domenica 30 novembre 2014

Quando un'intera città diventa palcoscenico in Formiche 30 novembre



Quando un’intera città diventa palcoscenico

30 - 11 - 2014Giuseppe Pennisi Quando un'intera città diventa palcoscenico
La photo gallery è eloquente: per alcuni giorni Jesi, graziosa città marchigiana che diede i natali a Federico II ed a Pergolesi nonché per la elegante architettura del centro contornato da un bel muro di cinta, è diventata un palcoscenico per accogliere la prima rappresentazione, nel grandioso Teatro Pergolesi (che domina la piazza centrale de “Les Contes d’Hoffmann” di Jacques Offenbach. In breve per alcuni giorni, tutta la città è diventata un palcoscenico: i parrucchieri hanno confezionato parrucche di fine Ottocento, i ristoranti hanno integrato la cucina marchigiana con ricette francesi (con accento sui contenuti e sui personaggi dell’opera, i negozi hanno addobbato le vetrine con calici (l’opera si apre e si chiude con grandi bevute). Oltre duecento studenti delle secondarie superiori hanno avuto biglietti a prezzi speciali. Teatro gremitissimo e grande divertimento per tutti, anche se Les Contes ha un fondo amaro: la solitudine del poeta che rincorre senza successo le donne (quattro, e molto differenti tra loro con cui spera di dividere la propria vita.
Pizzeria L'intreccio_Jesi
Pizzeria Sciuscià_Jesi
Pizzeria Settimo Cielo_Jesi
Les Contes_Capocaccia-Graziosi-Butini-JacopoBrusa
Les contes_Wissel-Butini-Graziosi-Tognocchi-Mudryak-Capocaccia-Brusa
Les contes_Wissel-Mudryak-Tognocchi
Bar Colazione da Tiffany_Jesi
Bar Imperiale_Jesi
Golden Cadillac_Jesi
Hostaria Dietro Le Quinte_Jesi
LIberoArbitrio beershop
Osteria I Spiazzi_Jesi
Parrucchiere 2
Parrucchiere1
Pasticceria Zoppi_Jesi
Pergolesi Enocaffè_Jesi
Pergolesi Enocaffè2
Pizzeria Gatto Matto_Jesi
Pizzeria L'intreccio_Jesi
Pizzeria Sciuscià_Jesi
Pizzeria Settimo Cielo_Jesi
Les Contes_Capocaccia-Graziosi-Butini-JacopoBrusa
Les contes_Wissel-Butini-Graziosi-Tognocchi-Mudryak-Capocaccia-Brusa
Les contes_Wissel-Mudryak-Tognocchi
Jesi ha da 47 anni una stagione lirica ‘di tradizione’ in cui vengono privilegiati titoli, specialmente italiani, noti al grande pubblico e da una dozzina un festival dedicato a Pergolesi e Spontini che per la sua qualità ha ricevuto un Premio Abbiati dall’Associazione Nazionale dei Critici Musicali. Ha riscoperto titoli dimenticati di compositori marchigiani ma è la prima volta che affronta Les Contes de Hoffmann , opera in effetti solo di recente diventata popolare in Italia. Il teatro di Jesi è uno dei rari con i conti in regola e che pubblica ogni anno un ben fatto bilancio sociale per rendere conto ai finanziatori pubblici e privati, ed alla collettiva in generale, il proprio contenuto alla comunità a cui fa riferimento. La stagione lirica di Jesi è organizzata dalla Fondazione Pergolesi Spontini, con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, dei Soci Fondatori (Regione Marche, Comune di Jesi, Comune di Maiolati Spontini), dei Partecipanti Aderenti (Comuni di Monsano, Montecarotto, San Marcello), del Partecipante Sostenitore (Camera di Commercio di Ancona), dei Fondatori Sostenitori (Art Venture: Gruppo Pieralisi, Leo Burnett, Moncaro, New Holland-Gruppo Fiat, Starcom Italia), ed il patrocinio del Consiglio Regionale delle Marche. Sponsor principale è Banca Marche
Anche per Les Contes si è operato con cura e con giudizio . E’ un nuovo allestimento in coproduzione con il Circuito Lirico Lombardo e l’Opéra de Rouen Haute-Normandie, la regia è a cura di Frédéric Roels, regista, drammaturgo e attualmente direttore dell’Opéra de Rouen. Per la direzione dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali è stato scelto il giovane Christian Capocaccia, direttore d’orchestra italiano che continua a distinguersi come un artista di forte intuizione e musicalità. Le scene sono di Bruno de Lavenère, i costumi di Lionel Lesire, light designer è Laurent Castaingt, le coreografie sono di Sergio Simòn. Suona l’Orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano, il Coro del Circuito Lirico Lombardo è diretto da Diego Maccagnola. Nei ruoli principali si alternano due cast. Giovani protagonisti nella compagnia di canto, tra i quali alcuni talenti emersi dal 65° Concorso AsLiCo per Giovani Cantanti Lirici d’Europa, quali Larissa Alice Wissel (Antonia), Bianca Tognocchi (Olympia), Maria Mudryak (Giulietta), e Mariano Buccino (Crespel / Luther); i tenori Michael Spadacini e Sebastian Ferrada cantano Hoffmann, i bassi Abramo Rosalen e Lauren Kubla interpretano Lindorf / Coppélius / DottorMiracle / Dapertutto, il mezzosoprano Alessia Nadin è Nicklausse; completano il cast Stefano Consolini(Spalanzani / Nathanaël ), Nadija Petrenko (Madre), Matteo Falcier (Andrès / Cochenille / Frantz / Pitichinaccio), Vincenzo Nizzardo (Hermann/ Schlémil).
“Les Contes d’Hoffmann” – messi in scena per la prima volta a Parigi nel novembre 1881, un anno dopo la morte del compositore – traggono spunto dai racconti fantastico-demoniaci dello scrittore romantico E.T.A. Hoffmann, tutti accumunati, nella resa musicale di Offenbach, dall’amore sfortunato per una donna, o meglio per “tre donne nella stessa donna”, una delle quali si scoprirà essere, con terribile disappunto per il povero protagonista, una bambola meccanica. Delle innumerevoli redazioni che esistono della partitura (che restò incompiuta a causa della morte del compositore), al Teatro Pergolesi viene eseguita l’edizione Choudens 1907.
Nel nuovo allestimento dell’opera, la fantastica ispirazione dell’opera trova nel protagonista Hoffmann “il progettista, l’autore, il manipolatore e vittima degli intrighi che seguono ogni filo dell’azione drammaturgica”, come spiega il regista Frédéric Roels immaginando “un’illusione invadente che costringe l’occhio e distorce la realtà, un delirio continuo in cui ogni personaggio è il doppio di un altro”, e la presenza di “un oggetto scenico impregnato di entrambi i simboli e desideri” che domina sul palcoscenico.
Per il direttore musicale Christian Capocaccia, “l’incantamento è la vera dimensione in cui si svolgono Les contes d’Hoffmann, moltiplicando in un mirabolante, borgesiano gioco di specchi l’incantesimo primo che sta alla base di ogni finzione teatrale e operistica. Il protagonista è, nelle mani di un Offenbach ‘buon incantatore’, lo strumento della creazione di una dimensione altra, in cui rimaniamo rapiti, costantemente in bilico tra sogno e realtà: come nel secondo atto, dove la realtà di Hoffmann, l’unica che parrebbe verosimile, stride con la realtà di tutti, che risiede in una finzione − la finta natura umana dell’automa Olympia. Una dimensione dove, in una sorta di caleidoscopio felliniano, nella finzione generale si inanellano, una dentro l’altra, le finzioni dei vari racconti. E dove, infine, le cose acquistano una natura magica, come il ritratto della madre di Antonia che prende vita, o il diabolico violino di Miracle, o lo specchio che cattura l’immagine di Hoffmann nell’i atto di Giulietta”.
In altra sede recensisco l’opera. E’ importante sottolineare il modo astuto e divertente di fare partecipare tutta la città all’evento e la suddivisione dei costi tra numerosi teatri (italiani e francesi) per offrire uno spettacolo di qualità senza gravare eccessivamente le finanze locali. E’ un esempio da seguire.
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L'Italiana in Algeri
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L'Italiana in Algeri
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venerdì 28 novembre 2014

Il trionfo di Rusalka a Roma in Il Sussidiario 29 Novembre



OPERA/ Il trionfo di Rusalka a Roma
Pubblicazione: sabato 29 novembre 2014
Foto ®C.M.Falsini-Teatro dell'Opera di Roma Foto ®C.M.Falsini-Teatro dell'Opera di Roma
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NEWS Musica
La sera del 27 novembre 2014 potrebbe entrare negli annali del Teatro dell’Opera, come quella della rinascita di un teatro che si temeva stesse per finire in stato di dissesto. Venti minuti di applausi al calar del sipario di ‘Rusalka’ di Antonin Dvorák, opera poco nota al grande pubblico e presentata in un allestimento volutamente povero (costo totale di scene, costumi e luci 50.000 euro), facilmente trasportabile in altri teatri.
Una recensione del capolavoro di Dvorák per il teatro in musica necessita una duplice premessa: la scarsa fortuna delle opere fantastiche nell’Italia dell’Ottocento e del Novecento e il ruolo del compositore nello sviluppo dell’opera nella Cèchia.
Agli italiani, si potrebbe dire, non piacciono le favole. Tendenzialmente scettici e disillusi, abbiamo poca dimestichezza con il fiabesco nella letteratura in generale. Probabilmente l’unico apporto alla letteratura mondiale nel genere è “L’Orlando Furioso” dell’Ariosto. Nella narrativa possiamo vantare unicamente una favola per bambini: “Pinocchio” di Collodi che, ricordiamolo, non nacque come favola ma divenne tale a grande richiesta dei lettori . Nel teatro, le stupende favole di Carlo Gozzi vennero offuscate dalle commedie borghesi di Carlo Goldoni. Nel teatro in musica, la favolistica finì con il Barocco. I tentativi di Mascagni, Malipiero e pochi altri di riprendere il genere che, all’inizio del Novecento aveva grande fortuna in Germania, Francia e nell’Europa centrale ed orientale, fallirono miseramente: anche quando suscitarono reazioni positive dalla critica, il pubblico voltò loro le spalle. 
E’ vero che la pucciniana “Turandot” viene situata nella Cina “dei tempi delle favole”, ma né il libretto né la musica hanno un vero elemento magico: l’accento è sul dramma in un quadro, per certi aspetti, autobiografico. 
Eppure proprio “la musa bizzarra ed altera”, l’opera lirica, nata in Italia e che in Italia ha avuto la sua più lunga e più importante stagione come spettacolo commerciale per il grande pubblico di tutti i ceti sociali, si presta meravigliosamente al fiabesco per la fusione di azione scenica, canto, danza ed orchestra. E come tale nasce a Firenze. Nel nostro Paese il fantastico sparisce alla fine del Settecento: la stessa “Armida” di Rossini, pur ispirata al fiabesco dell’Ariosto, diventa innanzitutto un’opera erotico-sensuale. Il melodramma del romanticismo italiano quasi rigetta il fiabesco, centrale invece all’opera tedesca (si pensi a Marschner, Weber, allo stesso Wagner) dello stesso periodo, nonché a quella del Novecento (si pensi a Strauss). Nella Francia della Terza Repubblica il fiabesco viene utilizzato per dilatare nel mito i temi della società borghese nel periodo dell’industrializzazione trionfante (si pensi a “Cendrillon”, “Chérubin” e “Le Joungleur de Nôtre Dame-” di Massenet). In Europa centrale ed orientale, le favole antiche (unitamente alla storia nazionale) alimentano la nascita di forme di teatro in musica che prendono nettamente le distanze da quelle assunte in Europa occidentale.
Dvorák ha, nel corso della sua vita, costantemente avuto l’ambizione di diventare un grande autore di teatro in musica: sette delle otto opera precedenti “Rusalka” traevano ispirazione o da truculenti drammi storici o da commedie, pure essere storiche o semi-storiche (l’obiettivo era dar vita ad una scuola operistica nazionale boema) Si avvicino al fiabesco in “Il Diavolo e Caterina”, lavoro in cui all’orchestra viene dato un peso sinfonico e nel canto ci si avvicina al declamato. 
Grazie al direttore del Teatro Nazionale, Frantisek Subert, il compositore conobbe un lavoro del giovane scrittore Jaroslav Kvapil, in seguito una figura importante del teatro boemo. Trovò congeniale il libretto, che era stato in precedenza offerto senza successo ad altri musicisti. Anche “Rusalka” era nell’alveo del racconto fiabesco, nel mondo della natura incantata particolarmente caro alla sensibilità del compositore Dvorák, che vi si era ispirato per vari altri lavori, e in particolare per il gruppo di poemi sinfonici tratti dalle ballate popolari di Erben (1896), tra cui ve n’è uno intitolato appunto “Spirito delle acque”. In “Rusalka” il fiabesco è di carattere sentimentale e simbolico, anziché comico e fantastico come nell’opera immediatamente precedente, “Il diavolo e Caterina”. Kvapil si ispirò al tema della creatura acquatica che prende natura umana per amore pagandone le conseguenze: un antico motivo della letteratura nordica ripreso con ampiezza dal romanticismo, di cui sono esempi ben noti la novella “Undine” dell’ugonotto tedesco Friedrich de La Motte-Fouqué e la “Sirenetta” di Hans Christian Andersen; il poeta vi aggiunse inoltre altri elementi eterogenei, in particolare legati al folklore popolare boemo. L’opera è diventata col tempo, assieme alla “Sposa venduta” di Smetana, il maggiore classico del teatro boemo.
La vicenda è molto semplice. La ninfa Rusalka è innamorata del Principe. Per incontrarlo, è disposta ad assumere sembianze umane, pur al prezzo di perdere la parola. Il giovane si innamora ma non troppo: nel giorno delle nozze segue senza farsi troppi problemi una rabbiosa e passionale principessa straniera cattura le sue attenzioni. Rusalka ritorna al lago, avviata a un destino di tristezza eterna. Il principe non riesce però a liberarsi dell'ossessione-Rusalka. Morirà chiedendo perdono tra le sue braccia. Il fiabesco (siamo all’inizio del Novecento) si coniuga, quindi, con il simbolismo: il desiderio di diventare donna dell’essere semi-sovrumano e la passione-maledizione.
 Siamo, però, lontani anni luce dal contemporaneo Debussy oppure da Janácek, i cui capolavori sarebbero stati composti, nel teatro cèco, soltanto qualche lustro più tardi. Dvorák , sotto molto aspetti, è il nesso tra Smetana e Janácek, rivolto però all’Ottocento mentre il moravo era lanciato verso un Novecento la cui portata innovativa venne compresa da pochi dei suoi contemporanei. Il temperamento di Dvorák è lirico e melodico, per se utilizza un grande organico ed i lietmotive wagneriani (ossia non mnemonici ma legati a personaggi ed a situazioni) : l’attenzione è più sul contesto e sui singoli personaggi che sull’azione drammatica. Inoltre, il sinfonismo non può non permeare l’intera partitura. Mentre nella scrittura vocale, il declamato wagneriano si trasforma in leider anche a più voci (come nel duetto finale) e le voci fanno da contrappunto all’orchestra (come nel quadro iniziale delle ninfe).
La scarsa fortuna di “Rusalka” in Italia deve attribuirsi in gran misura alla poca attenzione di critici e pubblico nei confronti del fiabesco, nonché alle difficoltà di realizzazione scenica. Tuttavia, qualcosa sta mutando: l’opera che mancava dalla scene romane dalla stagione 1992-93 (quando ebbe la sua “prima” nella capitale in un allestimento, molto discutibile, importato dalla Gran Bretagna in cui la vicenda era trasportata in un ospedale ai giorni d’oggi) ha avuto un grande successo a Torino alcuni fa. Si è vista anche alla Scala alcuni anni fa. Inoltre, il fiabesco sta tornando in scena: Cagliari ha inaugurato la stagione 2008 con una delle opere più fiabesche di Rimski-Korsakov : “La leggenda della città invisibile di Kitez”. Sempre nel 2008 “Rusalka”  è tornata a Roma : l’allestimento veniva dal Teatro Dvorák (una sala di circa 600 posti) di Ostrava (una città di 300.000 abitanti nel Nord Est della Repubblica Chéchia- quindi ai confini con la Polonia e con la Slovacchia) ed era davvero essenziali, ma le voci erano buone.
Del ‘mini-miracolo’ che , con un budget di 50.000 euro, Denis Krief( autore di scene, costumi e luci, ora espatriato a Berlino dopo trenta anni di lavoro in Italia) parliamo altrove. Ci soffermiamo invece sugli aspetti musicali.
In primo luogo, coro ed orchestra che hanno dato una magnifica prova, nonostante la preparazione sia avvenuta in una fase di grande tensione. Ciò si deve alla grande professionalità dei professori d’orchestra e dei coristi (diretti da Roberto Gabbiano) e soprattutto alla maestria del giovane direttore d’orchestra norvegese Eivin Gullberg Jensen (classe 1972) già da un decennio noto come delle migliori bacchette in Europa e Nord America.  Entra negli anfratti più complessi di una partitura in cui una base tardo-romantica si fonde con elementi wagneriani e motivi tratti da musica popolare slava. Esemplare il trattamento dei fiati. Importante come notare come abbia gentilmente abbassato la sonorità dell’orchestra nel primo atto quando cantava Maksim Aksenov che, uso a lavorare in teatri di dimensioni inferiori a quelle dell’Opera di Roma, conservava il volume per l’impervio terzo atto.
I due protagonisti Svetla Vassileva e Maksim Aksenov hanno le phisique du rôle in quanto dall’aspetto giovane e bello; hanno cantato più volte le relative parti e sanno essere davvero commoventi nel loro amore impossibile. Sufficientemente ‘volgarotta’, e sensuale (come vuole la parte) Michelle Breedt nel ruolo della principessa straniera. Ottimi sia nel canto sia nella recitazione Larissa Diadkova (la strega) e Steven Humes (lo Spirito dell’acqua). Di livello gli altri.
Da augurarsi che altri teatri circuirono questo straordinario spettacolo. 


© Riproduzione Riservata.


Simon Boccanegra torna a casa, a Venezia in Milano Finanza 29 novembre



Simon Boccanegra torna a casa, a Venezia

di Giuseppe Pennisi  

Simon Boccanegra è tornato, per l'inaugurazione de La Fenice, proprio a Venezia, dove debuttò nel 1857. È in scena fino al 6 dicembre nell'edizione del 1881 che è diventata ormai di riferimento. Lo spettacolo è molto differente da quello proposto alla Scala alcune settimane fa, perché non solo cambiano regia e scene, affidate ad Andrea De Rosa, costumi (di Alessandro Lai) e luci e proiezioni a cura di Pasquale Mari, ma l'intera lettura drammatica tiene conto dell'età dei personaggi. http://static.milanofinanza.it/artimg/2014/235/1942687/small/o1-img616356.jpgIl protagonista ha 25 anni nel prologo e circa 50 nei successivi tre atti (a Milano si sono invece alternati nel ruolo due baritoni di 73 e circa 80 anni). Diventa chiaro l'intrigo che porta un giovane a lasciare l'amato mare per entrare in politica. Il mare è sempre presente e grazie ad abili giochi di luce ne vengono mostrati le onde e i colori al tramonto e all'alba. Un unico elemento scenico diventa di volta in volta il Palazzo dei Fieschi, la villa dei Grimaldi, la sala del Gran Consiglio, gli spalti del porto di Genova. Il direttore Myung-Whun Chung coglie l'ambiguità della partitura rivolta sia verso il melodramma tradizionale sia verso il musikdrama. Questo tratto si avverte fin dal preludio in Mi maggiore all'interno di un lavoro in cui dominano le tonalità minori. Tra le voci spiccano i veterani Giacomo Prestìa, Julian Kim, Maria Agresta e Francesco Meli, il cui timbro si è leggermente imbrunito. Il protagonista, Simone Piazzola, non ha ancora 30 anni e offre un Doge imponente e credibilissimo nella sua sofferta maturazione dai 25 ai 50 anni. Tiene con precisione la zona medio acuta fino al dolcissimo diminuendo e al pianissimo finale. (riproduzione riservata)

Il mistero della vita nella “Rusalka” low cost al Teatro dell’Opera 28 -Movembre



Il mistero della vita nella “Rusalka” low cost al Teatro dell’Opera
28 - 11 - 2014Giuseppe Pennisi Il mistero della vita nella "Rusalka" low cost al Teatro dell'Opera
Dopo tante tensioni e polemiche, il Teatro dell’Opera di Roma ha inaugurato la sera del 27 novembre la stagione 2014-2015 con un lavoro di Antonin Dvo ák “Rusalka”, raramente rappresentato in Italia (la prima esecuzione scenica risale al 1992-93 e da allora se ne conta solamente altre tre al Regio di Torino ed alla Scala , rispettivamente nel 2001e nel 2009 ed una riproposta a Roma nel febbraio 2008 in un nuovo allestimento di repertorio (proveniente dal teatro di Ostrava, una città di 300.000 abitanti nel Nord della Repubblica Ceca).
®C.M.Falsini-Teatro dell'Opera di Roma

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L’allestimento (Denis Krief è autore di regia, scene, costumi e luci) è costato appena 50.000 euro, segno che si può fare opera di grande qualità senza mandare in dissesto i teatri. Dopo trenta anni di lavoro in Italia, Krief si è auto-esiliato a Berlino proprio a ragioni di sprechi ed inadempienze di certe fondazioni liriche.
“Rusalka” è una favola in musica, genere poco frequente nei palcoscenici italiani, dell’inizio del Novecento (la prima è del marzo 1901). Un’altra favola in musica (“Le leggenda dell’invisibile città di Kitez e della fanciulla Feronia” di Nikolaj Rimskij Korsakov) ha inaugurato il 24 aprile 2008, in occasione delle Festa di Sant Efisio, la stagione lirica cagliaritana tramite una co-produzione tra il Teatro Lirico dell’isola ed il Bolhoi di Mosca. Auspico una nuova edizione di “La fanciulle di neve” di Nikolaj Rimskij Korsakov (del 1882, ma già impregnata di canoni novecenteschi), assente dai nostri teatri da circa 50 anni. Mi incantò quando ero adolescente.
Due anni fa c’è stato il ritorno, ed alla grande, sulle scene italiane a Milano ed a Firenze –negli ultimi trenta anni si è visto solo l’allestimento minimalista di Jean-Pierre Ponelle sempre solamente a Milano ed a Firenze- de “La donna senz’ombra” di Hugo von Hofmansthal e Richard Strauss che, nel 1919 (la prima ebbe luogo il 10 ottobre), lanciava, con una complicatissima favola in cui l’etica cristiana si incrociava con la letteratura orientale, un inno di speranza all’Europa devastata dal primo conflitto mondiale (“la grande guerra” per antonomasia).
In altra sede, mi sono recentemente chiesto perché gli italiani siano parsi refrattari alle favole in musica, nonostante l’opera lirica italiana (Peri, Monteverdi, Cavalli) – tanto quella di corte quanto commerciale- abbia origini nella rappresentazione scenica di fiabe e miti. Dall’inizio dell’Ottocento, con il melodramma verdiano prima e con il verismo, poi, siamo stati lontani da un filone che nel Novecento è stato centrale non solamente all’opera slava e tedesca, ma anche a quella francese ed alla rinascita di quella britannica. E che adesso è di grande successo negli Stati Uniti ed in Canada e nelle opere ‘occidentali’ di nuova composizione e produzione in Cina.
Chiediamoci perché scettici e disillusi nei confronti delle favole in musica, vi ci stiamo adesso riaccostando. Sarebbe banale individuarne la determinante nell’esigenza di evasione di fonte ad un Paese in declino ed in cui, specialmente dopo l’esperienza della XV legislatura, gli italiani si sentono tanto sconfortati da rifugiarsi nelle fiabe. C’è forse qualcosa di più profondo. Lo mostra la relativamente poca attenzione che ha avuto nel 2007 il Quattrocentenario di una delle più importanti favole in musica italiane (“L’Orfeo”) di Claudio Monteverdi ed l’interesse invece per “Rusalka”, gli altri titoli citati e lavori ad essi affini. Soprattutto, i 400 anni da la prima de “L’Orfeo” non sono stati l’occasione per riproporre opere quasi coeve come “La Calisto” di Giovanni Cavalli – di frequente sui palcoscenici europei ed americani dalla metà degli Anni Novanta – in cui lo splendore della musica riveste un intreccio erotico ai limiti del libidinoso e del lascivo.
“Rusalka” e le altre (specialmente “La donna senz’ombra”) hanno, nonostante le differenze di scrittura orchestrale e vocale, di lingua, di fonti letterarie un nesso comune: l’esaltazione del legame di coppia, del matrimonio, della maternità e della paternità. Questi temi esplodono nel grandioso lavoro di von Hofmansthal e Strauss che termina con la doppia ricongiunzione di due coppie e con il “coro dei bambini mai nati” (con cui si è chiuso il primo atto) che nel terzo diventa il “il coro dei bambini sul punto di nascere” con il quale da fuori scena si accompagna un doppio smagliante duetto. Rusalka, Feronia, l’Imperatrice (de “La donna senz’ombra”) Sneguro ka (la fanciulla di neve) rinunciano a caratteristiche sovrannanutarali che le renderebbero immortali pur di potere essere mogli e madri. Il tema, pur in guisa di favola, si collega a quello del grande mistero della vita. Attuale nel dibattito etico e culturale, oltre che politico, come non mai in questo inizio di XXI Secolo.
Una ipotesi errata è che le ‘favole in musica’ richiedono costose messe in scena. Ciò avviene, ad esempio, ne ‘L’amour di trois oranges’ di Sergej Prokofiev di recente visto a Firenze, anche se l’allestimento dello stesso lavoro nella produzione che si replica da dieci anni a Berlino smentisce questo assunto.
Una smentita ancora più forte viene dalla “Rusalka” romana. Una scena unica, costumi moderni (il lavoro ha un messaggio universale) . Un minimo di attrezzeria, in gran parte risultante dai magazzini del teatro, e le varie ambientazioni sono rappresentate in maniera stilizzata ma efficace: dai boschi lacustri, alla abitazione della strega , alla foresta, ai saloni di un castello principesco, e via discorrendo. L’intero impianto scenica è in una grande scatola di legno dal color di ciliegio e dalla torre scenica giungono elementi che danno luogo ai vari ambienti, strizzando l’occhio alla pittura della “secessione austriaca” (Klimt e soci) dell’epoca in cui il lavoro venne scritto e composto. L’allestimento richiede una grande recitazione e due protagonisti che siano giovani e di bello aspetto (il tenore deve essere quasi wagneriano).
Altrove tratto la parte musicale. In breve tre ore e mezzo (intervalli compresi) salutati da venti minuti di ovazioni. Il segno –speriamo – sia l’inizio del rilancio del Teatro dell’Opera della capitale.