lunedì 30 maggio 2016

Banca d’Italia, cosa mi aspetto di sentire da Ignazio Visco in Formiche 31 maggio



Banca d’Italia, cosa mi aspetto di sentire da Ignazio Visco
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Banca d’Italia, cosa mi aspetto di sentire da Ignazio Visco
L'analisi dell'economista Giuseppe Pennisi
Oggi  l’Italia che crede di contare (che non coincide necessariamente con quella che ha voce in capitolo) affollerà Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia. Alcuni leggeranno con cura le “considerazioni finali” della relazione del Governatore, molti faranno finta di leggerle ma scorreranno i giornali o riempiranno la cartelle del sudoku; la grande maggioranza farà lo “struscio” come il sabato sera a Via Pretoria a Potenza, preoccupati di far vedere che hanno ricevuto l’invito, ci sono e cercano di notare chi non c’è. Il caso vuole che numerosi “accademici” marcheranno visita a ragione di un importante convegno internazionale sul debito pubblico nell’eurozona all’Università di Roma La Sapienza. Ove qualcuno mi cercasse negli afosi corridoi di Palazzo Koch, sappia che deserto la cerimonia da alcuni anni e il 31 maggio sono, invece, a Via Castro Laurenziano a studiare proposte su come ridurre il debito pubblico. Seguirò il rito di Palazzo Koch (sempre che ne valga la pena) con il mio iPad.
Nessun Paese a economia avanzata ha riti analoghi. Tra quelli in via di sviluppo qualcosa del genere avviene ancora in Angola, dove parte importante dei proventi del petrolio affluisce automaticamente alla Banca Centrale, i cui bagni hanno rubinetti dorati. Tuttavia, in seguito alla lettera consegnata dal Fondo Monetario Internazionale al ministro dell’Economia e Finanze e al Governatore della Banca d’Italia, al termine delle consuete consultazioni annuali, mi aspetterei “considerazioni finali” differenti dal solito, con meno camomilla e una buona dose di caffeina.
Perché? La lettera del Fmi sostiene, a chiare lettere, che seguendo le politiche indicate nel Documento di Economia e Finanza (Def), e ipotizzando un buon contesto internazionale (espansione del commercio internazionale, serenità in materia di tassi di cambio), il reddito nazionale dell’Italia raggiungerà il livello del 2007 attorno al 2027. In altri tempi, la stampa avrebbe gridato allo scandalo con titoli di prima pagina, ma dopo le recenti fusioni e incorporazioni, i direttori dei quotidiani sembrano narcotizzati.
Allora, non c’è da auspicarsi che, con uno scatto d’orgoglio, la Banca d’Italia rivendichi la propria indipendenza e indichi la necessità di politiche di crescita per evitare un ventennio perduto in cui il Paese sarebbe, dopo la Grecia, l’ultimo in classifica nell’Unione europea. Sempre che, dopo le ultime scosse ad Atene, non venga superato dalla stessa Repubblica Ellenica.
Ciò richiede, innanzitutto, un’azione decisa da parte dell’imposizione tributaria: il 3 giugno è il tax freedom day, il giorno in cui gli italiani smettono di lavorare per il leviathan del fisco e cominciano a lavorare e produrre per loro e per la loro famiglia. Tale tax freedom day dovrebbe essere anticipato almeno di due settimane, se possibile di un mese, per essere in linea con le economie industriali che corrono piuttosto che tra gli ultimi di quelle che arrancano. Si dovrebbe, ovviamente, cominciare dalla riduzione del cuneo fiscale.
Ciò comporta, naturalmente, una drastica e permanente revisione della spesa per eliminare quella cattiva (sprechi, ridondanze, corruzione) ed esaltare quella di alta utilità sociale. Ci sono leggi che lo prescrivono: basta applicarle. Per facilitare il compito, il Centro Studi Impresa Lavoro ha redatto una guida operativa (La Buona Spesa: dalle opere pubbliche alla spending review) in lessico a tutti accessibile. Gli strumenti quindi non mancano.
Ci sono anche lavori settoriali come Manifattura Italia (prodotto dal ministero dello Sviluppo Economico) con indicazioni per aumentare le produttività nel manifatturiero (la vera architrave economica dell’Italia), nonché analisi su come giungere a un migliore funzionamento del mercato del lavoro, dopo le delusioni del Jobs Act.
Il materiale non manca per indicare una strada di crescita. Speriamo che la Banca d’Italia lo abbia metabolizzato e faccia proposte concrete. Altrimenti, lo struscio rischierebbe di essere un tranquillante.

Gianni De Gennaro e Vittorio Grilli
Giorgio Squinzi
Alberto Nagel e Luca Cordero Di Montezemolo
Raffaele Cantone
Giuseppe Vegas
Salvatore Rossi e Ignazio Visco

Il teatro in musica conquista la capitale in Avvenire 31 maggio



Il teatro in musica conquista la capitale
GIUSEPPE PENNISI
iniziato il 27 maggio a Roma il “Fast Forward Festival” con
Schwarz auf Weiss (Nero su Bianco) di Heiner Goebbels, alla guida dell’Ensemble Modern di Francoforte. Il Teatro Argentina era pieno di giovani di tutte le età, ulteriore segno che Roma (dove in termini di ore si suona più musica contemporanea che a Berlino) si pone chiaramente tra le principali capitali della musica di autori viventi.
Il Fff non solo aggiunge al panorama romano già esistente di musica sperimentale, il teatro in musica (come fanno Parigi, Vienna, Berlino e Barcellona) ma ha due peculiarità: l’idea e la leadership sono del Teatro dell’Opera che in collaborazione con otto altre istituzioni e sedi ( Teatro Ar-È gentina, Auditorium Parco della Musica, Teatro India, Teatro Nazionale, Teatro di Villa Torlonia, Villa Medici) e alcuni istituti di cultura stranieri porta in undici giorni serrati dieci spettacoli quasi tutti in prima italiana; fornisce, grazie a una selezione accurata (da parte del direttore artistico Giorgio Battistelli) una carrellata del teatro in musica europeo e nordamericano degli ultimi cinquant’anni.
Per questa ragione, nel pubblico della serata inaugurale, si annidavano critici musicali delle principali testate specializzate britanniche, tedesche e francesi. In breve, è un evento internazionale che si fonda sul tappeto di sperimentazione musicale di numerose realtà private, dei festival di musica di oggi organizzati da “Musica per Roma” e da quelli internazionali di elettroacustica e musica elettronica che si tengono ogni anno nella stupenda sala neoclassica del conservatorio di Santa Cecilia.
Andiamo a Schwarz auf Weiss (Nero su Bianco) di Heiner Goebbels, e diretto dall’autore alla guida dell’Ensemble Modern da lui creato a Francoforte. È un lavoro del 1996. Non ha una trama nel senso tradizionale del termine, ma una forte drammaturgia: è un commiato al poeta tedesco e drammaturgo Heiner Müller (19291996), la cui voce registrata legge brani di Edgard Allan Poe, di Thomas S. Elliot e di Maurice Blanchot, mentre i diciotto solisti (prevalgono gli ottoni, i fiati e le percussioni, ma c’è anche la dolcezza del kodo giapponese) non solo suonano i loro strumenti, ma recitano e danzano (con gli strumenti e tra di loro ) e si uniscono a formare gruppi in rapide scene costruite solamente con le luci (di Jean Kalman). In breve una riflessione, di ottanta minuti, sul trapasso dall’avventura terrena all’aldilà, di grande forza espressiva e denso di passione (nonché di un pizzico di umorismo).
Una buona introduzione, salutata da sincere ovazioni dal pubblico, segno che il festival ha conquistato Roma. Nei prossimi giorni mostra La Passion selon Sade di Bussotti (del 1966), Vie de Famille di Drouet, Empty moves 1 - 2 - 3 di Preljocaj , Blank Out di Michel van der Aa, Miroirs/Ravel di Prode Inevitable, Music 5 di Roux, Il Suono ed il Gesto dell’Ars Ludi Ensemble, One Man Show di Drouet e l’attesissima Proserpina di Rihm.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
È iniziato venerdì scorso a Roma il Fast Forward Festival: nove diverse sedi si aprono per undici giorni a una vivace carrellata di sperimentazioni artistiche europee e nordamericane. L’inaugurazione con “Schwarz auf Weiss” di Heiner Goebbels
http://avvenire.ita.newsmemory.com/newsmemvol1/italy/avvenire/20160531/p293105spe1.pdf.0/img/Image_4.jpg
IN SCENA
“Schwarz auf Weiss” al Teatro Argentina di Roma
(Yasuko Kageyama Opera Roma)

Che fine faranno le fondazioni liriche?



·         Spettacolo

Che fine faranno le fondazioni liriche?

maggio 29, 2016 Giuseppe Pennisi
La Fondazione Pergolesi Spontini chiude, per il decimo anno consecutivo, il bilancio in pareggio, nonostante i suoi sponsor privati abbiano avuto difficoltà
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Tra tante brutte notizie, pessime quelle che provengono dal Maggio Musicale fiorentino, ne giunge una buona: la Fondazione Pergolesi Spontini chiude, per il decimo anno consecutivo, il bilancio in pareggio, nonostante, a ragione della crisi economica che si protrae dal 2007, i suoi sponsor privati (Banca Marche, Indesit) abbiano avuto difficoltà che hanno richiesto interventi governativi e abbiano fatto le prime pagine della stampa economica nazionale.
La Fondazione è un piccola realtà (un bilancio di 2,800 milioni di euro) ma nel 2015 ha organizzato 210 eventi, avuto 47.436 spettatori (in una città di 40.000 abitanti). Inoltre le maestranze contrattualizzate per le produzioni liriche sono state 799 per un totale di 19.466 giornate lavorative erogate. 104 le giornate di apertura del Laboratorio scenografico della Fondazione. 14.000 studenti coinvolti in progetti educativi. I dettagli del bilancio civilistico sul sito della Fondazione, dove è disponibile anche il ‘bilancio sociale’, che illustra gli effetti e gli impatti delle iniziative della Fondazione sul territorio. La fondazione ha sempre operato una forte attività di coproduzione con il circuito lombardo, altri teatri dell’Italia centrali ed anche ‘circuiti’ stranieri (per lo più quello francese di teatri ‘tradizione’). Ha sviluppo un laboratorio scenografico di qualità dove vengono approntate scene anche per altri teatri. Ed ha un’importante attività editoriale-scientifica per la pubblicazioni di edizioni critiche dei lavori di Pergolesi e Spontini.
È, a mio avviso, da prendere ad esempio per modalità di gestione. Occorre dire che gran parte della trentina di ‘teatri di tradizione’, sovente associati in ‘circuiti’,riescono a tenere i conti in regola, ad essere affollati dal pubblico, ad avere un forte supporto locale ed a produrre, a costi contenuti, spettacoli innovativi. Un quadro molto diverso da quello delle quattordici fondazioni lirico concertistiche, create in base ad una legge del 1996 che attribuisce loro ‘sovvenzioni globale’ non necessariamente in base alla produzione effettuata e programmata.
Sono stati iniettati nuovi finanziamenti dello Stato alle fondazioni che presentavano credibili piani di ristrutturazione. I casi recenti di teatri di Firenze e Verona (ambedue prossimi al collasso) dimostrano che occorre rivedere profondamente l’intervento pubblico nel settore.
A Via di Santa Croce in Gerusalemme, sede della Direzione Generale dello Spettacolo dal Vivo, si stanno studiando vari rimedi che hanno come obiettivo centrale quelle di ridurre il numero delle fondazioni lirico-sinfoniche e trasformare le altre in ‘teatri di tradizioni’, finanziati sulla base della produzione (spettacoli effettivamente realizzati). Si va dal programma più drastico: mantenere in vita solo tre fondazioni (La Scala, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, il Teatro dell’Opera di Roma) a progetti che manterrebbero una fondazione al Sud (è in atto una lotta a coltello tra il San Carlo di Napoli ed il Massimo di Palermo). Si aggiungo schemi semi-volontaristici di accorpamento più o meno volontario (Verona-La Fenice). Indubbiamente, tutto ciò è reso complicato da tensioni localistiche. C’è comunque una scadenza perentoria: la Legge di Bilancio del prossimo settembre.


Altri canti di Marte in Formiche mensile giugno

Palchi
e platee
di Beckmesser
Questa rubrica solitamente tratta
di approfondimenti musicali che
non possono essere agevolmente
contenuti in recensioni che appaiono
su altre testate. Mi si consenta
un’eccezione per dedicarla
all’ultimo libro di Paolo Isotta,
Altri canti di Marte, pubblicato da
Marsilio. È un volume che segue
di pochi mesi La virtù dell’elefante,
ma è profondamente diverso
da quest’ultimo, il cui impianto è
in grande misura autobiografico.
Altri canti di Marte, pur dedicando
i due primi scarni capitoli (un
preludio di una trentina di pagine)
a giganti del romanticismo, è un’analisi
affascinante (di oltre 400
pagine) di quello scrigno di meraviglie
– in gran misura inesplorato
– che è la musica, principalmente
italiana, del Novecento. Una tesi
che da oltre dieci anni è uno dei
temi di fondo di questa rubrica.
Come è consueto nei libri di Paolo
Isotta, l’analisi musicale serrata
è intercalata con aneddoti e con
il gusto di togliersi sassolini dalla
scarpa e dire, con grande franchezza,
le sue verità su questo o
quello. Si può o non si può essere
d’accordo su questo o su quel
punto specifico. Tuttavia, è prova
di onestà intellettuale farlo, anche
nei confronti di numi dell’empireo
musicale, ora che Isotta non è più
titolare della critica musicale del
più diffuso quotidiano italiano, un
campo dove si è spesso soggetti a
vincoli se non altro “ambientali”.
Il libro, come i precedenti quali La
virtù dell’elefante, Il ventriloquo di
Iddio, Le ali di Wieland, I protagonisti
della musica, trasuda della
napoletanità di Isotta. Beckmesser,
che aspirerebbe a essere
austro-tedesco, ma ha salde radici
nella Sicilia orientale, comprende
appieno come in tanti anni di
critica militante numerosi sassi
si sono accumulati nelle scarpe
di Isotta. L’età della serenità non
può essere tale, se tali sassi
non vengono tolti. Ma, a onta di
quanto hanno scritto altri sul libro
di Isotta, non è questo il punto
centrale.
L’architrave del libro è la rivalutazione
della musica del Novecento,
in particolare di quella italiana che
nel nostro Paese, più che in altri,
si è voluto obliare perché in gran
misura coetaneo del ventennio
fascista, come rileva Alessandro
Zignani nel libro recente La storia
negata (Zecchini Editore), e come
io stesso scrissi in un breve saggio
su La nuova antologia nel 2011. Il
paradosso è che in Italia, mentre
abbiamo riabilitato la musica
giudicata “degenerata” dai nazisti
e abbiamo allestito capolavori di
Enescu e Szymanowski, abbiamo
coperto da una fitta coltre di oblio
quella italiana dello stesso periodo.
È un oblio che si sta troppo
lentamente rimuovendo. Per dieci
anni, l’orchestra sinfonica romana
– unica orchestra interamente
privata in Europa – ha fatto conoscere
parte della magnifica produzione
sinfonica: la crisi economica
ha portato alla morte dell’orchestra
(nel silenzio della stampa),
ma fortunatamente il complesso
sinfonico ci ha lasciato meravigliose
edizioni di registrazioni integrali
(soprattutto con la casa discografica
Naxos) di Casella, Respighi,
Martucci, Sgambati e altri.
Inoltre, da una quindicina di anni,
sovrintendenti e direttori artistici di
fondazioni liriche stanno riproponendo
alcune delle maggiori opere
del periodo. Qualcosa si è fatto
con Respighi, Casella e Alfano,
ma ci sono meraviglie da riscoprire
quale L’Orfeide di Gianfrancesco
Malipiero, introvabile in Italia, ma
di cui ho trovato un CD recente
(basato su una registrazione del
1946) in una piccola casa editrice
in liquidazione nell’Auvergne (il
cuore della Francia rurale).
Il volume di Isotta deve essere
letto come un invito e una preghiera
a fare di più. Speriamo che
i direttori artistici lo raccolgano

In difesa del Ttip in Formiche mensile di giugno

67
OEconomicus
di Giuseppe Pennisi
Consigliere del Cnel e docente
presso l’Università europea di Roma


Solo in queste ultime settimane
i giornali e alcuni settori dell’opinione
pubblica si sono interessati
al Ttip, acronimo entrato nella
galassia delle sigle internazionali
che indica il Treaty for transatlantic
trade and investment parternship
(Trattato per una partnership
transatlantica su commercio e
investimenti). Seguo i negoziati
commerciali multilaterali da quando
il Gatt – predecessore del Wto
– aveva sede a Villa Le Bocage,
sulle sponde del lago Lemano ed
era di moda bere brandy & soda
quando le trattative duravano
sino all’alba (ossia quasi sempre).
Allora si era alla fine del Kennedy
round, nell’ultimo scorcio degli
anni Sessanta, e si congetturava
un’Atlantic community partnership
basata su due pilastri: gli Stati
Uniti e la Comunità europea (non
ancora diventata Unione europea).
Oggi il quadro è molto diverso. Da
un lato, il 5 ottobre scorso è stato
concluso un accordo analogo tra
gli Usa e gran parte degli Stati che
si affacciano sul Pacifico (Cina
esclusa in quanto non è un’economia
di mercato), dall’altro l’Ue ha
maggiore esigenza di un accordo
che regoli il commercio e gli
investimenti con gli Usa di quanto
non ne abbiano gli Stati Uniti; in
effetti, il presidente Obama non
sembra disposto a fare sforzi per
giungere a un’intesa prima della
fine del suo mandato. Da un altro
ancora, voci prive di una base
hanno indotto la sempre protezionista
Francia e alcuni gruppi
europei a pensare che il Ttip sia
uno strumento per introdurre in
Europa prodotti geneticamente
modificati di origine americana e a
facilitare l’acquisizione di aziende
europee da parte di finanziarie
Usa. Occorre dire ad alta voce che
si tratta di indicazioni fuorvianti:
non solo simili temi sono al di fuori
della trattativa, ma una risoluzione
del Parlamento europeo vincola
la Commissione a vigilare con
particolare attenzione che questi
aspetti non entrino dalla porta di
servizio.
Il vero rischio è che di Ttip finisca
per non parlarsene più. Ciò non
solo chiuderebbe l’enorme mercato
americano a tante Piccole e
medie imprese italiane, ma marginalizzerebbe
l’Ue nel contesto
mondiale, un’economia internazionale
che sarebbe caratterizzata da
una comunità pacifica molto forte
e, in occidente, da un continente
vecchio, stagnante e grinzoso.
Ci si taglierebbe fuori da un commercio
e da investimenti più liberi,
ingrediente essenziale per far
parte di un mondo più libero.
Non è certo facile portare a
termine il negoziato, prima, e farlo
ratificare, poi, dai Parlamenti nazionali
(il solo piccolo Belgio ne ha
sette). Il Ttip, come il suo omologo
nel Pacifico, ha un obiettivo più
vasto dell’abolizione di restrizioni:
giungere a regole comuni. Un saggio
di Richard Parker nel Columbia
journal of european law (Vol. 27,
n. 1, 2016) traccia un percorso
progressivo per forgiare tali regole
comuni, non con un unico accordo
Ttip ma attraverso una serie di
accordi articolata in un decennio.
Già ora, tuttavia, in sei importanti
settori industriali c’è un accordo
(non solo tra governi, ma anche
tra le rispettive associazioni di
imprese e lavoratori). Un’intesa
sulle barriere tariffarie è a portata
di mano. Non è difficile giungere a
regole comuni sugli appalti pubblici
e sul tema della denominazione
d’origine.
Un primo importante passo si
può compiere. Non farlo vuol dire
prendersi grandi responsabilità nei
confronti delle prossime generazioni.
In difesa del Ttip

domenica 29 maggio 2016

Il "fantasma" che allontana la ripresa dall'Italia in Il Sussidiario del 30 maggio



FINANZA E POLITICA/ Il "fantasma" che allontana la ripresa dall'Italia
Pubblicazione: lunedì 30 maggio 2016
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NEWS Economia e Finanza
Nonostante, i "timori e i tremori" per le pagelle dell'Unione europea, nessuno sembra parlare più del Fiscal compact in base al quale l'Italia avrebbe dovuto raggiungere l'equilibrio di bilancio entro il limite di un indebitamento delle pubbliche amministrazioni (transitorio) non superiore allo 0,5% del Pil (nelle previsioni del Def sfioreremo il 3%) e iniziare la discesa (a un tasso di un ventesimo l'anno del differenziale tra rapporto corrente di rapporto tra stock di debito e Pil) verso un rapporto debito pubblico/Pil del 60% (è del 130% e nei programmi di governo indichiamo che resterà stazionario).
Quando il Fiscal compact venne firmato il 2 marzo 2012 siamo stati tra i primi a ratificarlo e, in aggiunta, a varare una "legge rafforzata" di bilancio, con cui si è creato un Ufficio parlamentare di bilancio per assicurare, tra l'altro, la compliance (ossia l'applicazione rigorosa) della normativa. Il Fiscal compact prevede anche penali severe a chi non se segue il dettato. Già poco più un anno fa, Daniel Gros e Cinzia Alcidi del Center for European Policy Reform, nel saggio "The Case of the Disappearing Fiscal Compact", lanciavano le loro frecce principalmente su Francia e Italia - la prima in chiara violazione dell'accordo, mentre la seconda cerca un po' goffamente le violazioni sull'indebitamento mentre afferma che l'alto debito non è problema. Occorre ammettere anche altri Stati dell'Unione europea hanno firmato e ratificato il Fiscal compact e non ne seguono a menadito le regole.
Dall'analisi di Gros e di Alcidi la situazione non è migliorata, ma peggiorata, specialmente per Francia e Italia. Ma c'è qualcosa di peggio: di Fiscal compact non parla più nessuno. Nella recente tornata di "pagelle" dell'Ue sui programmi economici degli Stati membri, non se ne fa neanche menzione e, ovviamente, non si parla neanche di penalità previste, nell'accordo, per chi non ne applica le regole. Parte integranti come l'unione bancaria sono rimaste monche: si veda, a riguardo, il saggio di Dirk Schoenmaker della Erasmus University di Rotterdam in uscita sul Palgrave Book of European Banking. Altre, come l'unione dei mercati dei capitali, non sono mai decollate.
Se questa è la situazione non sarebbe meglio "denunciare" (in termini tecnico-diplomatici) l'accordo e non "fare finta" che esista ancora? Nessuno, specialmente gli Stati più trasgressori, pare abbia voglia di farlo. Forse per non ammettere che ha firmato un accordo sapendo, già dal primo giorno, di non ottemperare alle sue regole.
Intendiamoci bene. Non siamo difensori del Fiscal compact di cui abbiamo mostrato il carattere velleitario sin da quando il negoziato era in corso. Ora pare chiaro che non ha raggiunto i propri obiettivi in modo così palese che gli stessi "monitori" (incaricati di vigilarne l'applicazione) sono imbarazzati a parlarne.
Il Fiscal compact (anche solo il suo fantasma) è una palla al piede per l'Italia. Lo dice chiaramente il Fondo monetario nella lettera stesa al termine delle consultazioni annuali con le nostre autorità. "Il Governo, con le sue politiche, prevede di realizzare una crescita in Italia dell'1,1% quest'anno e dell'1,2% nel 2017 e nel 2018. Questa previsione corre il rischio di rivelarsi ottimistica a causa della volatilità dei mercati finanziari, del rischio Brexit, dell'aumento del fenomeno dei rifugiati, del rallentamento del commercio mondiale". Non solo: "Questo ritmo di crescita implica che l'attività produttiva tornerebbe ai livelli del 2007 soltanto alla metà degli anni Venti, allargando così con la crescita media dell'area dell'euro".
In altri termini, nelle circostanze attuali, sono essenziali politiche espansionistiche non quelle restrittive sottostanti il Fiscal compact. Occorre, indubbiamente, sgrassare la spesa pubblica di inefficienze, ma anche e soprattutto facilitare la ripresa degli investimenti più di quanto non riesca a fare il Quantitative easing della Banca centrale europea. Tutto ciò è poco compatibile con il Fiscal compact e la legge costituzionale "rafforzata" che lo accompagna.
Dal 30 maggio al 1° giugno all'Università La Sapienza di Roma si tiene un convegno internazionale sul debito dell'Eurozona: verranno presentate proposte su come ristrutturalo per casi come quello dell'Italia. Dal 2 al 5 giugno, a Trento, l'annuale Festival dell'Economia, da cui potranno uscire idee sulle politiche di crescita. Sempre che non sia stato "leopoldizzato".


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