lunedì 4 aprile 2016

Gli accordi ci sono ma non si riesce a metterli in atto in Avvenire del 5 aprile



Gli accordi ci sono ma non si riesce a metterli in atto
Circa quattro anni fa, mentre l’Inter-national Consortium of Investigative Journalists non stava ancora raccogliendo carte su carte per le proprie analisi, Roberto J. Santillián Saigado della Egade Business School a Monterrey, una delle migliori università del Messico, ha pubblicato uno studio sui paradisi fiscali nella rivista scientifica 'Journal of Global Economy'. Nella ricerca, riassunti i vari tentativi di Banca mondiale, Fmi, Ocse e dello stesso G20 e riconosciute le buone intenzioni di maggiore efficacia e trasparenza nelle regolazione finanziaria internazionale, concludeva che ci sarebbero voluti diversi anni prima che le varie convenzioni internazionali cominciassero a mordere.
Le ragioni presentate nello studio sono numerose: la scarsa rilevanza della classificazione della regolazione finanziaria degli Stati in 'buoni, brutti e cattivi', il delicato equilibrio tra normative nazionali e regole internazionali, la capacità delle stesse istituzioni internazionali di poter fare applicare i trattati e le convenzioni in mancanza di adeguati poteri ispettivi e di personale per esercitarli. E, soprattutto, la scarsa comprensione di come funzionano effetti-vamente i 'financial off shore centers'. La capacità di far applicare quanto pattuito è sempre l’anello più debole: si pensi, per fare un esempio, che ancora alla metà degli anni novanta il World Labour Report dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) indicava l’Italia tra i Paesi non in grado di fare applicare le convenzioni in materia di lavoro minorile, tra le più antiche della quasi centenaria organizzazione. Più di recente, la sezione speciale dell’agenzia delle entrate americane incaricata di monitorare il Facta (il Trattato sulla fiscalità degli americani residenti all’estero) pare sia paralizzato dalla marea di carte I nodi essenziali dei Panama Papers sono due. In primo luogo, il diritto norma l’esistente ed ha scarsa contezza dell’evoluzione futura. Negli anni in cui Banca mondiale, Fondo monetario, OCSE e G20 faticavano quattro camice per giungere a convenzioni internazionali, c’era poca contezza delle trasformazioni tecnologiche in atto, trasformazioni che rendevano facilissimo trasferire somme ingenti (sia di provenienza legittima sia di origine illegale). In secondo luogo, in regime di libertà di movimenti dei capitali, raramente ha rilevanza penale il collocamento e l’investimento al-l’estero, anche in Paesi di cattiva reputazione. Si può fare molto con la collaborazione nel piccolo gruppo di Paesi ancora considerati 'paradisi fiscali'. Così come sono state la società e la pubblica amministrazione italiana – non le convenzioni e le grida Oil – a debellare la piaga del lavoro minorile. I 'paradisi' devono diventare 'purgatori fiscali'. Hanno incentivo a farlo? Non proprio. Nel 1854, il Principe Florestano I di Monaco legalizzò il gioco d’azzardo (clandestino nella vicina Francia) e costruì un nuovo quartiere chiamato Montecarlo perché il Principato (perso l’80% del territorio con la seconda guerra d’indipendenza italiana) era poverissimo ed indebitato sino al collo.
Giuseppe Pennisi
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