di ricerca dell’utopia. Viene a mancare anche il nesso con la globalizzazione: nell’atto, il giovane Don Carlo si innamora, nella foresta imbiancata dalla neve, della giovanissima Elisabetta di Valois ma non sa che essa è destinata in sposa a suo padre, Filippo II, proprio per rispondere ad un disegno geo-politico di integrazione economica, strategia e culturale (si badi ai richiami, nel secondo quadro del secondo atto, alle “canzoni saracene” ed all’eleganza e modernità nella lontana Parigi).
Sotto il profilo musicale, le tre versioni del Don Carlo sono tavolozze  di un percorso tra il melodramma  (quale codificato, proprio da Verdi, a metà ottocento)  ed  il dramma in musica compiuto quale è Aida, pur realizzata 14 anni prima del Don Carlo modenese e solo un lustro dopo quello parigino. Delle tre versioni, la parigina (che vidi nella prima messa in scena integrale, quella diretta e concertata dalla Caldwell nel 1973 ed ascoltai più volte nella registrazione di Abbado, peraltro di poco successo commerciale) è la più incompiuta: ha pagine bellissime (espunte nelle altre) quali il coro dei cacciatori ma anche lunghe sezioni in cui Verdi ha forse composto bendato (il ballabile La Perégrine). La versione “di Milano” è la più compatta ma l’afflato geopolitico (la globalizzazione che si frantuma) assume un ruolo secondario rispetto al complicato intreccio di amori, di politica di palazzo e di religione di stato. La versione “di Modena” è la più matura; ripristina l’atto di Fontainebleau; taglia i ballabili; ritocca qua e là il resto dell’immensa partitura con il senno che Verdi aveva nel 1886. E’ la versione di prammatica al Metropolitan, all’Opéra e al Covent Garden. Nell’allestimento del Festival di Salisburgo si vedrà ed ascolterà tra pochi mesi alla Scala.
Complessa, comunque, la messa in scena: non c’è bisogno solo di sei grandi voci, di diciotto comprimari, di un doppio coro ma anche di interpreti ed orchestra versati sia nel melodramma sia nel dramma in musica. Ardui i problemi della regia: nei sette quadri, otto nella versione “di Modena”, sul fondale storico della crisi dinastica degli Asburgo e su quello contemporaneo (per Verdi) di guerre d’indipendenza, si accavallano i temi della fragilità del potere, dell’intolleranza religiosa, degli amori proibiti, dell’amicizia virile leale sino alla morte.
Nel 2004 a Firenze sono state messe in scena in parallelo la versione “di Milano” del 1884 e quella “di Modena” , nell’allestimento di Visconti del 1965. Una scelta eccellente. Attenzione, però, non si tratta della versione “di Modena” in senso filologico, in quanto vengo ripristinati un paio di numeri espunti da Verdi nel 1886 probabilmente per ragioni di durata.
Il tema di fondo anticipa quanto scritto un secolo più tardi dal Premio Nobel V.S. Naipul: per l’uomo l’utopia è la cosa peggiore. Siamo sia alla dissoluzione degli Asburgo di Spagna (e, quindi, di un’era politica) ma anche e soprattutto all’eclisse dei valori.
Carlo ed Elisabetta   cercano l’utopia ma finiscono nell’adulterio, tradendo rispettivamente il padre ed il marito. Con Filippo II e la Principessa Eboli (amante del primo ma vogliosa di portare Carlo sotto le lenzuola)  intrecciano un complicato ménâge-à-quatre. Il potere politico si sgretola di fronte al Grande Inquisitore,  a sua volta cieco ed incapace del perdono. Resta un solo valore: l’amicizia virile tra Don Rodrigo e l’”infante”, ma viene stroncata dai moschettieri del Grande Inquisitore. 
Le folle assistono alla morte dell’equilibrio etico su cui si fondano sia la vita delle coscienze e degli affetti sia il significato della politica; tentano una velleitaria ribellione. A quaranta anni circa dal suo primo allestimento (allora concertato a Roma da Carlo Maria Giulini), la lettura di Don Carlo in cinque atti fattane da Luchino Visconti appare ancora molto attuale. Purtroppo, i teatri del Maggio Musicale Fiorentino ne hanno rottamato scene e costumi.
Questa lunga premessa ci porta allo spettacolo inaugurale del Festival Verdi 2016. Si è scelta la versione scaligera in quattro atti, divisa in due parti, ossia con un solo intervallo, uno spettacolo pur sempre di circa tre ore e mezza. L’aspetto più atteso era la regia di Cesare Lievi (con scene e costumi di Maurizio Balò). 
Lievi si sofferma su un punto: tratteggiare una corte in lutto. I colori delle scene, essenziali (lo spettacolo è coprodotto con il Carlo Felice di Genova, il Sao Carlos di Lisbona e la Opera di Tenerife e, dunque, l’apparato scenico  deve essere adattato a differenti palcoscenici), sono bianchi e grigi; i costumi (di epoca verdiana non del rinascimento spagnolo) neri e grigi. Un Don Carlo in bianco e nero ha un suo fascino. Tuttavia, tra i numerosi filoni del lavoro, Lievi non ne sceglie una dominante, che ne sia il vero fulcro. 
Di conseguenza, la regia è debole e la recitazione tentennante. A Parma sono previste repliche sino all’11 ottobre; successivamente la produzione andrà a Genova, Lisbona e Tenerife. C’è indubbiamente modo di migliorare la recitazione, ma occorre trovare un concetto centrale di regia.
Daniel Oren è sul podio, una prova complessivamente migliore di alcune precedenti in cui il Maestro ha fatto temere di essere diventato un routinier . Non un Giulini, un Mehta od un Pappano (per citare alcuni ascolti che hanno lasciato una forte impressione su di me) ma ha trovato le tinte adatte. Buona l’orchestra Toscanini. Ottimo il coro diretto da Martino Fagiani.
Tra le voci primeggiano Michele Pertusi (Filippo Secondo) e Vladimir Stoyanov (Il Marchese di Posa).Pertusi debutta nel ruolo: è applauditissimo , a scena aperta ed al calar del sipario) , in una parte piena di sfumature (dalla possente all’affettuosa) e le coglie tutte con perfezione ed eleganza. Stoyanov è un veterano di grande effetto e pèrfetta modulazione verdiana: splendida la scena della prigione ed i due duetti con il tenore. 
Quest’ultimo è José Bros, ascoltato per circa venti anni in ruoli belcantistici, più donizettiani che belliniani ,  sta effettuando una transizione verso una vocalità di pesante ma il registro è spesso più alto del dovuto. Marianne Cornetti è una Principessa Eboli di lungo corso. Serena Farnocchia non eccelle nella prima parte ma risplende nell’aria finale.
Teatro strapieno; grande successo.
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