sabato 30 aprile 2016

Disoccupazione a marzo, una rondine fa primavera? in Formiche 30 aprile

Disoccupazione a marzo, una rondine fa primavera?

Disoccupazione a marzo, una rondine fa primavera?
Il commento dell'economista Giuseppe Pennisi
I dati su occupati e disoccupati vanno letti con cura. In primo luogo, occorre ricordare che non includono gli inoccupati che, per scoraggiamento ed altra ragione, sono usciti dalle forze di lavoro; in Italia, il fenomeno è significativo anche a ragione della espulsione di personale anziano, e con i requisiti previdenziali, da fabbriche ed uffici e dal nodo degli ‘esodati’, rimasti in un limbo. In secondo luogo, secondo le definizioni internazionali (e, quindi, anche quella Istat), per essere considerati “occupati” è sufficiente avere svolto un’ora di lavoro nella settimana precedente la rilevazione statistica ed essere retribuiti con almeno uno dei 114 milioni di voucher di 10 euro. In terzo luogo, un tasso di disoccupazione dell’11,4% delle forze di lavoro è , da un lato, il più basso degli ultimi 24 mesi ma anche il secondo più alto rilevato in marzo nell’Unione Europea ed il doppio quasi del 6% a cui si era giunti negli anni precedenti la recessione. In  quarto luogo, gli occupati aggiuntivi in marzo sono appena 17.000 e i disoccupati (ossia coloro che cercano attivamente un lavoro) in meno solo 15.000, una sostanziale stabilizzazione; quadro confermato esaminando i dati annuali: 263.000 occupati aggiuntivi e 274.000 “alla ricerca di lavoro” in meno. Infine, è difficile sapere quanti “occupati aggiuntivi” abbiamo firmato il contratto di lavoro prima della fine del 2015 (quando gli incentivi erano ancora molto elevati) e preso servizio ad inizio marzo, drogando il dato. Esaminando questi dati si trae l’impressione che l’Italia resta un Paese ad alta disoccupazione e bassa occupazione.
Se le statistiche mensili su occupazione e disoccupazione vengono coniugate con quelli sull’andamento dei prezzi al consumo ed alla produzione  (gli indici di ambedue sono in forte contrazione su base annua) si ha l’impressione che non si è ancora usciti dal rischio di deflazione. I timidi segnali di ripresa avvertiti negli ultimi mesi del 2015 e che, secondo il Documento di Economia e Finanza (DEF), si rafforzerebbero nel 2016 e nel 2017, rischiano di affievolirsi od anche di fare marcia indietro.
Occorre, quindi, non solo tentare di effettuare una manovra di bilancio espansionistica, in intesa con le autorità europee e con attenzione alle possibili reazioni dei mercati internazionali ad una crescita ulteriore del nostro deficit e del nostro indebitamento. La mano monetaria (gestita dalla Banca centrale europea, Bce) è già espansionista ma ‘il cavallo non beve ’ ed anzi pare entrato nella “trappola della liquidità”; in tale materia, sono essenziali misure che spingano il sistema bancario ad essere di maggior supporto ad imprese desiderose di investire.
Se l’economia reale non prende vigore, l’impercettibili aumento dell’’occupazione’ in marzo, ed il parimenti ‘impercettibile’ riduzione della disoccupazione, potrebbero essere la classica rondine che non fa primavera, ed anzi anticipa un peggioramento della situazione.

giovedì 28 aprile 2016

LA MANOVRA DI MEZZA ESTATE ED IL DEBITO DEGLI EUROPEI in Formiche mensile maggio



LA MANOVRA DI MEZZA ESTATE ED IL DEBITO DEGLI EUROPEI
Giuseppe Pennisi
Nonostante le assicurazioni del Presidente del Consiglio e del Ministro dell’Economia e delle Finanze, ancora una volta le primavera giunge con mormorii di una manovra finanziaria di mezza estate (aumento di tasse ed imposte, riduzione della spesa) non solo per restare nei ‘parametri’ definiti a livello europeo per l’indebitamento delle pubbliche amministrazioni ma soprattutto per iniziare a fare diminuire lo stock di debito pubblico in termini assoluti ed in rapporto al Pil.
E’un tema che abbiamo trattato più volte in questa rubrica, fornendo anche suggerimenti (riduzioni della rendita per i detentori di titoli pubblici ad alte cedole, privatizzazione totali non parziali di Poste Italiane, riduzione del numero delle partecipate del ‘capitalismo municipale’ non ‘a babbo morto’ ma entro la fine del 2016). Temo che sarà ancora oggetto di geremiadi e di prediche inutili. Le autorità proposte sobbalzano quanto il Bollettino della Banca Centrale Europea ci invia avvertimenti. Reagiscono con stizza quando la Commissione Europea ci dà una brutta pagella. Ma dopo qualche giorno di polemica sui giornali, si torna a progettare una ‘manovrina’ (come le ‘finanziarie bis’ degli Anni Ottanta del secolo scorso) , nella speranza (od illusione) che si sufficiente. La ‘lobby’ del debito pubblico è vastissima e composta di una rete di interessi legittimi (da chi ha acquistati titoli ad alti tassi di interesse negli Anni Novanta a chi vive di sovvenzioni per imprese che dovrebbero competere sul mercato, dagli amministratori e dipendenti di enti e partecipate inutili, e via discorrendo).
Un economista cinese (che lavora in Scozia alla università di Dundee) ed uno tedesco (della università di Amburgo) ci ricordano che la ‘tragedia in tre atti’ della Grecia (CESifo Working Paper No 5677) iniziò proprio così: non essere in grado di resistere al ‘ partito del forte debito pubblico ‘ nella illusione di poter galleggiare nell’area della moneta unica europea. Sappiamo cosa è successo e solo il terrorismo ci ha distratti dai tormento che travagliano la Repubblica Ellenica.
Non sono solo il ‘caso greco ‘ e gli avvertimenti della Bce e della Commissione Europea a ricordarci che occorre cambiare strada ed adottare una politica di rientro graduale dal debito. Un lavoro a circolazione ristretta  preparato da due economisti greci (Veni Arakellian dell’Università Pantheion e Petros Dellaportas dell’Università di Atene) e da due economisti italiani dell’Università di Brescia (Roberto Savona e Marika Vezzoli)-e curato dalla SYRTO (Systhemic Risk Tomography, una denominazione eloquente) propone un nuovo metodo per individuare le aree di ‘debolezza di rischio sovrano’ all’interno dell’eurozona. Il metodo utilizza l’andamento dei CDS (Credit Default Swaps) come misura di base per valutare il possibile contagio (di titoli di debito pubblico più o meno buoni) , nonché indicatori dei singoli Paesi e delle caratteristiche fondamentale della loro crescita economica e della loro finanza pubblica. Utilizzando dati per il periodo 2008-2013, per Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo , Spagna , Francia e Repubblica Federale Tedesco , e tenendo conto di altri indicatori (tasso di disoccupazione,rapporto debito:Pil, tasso d’inflazione, crescita economica) . L’Italia appare come un anello debole proprio per la caratteristiche del suo debito pubblico. Ma anche altri Paesi non stanno bene. Cosa ci frena dal proporre una conferenza (ovviamente riservata e senza annunci) per la ristrutturazione del debito dell’eurozona?

PUCCINI , L’AMERICANO in Formiche mensile maggio



PUCCINI , L’AMERICANO

Quasi per coincidenza le due opere ‘americane’ di Puccini vengono presentate alla Scala a Milano ed al Teatro dell’Opera di Roma quasi contemporaneamente. Ha cominciato Roma il 17 aprile con ‘Il Trittico’, coprodotto con il Teatro Reale di Copenhagen e segue Milano con ‘La Fanciulla del West’ che debutterà il 3 maggio. Tecnicamente unicamente ‘La Fanciulla del West’ sarebbe da considerarsi ‘americana’ perché di ambientazione statunitense , tratta di un lavoro teatrale di David Belasco e presentata per la prima volta al Metropolitan nel 1910. Anche ‘Il Trittico’ ha debuttato al Metropolitan nel gennaio 1918, ad appena prima guerra mondiale finita.
Tuttavia,  il nuovo allestimento de ‘La Fanciulla del West’ ( direzione d’orchestra di Riccardo Chailly , regia di Robert Carsen, Eva-Marie Westbroek, Roberto Aronica e Claudio Sgura nei tre ruoli principali) deve essere considerata quasi un debutto assoluto perché è la prima volta che l’opera viene presentata come la compose Puccini. Cioè prima che Arturo Toscanini la rimaneggiasse , togliendo la scena in cui Minnie dà una lezione all’indiano Billy ed un’altra che racconta la dura vita dei minatori, nonché qualche taglio minore. E’ vero che – come scrive Alberto Cantù in L’Universo di Puccini da Le Villi a Turandot (Zecchini Editore, 2016)- tutti i lavori di Puccini sono in certo senso dei work in progress ritoccati più volte dalla stesso autore. Ma Toscanini aveva la brutta abitudine di mettere mano nelle partiture degli autori di  cui concertava la musica: basti pensare a quel che fece al bellissimo finale di Turandot predisposto da Franco Alfano e che si è potuto ascoltare ed apprezzare solo negli Anni Sessanta del secolo scorso. Quindi, è una Fanciulla integrale che merita la massima attenzione e che sarà seguita anche dalla critica internazionale. E’ possibile che dopo questa esecuzione scaligera , direttori artistici decidano di riprendere l’opera quale concepita da Puccini prima che Toscanini ci mettesse troppo le mani.
Differente il caso de Il Trittico , a cui Puccini lavorò, non interrottamente, per circa tre lustri. Il suo epistolario rivela che già dopo il  trionfo di Tosca , il compositore aveva pensato a tre atti unici di ispirazione quasi dantesca: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Una lavorazione lunga , al termine della quale  il dramma granguignolesco de Il Tabarro ha certamente colori infernali, mentre Gianni Schicchi è quasi un ironico Purgatorio e Suor Angelica (presentata come secondo dei tre atti) ha un finale paradisiaco. Il Trittico richiede un numerosissimo cast ed una concertazione attenta (Daniele Rustioni). La regia è affidata al trentasettenne Damiano Michieletto ed è stata accolta con successo Copenhagen ed a Vienna . Nella lettura di Michieletto i tre atti unici trattano rispettivamente un omicidio, un suicidio e una vicenda comica ma molto “nera”, incentrata sulla morte. Quindi , la regia accentua il lato più notturno e cupo, per far risaltare la violenza  Nel Tabarro, ambientato in un porto industriale, viene messo in scena un mondo di sofferenti, di schiavi oppressi dal lavoro, che cercano una forma di libertà attraverso la realizzazione delle loro pulsioni sessuali.  Suor Angelicà è invece prigioniera in un luogo di penitenza, un carcere: non ha scelto lei la sua condizione, ma è detenuta per scontare una pena, un peccato che ha commesso. Gianni Schicchì invece è la rappresentazione di una lotta tra i vari personaggi per accaparrarsi l’eredità di un morto che ha degli aspetti comici, ma è anche ferocissima: tutti cercano di ingannare gli altri, e nessuno risparmia colpi bassi. Le scene, progettate da Paolo Fantin, prevedono elementi di collegamento tra le tre opere, rappresentati soprattutto da container industriali. I costumi sono firmati da Carla Teti, mentre le luci sono curate da Alessandro Carletti. Nel cast spiccano Patricia Racette (Giorgetta e Suor Angelica), Roberto Frontali (Michele e Gianni Schicchi), Roberto Aronica (Luigi).

mercoledì 27 aprile 2016

Il ritorno della musica obliata in Formiche 27 aprile



Il ritorno della musica obliata
Il ritorno della musica obliata
Cosa dice il libro "La Storia Negata: Musica e Musicisti nell’Era Fascista" di Alessandro Zignani
Circa cinque anni fa, in un articolo di cultura musicale su La Nuova Antologia, notai che non c’era solamente la “entartete musik” (musica degenerata), appellativo dato da Goebbels ai lavori di compositori – numerosi quelli di stirpe e cultura ebraica, non allineati agli stilemi nazisti – per un periodo, esclusi di programmi. C’era anche la musica obliata, ossia quella di compositori italiani che avevano avuto la ventura di vivere e produrre durante il ventennio fascista ed in gran misura sparita dai repertori ed anche dalla pubblicistica.
Nel 2003, il saggio di uno storico (Stefano Biguzzi, L’Orchestra del Duce, UTET) presentò un quadro accurato e divertente della competizione tra “tradizionalisti” ed “innovatori” alla corte di Mussolini, il quale si piccava di essere un musicista anche lui, dato che strimpellava il violino. Più o meno nello stesso periodo, l’ormai defunta l’Orchestra Sinfonica di Roma (Osr), l’unico complesso sinfonico interamente privato in Europa sostenuto dalla Fondazione Roma e da un’associazione di spettatori e di musicofili, ha dedicato molta attenzione alla  riscoperta del sinfonismo italiano di quel periodo. In parallelo, alcuni sovrintendenti e direttori artistici coraggiosi hanno riproposto alcune opere degli Anni ’20 e ’30. Ne è stato un po’ il precursore Gianluigi Gelmetti, che ha messo in scena a Roma due capolavori di Respighi (La Fiamma e Marie Victoire). Di recente, il Lirico di Cagliari ha inaugurato la stagione con La Campana Sommersa sempre di Respighi; il Regio di Torino ha proposto La Donna Serpente di Casella; La Scala La Cena delle Beffe di Giordano. Tutti lavori accolti con grande successo di pubblico e di critica. Sembra stia iniziando un revival.
È quindi molto importante il volume appena uscito di Alessandro Zignani, musicologo, scrittore e germanista (La Storia Negata: Musica e Musicisti nell’Era Fascista, Zecchini Editore, pp.200, 25 euro). A differenza del libro di Biguzzi, questa è una guida completa di quell’epoca. La prima parte esamina le tematiche principali della “musica del periodo” (ossia, presenta una psicosintesi del fascismo in musica). La seconda si chiede se sia mai esistita una “musica fascista” e divide i compositori più in auge dell’epoca in categorie (gli scrocconi, i mediocri, gli illusi, gli indifferenti). La terza esamina una trentina di “musicisti esemplari” entrando negli stilemi stilistici delle loro opere.
È utile ricordare che in Italia la musica “colta” dal Settecento alla prima parte del Novecento è di solito associata con la lirica. Si dimentica che, da fine Ottocento a metà Novecento, abbiamo avuto un grande stagione di musica sinfonica, ancora eseguita frequentemente all’estero, ma coperta  per decenni da una corte di oblio in Patria. Per quale motivo? Montemezzi, Casella, Malipiero, Pizzetti, Dallapiccola, Russolo, Pratella, Sgambati, Ghedini, Mancinelli, Catalani, Martucci vengono considerati, a torto più che a ragione, espressione di un periodo che si vuole dimenticare. Uniche eccezioni: Petrassi e Respighi. Si tratta di compositori accusati, senza ragione, di essere stati fascisti mentre ad esempio Dallapicolla è stato uno dei 35 professori universitari che rinunciò alla cattedra all’avvento delle leggi razziali. L’unico certamente attivo nel Pnf è stato Puccini (tessera n°2 del partito a Viareggio), ma solo per pochi anni perché la morte lo porto via. Si giunse al paradosso che mentre è stata riabilitata non solo la “entartete musik” tedesca, considerata “degenerata” dai nazisti, ma anche quella dello stesso compositore di corte di Hitler (Carl Orff), la musica italiana dello stesso periodo colpita dalla “damnatio memoriae” viene eseguita e rappresentata più all’estero che in Italia.
La situazione sta lentamente cambiando. Nella sinfonica, molto ha fatto l’Osr; anche se ora è sciolta ha lasciato ottime collane di registrazioni per la casa discografica Naxos. La lirica, come si è detto, sta ricominciando ad apparire nei cartelloni. Per gustare questa musica, inserendola nel contesto in cui venne creata, il libro di Zignani è un ausilio essenziale.
Un’ultima notazione: poco prima del libro di Zignani è uscito il lavoro di Paolo Isotta Altri Canti di Marte (Marsilio, 465 pp, € 20). Il libro di Isotta è un approfondito saggio sulla musica del Novecento europea. Ne tratterò in altra sede.

Il cantiere del Patto di Stabilità visto da Einaudi e Keynes in Formiche del 27 aprile



Il cantiere del Patto di Stabilità visto da Einaudi e Keynes
Il cantiere del Patto di Stabilità visto da Einaudi e Keynes
Il commento dell'economista Giuseppe Pennisi
Il governo italiano ha gettato il sasso nello stagno europeo e la risposta è stata positiva: il Patto di stabilità ha detto, il ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, è “complicato, poco trasparente e flessibile e si adatta male all’economia che cambia“. Questo giudizio è stato condiviso dai 28 ministri delle Finanze dell’Unione Europea (UE) nel corso dell’ultima sessione dell’Ecofin.
L’Italia ed altri sette Stati dell’UE puntano a correggere uno dei parametri chiave del Patto, l’ “output gap”, l’indicatore sulla base del quale vengono valutate le correzioni di bilancio se i Paesi si allontanano dagli obiettivi europei. I sette Stati hanno formulato proposte specifiche in materia ma ci vorrà ancora tempo per capire se tali proposte verranno condivise, ed in che misura, dal resto dell’EU. Si è , però, aperto un cantiere che potrebbe  portare alla revisione del Patto.  Tale cantiere lavorerà in parallelo con le discussioni in atto sulla politica monetaria della Banca centrale europea (Bce) che sono esplose in occasione dell’ultima riunione dell’organo di governo dell’istituto il 21 aprile.
Cosa ne avrebbero pensato economisti come Einaudi e Keynes? Pare una domanda peregrina. Tuttavia, sul presente e sul futuro della politica economica europea si stanno confrontando due visioni dell’economia, anzi, del mondo che hanno le proprie radici proprio nelle differenze tra i due grandi economisti del secolo scorso. Una essenzialmente micro-economica basata sui comportamenti effettivi degli agenti economici (individui, imprese, Stato e via dicendo) e della loro risposta ad incentivi; ed una, invece, basata sul primato della macroeconomia e dell’umanità idealizzata ed astratta che essa sotto-intende.
Si può trarne una risposta dall’ultimo libro di Francesco Forte Enaudi versus Keynes (IBLibri, Torino pp.342 , € 20), un saggio che ha comportato all’autore sei anni di lavoro. Forte (classe 1921) è stato chiamato nel 1961 alla cattedra tenuta da Einaudi all’Università di Torino. E’ stato più volte componente di Governi, nonché editorialista di numerose testate. E’ un liberale “delle regole” al pari di Einaudi , nonché un europeista convinto – è stato anche ministro per il Coordinamento delle politiche comunitarie. In questo contesto, acquista un valore particolare il vasto capitolo quinto del saggio , intitolato “la terza via di Einaudi per l’Unione Europea, fra la politica fiscale e monetaria keynesiana e quella anti-keynesiana“. Nel capitolo vengono esaminati in dettaglio i “principi”, “le regole” e le “prassi” dell’ “economia sociale di mercato”, alla base, sotto molti aspetti, dei Trattati fondanti dell’UE, dal Trattato di Roma a quelli successivi. Viene anche analizzata l’unione monetaria sia nei suoi Trattati istitutivi sia nelle revisioni , tramite accordi inter-governativi, dell’ultimo decennio, quali la creazione dei vari fondi Salva Stati , i salvataggi della Repubblica ellenica e le varie forme di quantitative easing adottate dalla Banca centrale europea (Bce). Sottolinea il nodo centrale con cui si scontra oggi anche il cantiere del Patto di Stabilità:  “Il Trattato di Maastricht non prevede alcun organo deliberativo , lasciando supporre che esso sia il Consiglio Europeo, che è composto dai Capi di Stato e di Governo dell’UE, che delibera a maggioranza qualificata. Ma di fatto gli Stati dell’UE che non fanno parte dell’unione monetaria non avevano titolo per partecipare alle delibere che riguardano i programmi di aggiustamento dell’unione monetaria“. Si è tentato di riparare a questo difetto facendo deliberare gli Stati membri dell’unione monetaria, un organo di fatto, con la regola dell’unanimità. Keynes – si legge in varie parti del saggio – sarebbe arrivato a conclusioni analoghe. Quindi, occorrerebbe, sulla base dell’esperienza dell’ultimo quarto di secolo, rimettere mano al Trattato di Maastricht, prima che al Patto di Stabilità, per dare un organo deliberante, a maggioranza qualificata, all’unione monetaria e renderne possibile adattamenti.
C’è un altro punto del saggio che riguarda da presso il cantiere delle eventuali modifiche del Patto di Stabilità: il fardello del debito pubblico. “Sia secondo il modello di Keynes , basato sulla domanda globale, che secondo Einaudi , basato sul funzionamento del mercato, un Paese con un elevato debito pubblico – che ha realizzato il consolidamento del bilancio pubblico mediante l’aumento delle imposte e non mediante il taglio delle spese pubbliche – può cadere in una situazione di avvitamento in cui decresce il Pil e quindi occorre ancora aumentare i tributi o finalmente tagliare le spese“.
L’indicazione per il cantiere è chiara: sia Einaudi sia Keynes avrebbero pensato che eventuali revisioni del Patto di Stabilità non sarebbero dovute essere alibi per ritardare la definizione e la messa in atto di una politica di riduzione del debito pubblico tramite una serie revisione della spesa pubblica, mirata a restringerne il perimetro.
Si sono presi solo alcuni spunti dal lavoro di Forte, che merita di essere letto non solamente da coloro impegnati nel cantiere del Patto di Stabilità, o dagli economisti ma da coloro che un tempo venivano chiamate ‘persone colte’. E’, infatti, un ottimo strumento per comprendere due filosofie economiche che ancora oggi si confrontano.
27/04/2016