martedì 26 luglio 2016

CONTRATTI RAI/ Canone e stipendi "affondano" il referendum di Renzi i Il Sussidiario 27 luglio



CONTRATTI RAI/ Canone e stipendi "affondano" il referendum di Renzi
Pubblicazione: mercoledì 27 luglio 2016
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Per il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, il 25 luglio 2016 deve essere considerato come un giorno infausto. Non perché il Gran Consiglio del Pd (sigla per indicare Partito Diviso) o qualche altro organo lo abbiano defenestrato, ma poiché nei sondaggi si è verificato lo switchinh value: i No al referendum (ancora non proclamato) hanno superato i Sì. Qual è la goccia che ha fatto traboccare il vaso? Proprio nel giorno della scadenza perentoria del 730 (e quindi quantomeno di pagamenti di "anticipi" per l'imposizione tributaria del prossimo anno), si approssima il versamento dell'imposta più odiata dagli italiani: il canone Rai. E al danno si aggiunge la beffa: la pubblicazione dei maxi-stipendi Rai anche di volti una volta di punta (non si sa perché), ma da anni senza incarico. 
È normale - dicono gli psicologi e gli studiosi dell'economia comportamentale - che gli elettori considerino tutto ciò insulto che si aggiunge al danno (di pagare sia come contribuenti in generale, sia tramite l'imposta di scopo) e, quindi, a torto o a ragione, se la prendano con chi è al Governo, quale che sia la sua parte politica, anche se in questo caso è semplicemente erede di una "mela avvelenata" servitagli in passato. 
Come cantava Rita Pavone in Giamburrasca nella televisione ai tempi della Rai diretta da Ettore Bernabei, un popolo affamato / fa la rivoluzion. E in un Paese che ristagna e nelle classifiche europee è penultimo (prima solo della malridotta Grecia), per gran parte degli italiani fare la rivoluzion vuol dire, a ragione o a torto, mandare a casa gli inquilini di palazzo Chigi. Soprattutto se si sono impegnati a cercare un lavoro distinto e distante dalla politica. Chi viaggia verso il No, aggiunge un lavoro "da comune mortale". Il "caso Rai" sta avendo un effetto tale nei sondaggi non solo perché le retribuzioni superano mediamente del 40% quelle in organizzazioni simili del resto d'Europa, ma per i casi di dipendenti che, accantonati da tempo, fruiscono, pur nella posizione "senza incarico", di stipendi che i "comuni mortali" considerano, a ragione o a torto, da sogno. 
A palazzo Chigi si sta correndo ai ripari con un decreto che fissi un tetto analogo a quello dei compensi dei dirigenti pubblici e delle autorità di garanzia. In effetti, tale tetto esisteva, ma è stato rimosso quando la Rai ha emesso obbligazioni per 350 milioni di euro. Basta emettere obbligazioni per uscire dal "perimetro pubblico"? Tanto più che la Rai è una Società per azioni a totale partecipazione pubblica che non solamente si finanzia in parte con un'imposta di scopo, ma con la quale lo Stato, tramite il ministero dello Sviluppo economico, stabilisce un contratto di servizio per stabilire le attività di servizio pubblico nel territorio della Repubblica. E inoltre è controllata da una Commissione Parlamentare, il suo Consiglio d'Amministrazione è di nomina pubblica e uno dei componenti è indicato direttamente dal ministro dell'Economia e delle Finanze.
Matteo Renzi e il Governo dovrebbero ripetere il blitz fatto lo scorso novembre con la Scuola nazionale dell'amministrazione, la cui giungla retributiva assomigliava a quelle dei romanzi di Salgari. Basta prendere il Dpcm del 25 novembre 2015, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 19 dicembre 2015, e adattarlo alla Rai. Ai suoi dipendenti si applicherebbero la normativa e le retribuzioni del pubblico impiego con un tetto identico per i vertici e una soluzione per i "senza incarico". Facendo salvi coloro che i tribunali del lavoro giudicheranno soggetti amobbing, ai "senza incarico" verrebbero offerti tre incarichi (non necessariamente al livello stipendiale in atto); al terzo rifiuto, verrebbero inviati a fare valere la loro professionalità su quel mercato a cui "Mamma Rai" dice di ispirarsi. Ciò potrebbe minimizzare il "rischio Rai" per Renzi. Tanto più che "il partito Rai" fa solo finta di volergli bene e, se i sondaggi non sono per lui incoraggianti, non aspetta altro che scaricarlo. 


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lunedì 25 luglio 2016

Perché la Germania Orientale non è diventata un altro Mezzogiorno in Impresa Lavoro 26 luglio

Perché la Germania Orientale non è diventata un altro Mezzogiorno


Perché la Germania Orientale non è diventata un altro Mezzogiorno

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di Giuseppe Pennisi*

Vi ricordate perché e come nacque l’unione monetaria? Alla caduta del muro di Berlino, vennero preconizzate enormi spese pubbliche tedesche per evitare che i Länder orientali diventassero un nuovo Mezzogiorno.
I centri studi basati a Bruxelles pubblicarono paper su paper tratteggiando questa tesi ed anzi dipingendola ancora più fosca: per evitare il ‘”Mezzogiorno d’Europa” ai confini con la Polonia e per impedire un’ondata d’inflazione, la Germania avrebbe avuto forti deficit di bilancio e la Bundesbank alti tassi d’interesse. Tramite gli alti tassi d’interesse, avremmo pagato tutti noi parte del costo dell’unificazione tedesca. Oppure, sarebbe andato a carte quarantotto la rete di accordi europei sui cambi (in gergo giornalistico chiamata Sistema Monetario Europeo, SME).
Tale prospettiva faceva paura soprattutto alla Francia che aveva ricorso a “cambiamenti di parità” (termini elegante per voler dire “svalutazioni” in un salotto con signore di buona famiglia) e che, quasi con la stessa frequenza, cambiava Repubblica. Proprio per questa ragione (smetterla con le svalutazioni ed i cambiamenti di Repubblica), dopo una seria spending review, il 22 febbraio 1987, la Francia aveva firmato con la Germania il patto del Louvre, in base al quale la parità del franco francese con il marco tedesco sarebbe stata fissa e, in pratica,la politica monetaria della Francia sarebbe stata dettata dalla Bundesbank. Proprio nel tentativo di impedire un forte rialzo dei tassi tedeschi per sterilizzare le spese per il previsto Mezzogiorno dell’Est, la Francia propose un percorso a tappe, con parametri oggettivamente verificabili, per dare vita ad un’unione monetarie facendo diventare collegiali le decisioni di politica monetaria.
Molte voci si alzarono contro questo approccio (Alesina, Feldstein, Mundell, tra gli altri) ma quasi nessuno contro la prospettiva del Mezzogiorno dell’Est. Solamente Andrea Boltho del Magdalen College dell’Università di Oxford, Wendy Carlin dell’University College di Londra, e Pasquale Scaramozzino allora all’University College di Londra ed ora alla Università di Roma, Tor Vergata. Contro il coro a cappella (come si diceva allora) o “i gufi” (come si dice oggi), sostennero in un saggio pubblicato nel 1977 sul Journal of Comparative Economics del 1997 che non c’erano le premesse istituzionali, sociali e storiche perché i Länder orientali diventassero un nuovo Mezzogiorno.
Sono tornati sul tema con il paper Why East Germany Did Not Become a New Mezzogiorno pubblicato la settimana scorsa come CEPR Discussion Paper No. Dp 11266. Nel lavoro riesaminano la loro ipotesi alla luce dei dati di 25 dalla unificazione tedesca. Mentre in Italia in termini di reddito pro-capite non c’è stata alcuna convergenza tra il Sud e le Isole, da un lato, ed il centro-nord dall’altro (anzi la divergenza si è accentuata), nello stesso periodo i redditi medi dei Länder orientali tedeschi si sono molto avvicinati a quelli dei Länder occidentali. Le determinanti delle differenze di risultati nei due Paesi dipendono – sostengono i tre economisti – non solo da ragioni storico istituzionali, ma in diversità significative in materia di rendimento degli investimenti, flessibilità del mercato del lavoro e dello sviluppo di settori produttivi competitivi sui mercati internazionali.
*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

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Il Corriere di Victor Ciuffa in Formiche 25 luglio



Il Corriere di Victor Ciuffa
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Il Corriere di Victor Ciuffa?
Le guerre del Corriere della Sera non finiscono mai. Ora ne è in corso una sull’Offerta Pubblica di Scambio (OPS). Circa trentacinquenne anni fa, ne era un atto un’altra, cruenta, in cui olezzava odore di zolfo e logge secrete. Allora, vivevo ancora negli Stati Uniti, ma sentii risuonare alla radio una voce che conoscevo che tuonava, “Il Corriere è libero e i suoi giornalisti sono liberi!”.
Era quella di Victor Ciuffa. Lo avevo conosciuto nel 1962 sui banchi dell’Università, dove lui stava studiando per una laurea in Scienze Politiche, dopo averne conseguita una in giurisprudenza. Ci separavano dieci anni e Ciuffa era un giornalista affermato. Nonostante queste differenze stringemmo amicizia. Allora Victor lavorava per l’edizione serale, Il Corriere d’Informazione, ed era forse l’amico più stretto di Gaetano Afeltra, oltre che di Federico Fellini, il quale pare si sia ispirato a lui per il ruolo del protagonista de La Dolce Vita . Tra i 25 e i 30 anni, Ciuffa era stato cronista “mondano” (come si diceva a Roma) e conosceva tutta la high society della capitale. Viveva a Montecompatri con la madre e le sorelle, ma il lavoro comportava fare le ore piccole e, quindi, aveva un bel pied à terre a Via Borgognona. Là incontrai personaggi de La Dolce Vita, ma Victor aveva anche impiantato una piccola agenzia di analisi e commenti da dove scriveva per giornali di provincia (allora non esistevano fax) che inviava per telex. Rapidissimo, sovente li scriveva direttamente sulla telescrivente. Non ho mai compreso cosa legasse un ragazzino ventunenne come me e un trentunenne già in piena carriera come Victor. Tuttavia, per circa quattro anni ci vedemmo quasi una volta la settimana e grazie a lui collaborai a un periodico francese, Débat.
Ci perdemmo quasi completamente di vista durante i tre lustri che passai in America, mentre lui al Corriere della Sera ebbe una carriera variegata: da cronista “mondano” a inviato in zone di guerra, a redattore capo e per un periodo anche capo della redazione romana. Nei miei passaggi a Roma ci vedevamo di tanto in tanto con il collega e amico Carlo Monotti. Victor era diventato, nel frattempo, responsabile della redazione economica e aveva anche fondato un mensile (con l’aiuto della sua impareggiabile moglie, Anna Maria) e creato una casa editrice con sede in un palazzetto di Via Rasella. Mi invitò a collaborare al mensile, per cui già scrivevano vecchi amici, come Alberto Mucci e Michele Tito. Anche loro, giornalisti-signori di un’epoca ormai sparita.
Ci perdemmo di nuovo di vista. L’ultima volta lo vidi alcuni anni fa a Via Rasella, reduce di un’operazione (se ben ricordo) al ginocchio. Non aveva perso il buon umore e la fede nella vita vista sempre e comunque come dolce.
Purtroppo un impegno medico mi ha fatto mancare il suo funerale. Di lui restano cinque libri (scritti con il sostegno di Anna Maria), ma soprattutto il “tuon del suo detto” (parafrasando una celebre aria verdiana): “Il Corriere è libero e i suoi giornalisti sono liberi!”.

Come nacque la Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagniin Formiche 25 luglio



Come nacque la Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni

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Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni è una delle opere più gettonate nei festival estivi. È molto nota: si presta a rappresentazioni all’aperto, in piazza e in monumenti antichi. Cavalleria fu la prima opera composta da Mascagni ed è certamente la più nota fra le sedici composte dal compositore. Il suo successo fu enorme già dalla prima volta in cui venne rappresentata al Teatro Costanzi di Roma il 17 maggio 1890 e tale è rimasto fino a oggi.
La sua genesi è nota. Nel 1888 l’editore milanese Edoardo Sonzogno annunciò un concorso aperto a tutti i giovani compositori italiani che non avevano ancora fatto rappresentare una loro opera. I partecipanti dovevano scrivere un’opera in un unico atto, e le tre migliori produzioni (selezionate da una giuria composta da cinque importanti musicisti e critici italiani) sarebbero state rappresentate a Roma a spese dello stesso Sonzogno.
Mascagni, che all’epoca risiedeva a Cerignola, in provincia di Foggia, dove dirigeva la locale banda musicale, venne a conoscenza di questo concorso solo due mesi prima della chiusura delle iscrizioni e chiese al suo amico Giovanni Targioni Tozzetti, poeta e professore di letteratura all’Accademia Navale di Livorno, di scrivere un libretto. Targioni Tozzetti scelse Cavalleria Rusticana, una novella popolare di Giovanni Verga, come base per l’opera. Egli e il suo collega Guido Menasci lavoravano per corrispondenza con Mascagni, mandandogli i versi su delle cartoline. L’opera fu completata l’ultimo giorno valido per l’iscrizione al concorso.
In tutto furono esaminate settantatré opere e il 5 marzo 1890 la giuria selezionò le tre opere da rappresentare a Roma: Labilia di Nicola Spinelli, Rudello di Vincenzo Ferroni e Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni. Le prime due sono sparite dei repertori. La terza non solo assicurò fama non effimera a Mascagni ma anche oggi è una delle opere più rappresentate .
Sulla genesi di Cavalleria Rusticana, Gianfranco Santoro, autore teatrale, ha scritto un romanzo appena pubblicato (Tra le braccia del Padre – Qualcosa di Inaspettato su ‘Cavalleria Rusticana’- pp. 220, Zecchini Editore, € 19). Il romanzo inizia con un incontro durante un viaggio tra il venticinquenne Mascagni ed un prete siciliano, dalla tonaca sempre unta, Don Salvatore, sulla cinquantina e buon conoscitore di musica. Tra i due si stringe un’amicizia che dura sino alla ‘prima’ al Costanzi di Cavalleria Rusticana. Il coinvolgimento è tale che il sacerdote, che segue dal loggione, ne è tanto favorevolmente impressionato (pur pensando che il coro della processione del Venerdì Santo sia in parte frutto di una sua melodia) che muore dopo un ultimo incontro con il giovane compositore. La vicenda si dipana tra la Sicilia (specialmente nel catanese), la Germania (in ricordo ed evocazione) e la Campania, oltre che a Livorno e a Roma. Non c’è una trama in senso tradizionale ma un lungo dialogo tra due persone profondamente differenti ma accomunate dall’amore per la musica. Nei loro scambi di idee, infatti, ci sono riferimenti non alla musica dell’Ottocento ma anche al barocco.
Il libro si legge facilmente e consente di vedere la nascita di Cavalleria Rusticana e la personalità di Mascagni sotto una luce nuova e speciale.

Chi c'era alla prima di Sergio Mattarella all'Opera di Roma. Le foto di Pizzi