lunedì 31 ottobre 2016

Per rilanciare l’economia servono i progetti o gli investimenti? in Formiche del 31 ottobre



Per rilanciare l’economia servono i progetti o gli investimenti?
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La legge di bilancio pone una certa enfasi sull’investimento pubblico; nel contesto è stato ritirato fuori anche il Ponte sullo Stretto di Messina. Non che manchi la necessità ed anche l’urgenza di rimettere in sesto l’infrastruttura in Europa ed anche in Italia. Per non parlare degli stessi Stati Uniti. Tuttavia, recenti dati sui risparmi mondiali e sui flussi di capitale propongono un problema già sollevato su questa testata oltre un anno e mezzo fa al momento del varo, tra tante attese, del ‘Piano Juncker’: il nodo è la disponibilità di risparmi o di progetti oppure ancora le banche di sviluppo (o ‘promozionali’) hanno difficoltà nell’incanalare risparmi verso progetti, quello che dovrebbe essere la loro funzione essenziale?
I tassi d’interesse sono arrivati a livelli che, per un periodo così lungo, non toccavano dalla fase successiva alla scoperta dell’America, quando oro, argento ed altre ricchezze provenienti dal Nuovo Mondo scatenarono la prima grande deflazione mondiale ed il declino dei Borboni di Spagna, il cui Imperatore Carlo V poteva dire “sul mio Impero splende sempre il sole”. Lo documentano i principali testi di storia economica e monetaria, lo studio monumentale di Sydney Homer e Richard Sylla A History of Interest Rates.
I bassi tassi di interesse sono di per stesso un’indicazione di abbondanza relativa di risparmi rispetto ai progetti realizzabili. Una stima recente pone ad 1,2 milioni di dollari il saving glut, la sovrabbondanza di risparmi a livello mondiale rispetto agli investimenti fattibili. Secondo un’altra stima, basata su dati del Fondo monetario internazionale, negli ultimi 24 mesi ben 750 miliardi di dollari, sono affluiti negli Stati Uniti dal resto del mondo: circa 500 miliardi vengono da operatori finanziari europei e asiatici che acquistano prevalentemente obbligazioni (titoli di stato Usa o emissioni di grande imprese come la General Electric e l’Ibm) mentre gli altri 250 miliardi sono principalmente fondi di operatori americani che ritornano a casa dati i bassi tassi d’interesse (e gli ancora più bassi rendimenti) in Europa.
Queste cifre sollevano numerosi dubbi rispetto alle politiche europee (ed italiane) in materia di investimenti a lungo termine: nonostante circa sei anni fa, le banche di sviluppo e promozionali del continente abbiano creato un Long Term Investment Club per coordinare la loro azione a favore d’investimenti a lungo termini, i frutti della loro azione ancora non si vedono. In Italia dal lontano 1999 è stato creato un apposito fondo per la progettazione, pochissimi operatori si sono rivolti allo strumento per tradurre idee, spesso vaghe ed approssimative anche se non sempre cattive, in progetti effettivamente cantierabili e realizzabili. Il savings glut ed i flussi di investimenti verso gli Stati Uniti hanno indubbiamente determinanti più vaste (quale le incertezze delle tensioni politiche ed economiche in Cina ed in Estremo e Medio Oriente e i dubbi che la Brexit non abbia segnato l’inizio di un graduale spappolamento dell’Unione Europea).
La mancanza di una platea di progetti adeguatamente preparati (con computi metrici dettagliati) e che abbiano superato tutte la procedure amministrative e siano stati affidati in seguito a gare ben fatte è una determinante su cui poco si è posto l’accento. È comunque una delle concause del fatto che i risparmi degli europei viaggino alla volta degli Usa anche per contribuire all’ammodernamento delle infrastrutture americane piuttosto che al miglioramento di quelle europee. La normativa Facta (approvata dall’Italia) è un chiaro incentivo a fare diventare gli Stati Uniti un magnete potente (e forse anche un paradiso fiscale)
È tema su cui merita riflettere.


venerdì 28 ottobre 2016

Italia, il pericolo viene dagli Usa in Il Sussidiario 31 ottobre



FINANZA E POLITICA/ Italia, il pericolo viene dagli Usa
Pubblicazione: lunedì 31 ottobre 2016
Janet Yellen (LaPresse) Janet Yellen (LaPresse)
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NEWS Economia e Finanza
Il primo e il due novembre, nel Palazzone in stile tardo fascista di Constitution Ave., N.W., in quel di Washington D.C. (denominazione esatta della capitale degli Stati Uniti), si riunisce il Comitato federale del mercato aperto (in gergo il Fomc), la massima autorità monetaria degli Stati Uniti. L’appuntamento successivo è calendarizzato per 13-14 dicembre. È altamente probabile che in nessuna di queste due riunioni verranno toccati (ossia aumentati) i tassi di interesse (ossia il federal fund rate, il tasso per le transazioni interbancarie “overnight”, di notte e a mercati chiusi, di diretta competenza del Fomc e, di conseguenza, gli altri).
Il Fomc non muoverà paglia non per ragioni economiche o finanziarie, ma strettamente politiche: aumentare i tassi una settimana prima delle elezioni o durante il transition period, quando il Presidente cede le consegne al nuovo eletto, potrebbe essere letto come interferenza sulla politica. È altamente probabile, invece, che la misura venga rinviata alla sessione del 31 gennaio-1 febbraio, dopo l’insediamento del nuovo inquilino della Casa Banca.
Che si tratti di un provvedimento non più rinviabile per troppe settimane lo affermano non solamente i dati sull’andamento interno dell’economia americana (specialmente quelli sul mercato del lavoro), ma il forte afflusso di capitali dall’estero verso gli Stati Uniti. In un documento, ancora inedito, per il Council on Foreign Relations degli Stati Uniti, Brad W. Setser, a lungo dirigente del Tesoro Usa, riassume studi tecnici sui flussi di capitale entrati negli Usa negli ultimi due anni.
Si tratta di ben 750 miliardi di dollari, una cifra pari a circa un terzo del Pil dell’Italia: circa 500 miliardi vengono da operatori finanziari europei e asiatici che acquistano prevalentemente obbligazioni (titoli di stato Usa o emissioni di grande imprese come la General Electric e l’Ibm), mentre gli altri 250 miliardi sono principalmente fondi di operatori americani che ritornano a casa dati i bassi tassi d’interesse (e gli ancora più bassi rendimenti) in Europa.
Ancor più interessante, l’analisi monumentale di Sydney Homer e Richard Sylla A History of Interest Rates (Whiley Finance 2007), un lavoro che in queste settimane andrebbe letto e riletto: i due studiosi tracciano la storia di cinquemila anni di tassi di interesse (dai tempi dei Sumeri a oggi); quella rilevante è dalla fine del Medio Evo e, soprattutto, dall’inizio del Rinascimento (quando l’Italia, specialmente Firenze e Siena, dettavano la rotta in materia di tassi d’interesse). Come mostra il grafico a fondo pagina, i tassi (in termini sia di tasso di sconto che di rendimento delle obbligazioni) non sono mai stati così bassi dai decenni successivi alla scoperta dell’America quando l’afflusso di oro, argento e altri preziosi dal “Nuovo Mondo” provocò quella che in termini moderni si definirebbe una grande e lunga deflazione.
Kevin A. Hassett, in uno degli ultimi fascicoli della National Review, sottolinea, in un editoriale, come ormai la svolta sia imminente. Hassett ne scava gli aspetti per le politica monetaria americana. Setser si sofferma sul savings glut (l’eccesso di risparmi rispetto alle possibilità di investimenti) che a livello mondiale supererebbe 1,2 milioni di miliardi di dollari, il livello raggiunto (è al tempo stesso un segnale e un avvertimento) alla vigilia della crisi finanziaria del 2008, quando il glut fu all’origine di investimenti spericolati (dal subprime lending ai derivati più complessi e più opachi).

Rendimenti mai così bassi in Europa dai tempi della scoperta dell’America Così i capitali «emigrano» negli Usa in Avvenire 29 ottobre




Rendimenti mai così bassi in Europa dai tempi della scoperta dell’America Così i capitali «emigrano» negli Usa
In un documento per il Council on Foreign Relations degli Stati Uniti, Brad W. Setser, a lungo dirigente del Tesoso Usa, riassume studi tecnici sui flussi di capitale entrati negli Usa negli ultimi due anni. Si tratta di ben 750 miliardi di dollari, una cifra pari a circa un terzo del Pil dell’Italia: circa 500 miliardi vengono da operatori finanziari europei e asiatici che acquistano prevalentemente obbligazioni (titoli di stato Usa o emissioni di grande imprese come la General Electric e l’IBM) mentre gli altri 250 miliardi sono principalmente fondi di operatori americani che ritornano a casa dati i bassi tassi d’interesse (e gli ancora più bassi rendimenti in Europa).
Ciò pone una serie di interrogativi. In primo luogo, all’approssimarsi delle elezioni presidenziali americane, i flussi di capitali attraverso l’Atlantico ed il Pacifico alla volta dell’ultima spiaggia americana hanno una battuta di arresto o una flessione in attesa di sapere chi sarà il vincitore. L’accelerazione può spiegarsi nel senso che questa volta, pur con accenti molto differenti, i due canditati si sono espressi apertamente in favore dell’'investing in America first' (innanzitutto investire negli Usa) e hanno minacciato di rafforzare le penalizzazioni (già in vigore) nei confronti di cittadini americani residenti all’estero che investono In secondo luogo, i mercati asiatici mostrano turbolenze; pochi credono in una crescita del 6,7% del Pil cinese ed altri Paesi della regione sono in serie difficoltà. In terzo luogo, l’Europa preoccupa gli operatori americani ed internazionali per il rischio di sfaldamento dopo la Brexit, di scarsa disciplina nell’eurozona e, soprattutto, di sovrabbondanza di risparmi rispetto alle occasioni d’investimenti.
Il vero e proprio tracollo dei tassi ha per intensità un unico precedente: il periodo successivo alla scoperta dell’America. Ciò fa sorgere ragionevoli dubbi anche sul fatto che la politica monetaria non convenzionale (quale il QE) possa avere effetti su un’economia che sarebbe invece alle prese di una sovrabbondanza di risparmi rispetto alle opportunità d’investimenti. Nell’immediato, ciò pone un ulteriore dubbio: quanto ci si può aspettare, in termini di gettito, dalla voluntary disclosure in una fase in cui i capitali vanno oltre oceano, spinti da aspettative di benefici maggiori di quelli di un ritocco tributario?
Giuseppe Pennisi
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://charts.stocktwits.com/production/original_32424681.jpg?1423500593

Il vero e proprio tracollo dei tassi ha per intensità un unico precedente : il periodo successivo alla scoperta dell’America . Ciò fa sorgere ragionevoli dubbi anche sul fatto che la politica monetaria ‘non convenzionale’ (quale il Q.E,) possa avere effetti su un’economia che sarebbe invece alle prese di un saving glut (sovrabbondanza di investimenti rispetto alle opportunità d’investimenti). Nell’immediato, ciò pone un ulteriori dubbio: quanto ci si può aspettare, in termini di gettito, dalla voluntary disclosure in una fase in cui i capitali vanno oltre oceano,spinti da aspettative di benefici, maggiori di quelli di un ritocco tributario?.


In un documento per il Council on Foreign Relations degli Stati Uniti, Brad W. Setser, a lungo dirigente del Tesoso Usa, riassume studi tecnici sui flussi di capitale entrati negli Usa negli ultimi due anni. Si tratta di ben 750 miliardi di dollari, una cifra pari a circa un terzo del Pil dell’Italia: circa 500 miliardi vengono da operatori finanziari europei e asiatici che acquistano prevalentemente obbligazioni (titoli di stato Usa o emissioni di grande imprese come la General Electric e l’IBM) mentre gli altri 250 miliardi sono principalmente fondi di operatori americani che ritornano a casa dati i bassi tassi d’interesse (e gli ancora più bassi rendimenti in Europa).
Ciò pone una serie di interrogativi. In primo luogo, all’approssimarsi delle elezioni presidenziali americane, i flussi di capitali attraverso l’Atlantico ed il Pacifico alla volta dell’ultima spiaggia americana hanno una battuta di arresto o una flessione in attesa di sapere chi sarà il vincitore. L’accelerazione può spiegarsi nel senso che questa volta, pur con accenti molto differenti, i due canditati si sono espressi apertamente in favore dell’'investing in America first' (innanzitutto investire negli Usa) e hanno minacciato di rafforzare le penalizzazioni (già in vigore) nei confronti di cittadini americani residenti all’estero che investono In secondo luogo, i mercati asiatici mostrano turbolenze; pochi credono in una crescita del 6,7% del Pil cinese ed altri Paesi della regione sono in serie difficoltà. In terzo luogo, l’Europa preoccupa gli operatori americani ed internazionali per il rischio di sfaldamento dopo la Brexit, di scarsa disciplina nell’eurozona e, soprattutto, di sovrabbondanza di risparmi rispetto alle occasioni d’investimenti.
Il vero e proprio tracollo dei tassi ha per intensità un unico precedente: il periodo successivo alla scoperta dell’America. Ciò fa sorgere ragionevoli dubbi anche sul fatto che la politica monetaria non convenzionale (quale il QE) possa avere effetti su un’economia che sarebbe invece alle prese di una sovrabbondanza di risparmi rispetto alle opportunità d’investimenti. Nell’immediato, ciò pone un ulteriore dubbio: quanto ci si può aspettare, in termini di gettito, dalla voluntary disclosure in una fase in cui i capitali vanno oltre oceano, spinti da aspettative di benefici maggiori di quelli di un ritocco tributario?
Giuseppe Pennisi
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Il vero e proprio tracollo dei tassi ha per intensità un unico precedente : il periodo successivo alla scoperta dell’America . Ciò fa sorgere ragionevoli dubbi anche sul fatto che la politica monetaria ‘non convenzionale’ (quale il Q.E,) possa avere effetti su un’economia che sarebbe invece alle prese di un saving glut (sovrabbondanza di investimenti rispetto alle opportunità d’investimenti). Nell’immediato, ciò pone un ulteriori dubbio: quanto ci si può aspettare, in termini di gettito, dalla voluntary disclosure in una fase in cui i capitali vanno oltre oceano,spinti da aspettative di benefici, maggiori di quelli di un ritocco tributario?.