mercoledì 29 ottobre 2014

Renzi sta con Leon o con Magazzino? in Formiche 29 ottobre



Renzi sta con Leon o con Magazzino?

29 - 10 - 2014Giuseppe Pennisi
Non ho mai avuto il piacere di viaggiare in un’automobile guidata dal presidente del Consiglio Matteo Renzi. Se fossi stato in auto con lui (e non ci fossero state altre persone), il conducente sarebbe stato indubbiamente l’inquilino di Palazzo Chigi. Dato che io non ho, e non ho mai avuto, una patente di guida e non conosco la differenza tra il pedale del freno e quello dell’acceleratore, probabilmente, ad onta dell’impressione che i suoi interventi trasmettono al pubblico, alla guida Matteo Renzi è molto prudente e cauto. Quindi, sa come effettuare una svolta a “U”, anche quando si tratta di una “svolta a U invertita”, come viene chiamata colloquialmente dagli economisti.
Perché me ne occupo? Ho letto un saggio di un giovane professore aggregato della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma III, quella a San Paolo in gran parte nei locali degli ex-magazzini generali. Si chiama Cosimo Magazzino. Si è dato un compito difficile: studiare, non a chiacchiere, ma sulla base di dati quantitativi, il nesso tra le dimensioni della macchina pubblica e la crescita dell’economia italiana dalla nascita del Regno d’Italia alla vigilia della crisi più recente. Il lavoro, “Government Size and Economic Growth in Italy: an Empirical Analysis Based on new Data (1861-2008)”, è apparso sull’ultimo fascicolo dell’International Journal of Empirical Finance (pp.38-54) e ha suscitato notevole interesse presso la Commissione Europea, la Banca centrale europea, l’OCSE ed il Fondo monetario; ossia coloro che, per dovere più che per diletto studiano le nostre politiche ed i nostri conti.
La conclusione è che in Italia non c’è una relazione lineare tra la dimensione del settore pubblico (misurata in termini di spesa pubblica in percentuale del Pil) e la crescita economica. In generale, negli ultimi vent’anni dell’analisi il nesso è una “curva a U invertita”: ciò vuol dire, in parole povere, che “riduzioni delle spese possono sveltire la dinamica del Pil”. Dallo studio si evince anche che negli anni del Regno Sabaudo, il “pareggio di bilancio” raggiunto per breve periodo ha rallentato l’aumento del prodotto nazionale.
Vale la pena ricordarlo perché il 28 ottobre proprio, all’Università di Roma III, Antonella Palumbo, Marco Causi, Mario Pianta, Paolo Pini e Roberto Romano hanno presentato il libro di Paolo Leon, professore emerito, dal titolo Il capitalismo e lo Stato. Crisi e trasformazione delle strutture economiche” (Castelvecchi Editore, 2014″). In linea con un approccio che Leon ha mantenuto con coerenza sin dal suo ‘Structural Change and Growth in Capitalism’ (Johns Hopkins Press, 1967), il libro argomenta non per “meno” ma per più Stato”, in effetti per politiche di programmazione per uscire dalla crisi italiana ed europea. Leon non parla di “svolte a U” e, alla presentazione, non era presente Cosimo Magazzino. In effetti, si è ascoltato un po’ “un coretto a cappella”.
Una proposta: Roma III organizzi un dibattito tra Leon e Magazzino. E Matteo Renzi ci partecipi.
Silvia Fregolent e Maria Elena Boschi
Silvia Fregolent e Maria Elena Boschi
Silvia Fregolent, Maria Elena Boschi e Lorenza Bonaccorsi
Maria Elena Boschi e Lorenza Bonaccorsi
Maria Elena Boschi e Lorenza Bonaccorsi

Simon contro Simon in Formiche del 29 ottobre



Simon contro Simon
29 - 10 - 2014Giuseppe Pennisi Simon contro Simon
Le diverse versioni di “Boccanegra” e l’epistolario del maestro di Busseto, rivelano come Verdi fosse un partecipante entusiasta al movimento di unità nazionale, ma diventasse progressivamente deluso da una “politica politicante”...
Per circa tre settimane due Simon Boccanegra si confronteranno alla Scala. Alla Scala il 19 novembre calerà il sipario (per ora) sulla vicenda del Doge genovese , ma il 22 novembre si alzerà a La Fenice dove la prima edizione dell’opera debuttò.
I DIRETTORI
Alla Scala ci saranno due direttori e due protagonisti per il ritorno dell’allestimento firmato da Federico Tiezzi nel 2010: Stefano Ranzani dirigerà le recite del 31 ottobre e 2, 5 e 9 novembre con Leo Nucci nella parte di Simone, e il Direttore Musicale del Teatro Daniel Barenboim quelle del 6, 11, 13, 16 e 19 con Plácido Domingo. Nella parte di Amelia si alternano Carmen Giannattasio (di cui ricordiamo gli inizi all’Accademia della Scala) e Tatiana Serjan, nei panni del Fiesco Alexander Tsymbalyuk e Orlin Anastassov, in quelli di Adorno Ramón Vargas e Fabio Sartori e in quelli di Paolo Vitaliy Bilyy e Artur Rucinski. Alla Fenice, dove l’opera debuttò nel 1857, il lavoro viene proposto nella versione definitiva del 1881 con Francesco Meli nel ruolo di Gabriele Adorno, Simone Piazzola in quello di Simon Boccanegra, Giacomo Prestia in quello di Jacopo Fiesco, Julian Kim in quello di Paolo Albiani e Luca Dall’Amico in quello di Pietro, e con la direzione di Myung-Whun Chung che torna sul Verdi maturo dopo lo straordinario Otello del 2012. Firma l’allestimento il regista napoletano Andrea De Rosa, premio UBU 2005 per Elettra di Hoffmannsthal, che dal 2004 alterna teatro lirico e teatro di prosa.
L’OPERA
Un breve cenno all’opera, dimenticata per diversi decenni sino a quando negli Anni Sessanta e Settanta Gianandrea Gavazzeni e Claudio Abbado dimostrarono che è delle più importanti del catalogo verdiano. Simon Boccanegra è il primo doge di Genova nel periodo storico di transito dal Medioevo al Rinascimento.
L’opera è stata una delle più “maledette” tra le “opere maledette” di Verdi. Fu un tonfo alla “prima” alla Fenice nel 1857 e, rimaneggiata nel libretto e nella musica, ebbe esiti modesti nelle riprese a Reggio Emilia, Milano, Napoli e Firenze nel 1858-59. Ripensata, con l’aiuto di Arrigo Boito che rimise mano a parti essenziali del libretto, fu un successo di breve durata quando la versione, adesso corrente, raggiunse La Scala nel 1881. Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, venne dimenticata. Gino Marinuzzi, consapevole che si trattasse di un capolavoro unico nel teatro verdiano ed europeo più in generale, tentò di rilanciarla, a Roma, nel 1934.
LA CONSACRAZIONE INTERNAZIONALE
Da allora, “Boccanegra” ha ripreso un lento cammino, giungendo alla consacrazione internazionale vera e propria grazie a due edizioni eccellenti, ma molto differenti: quella di Gianandrea Gavazzeni, tragica, cupa, quasi infernale (ascoltabile in un mirabile cd della Rca, nettamente superiore a una versione sempre curata da Gavazzeni pochi anni prima), e quella di Claudio Abbado, invece, dolce, densa di colori chiari e di volumi leggeri (impareggiabili le evocazioni marine) che in un allestimento di Strehler e Frigerio ha viaggiato a Londra, Parigi, Mosca, Washington e Vienna ed è disponibile in cd e in dvd. Vidi la versione “Abbado” nel 1976 a Washington quando vi venne portata in tournée dalla Scala in occasione del bicentenario dell’indipendenza Usa. Ho anche visto, a Firenze, una seconda edizione “Abbado”, con la regia di Peter Stein, concepita per il Festival di Salisburgo del 2000. A differenza dell’edizione del 1971 in cui , in un gioco di luci, dominava la brezza marina, mentre oggi elementi scenici essenziali e la recitazione raffinata contrappuntano l’apologo del potere e dell’amore paterno nel viaggio di Simone verso la morte. Abbado dava all’opera una tinta soffusa, notturna, sofferente e commossa, priva forse delle evocazioni marine ma ancora più distante dalla lettura di Gavazzeni (o di quelle di Fabio Luisi e Bruno Bartoletti, ascoltate di recente). In breve, Muti gareggia con due giganti. Non includo nel novero Michele Mariotti che pochi anni fa, affrontò l’opera nel 2007 a Bologna a 28 anni, troppo giovane per carpirne i maturi segreti.
UN’OPERA POLITICA
È anche una delle opere più apertamente “politiche” di Verdi. Le diverse versioni di “Boccanegra” e l’epistolario del maestro di Busseto, rivelano come Verdi fosse un partecipante entusiasta al movimento di unità nazionale, ma diventasse progressivamente deluso da una “politica politicante”,come il protagonista del romanzo incompiuto “L’imperio” di Federico De Roberto, sempre più distante dalla sua visione lungimirante. Nella scena-chiave di “Boccanegra”, il doge fa proprio l’appello di Francesco Petrarca di porre fine alle guerre tra le repubbliche di Genova e di Venezia allo scopo di lavorare insieme per un’Italia libera, ma non è compreso né dai patrizi né dai plebei. Ciò innesca l’intrigo che porta alla catarsi finale. “Boccanegra” (i cui temi “politici” in parte verranno ripresi in “Don Carlo” e in “Otello”) svela un rapporto tormentato con la politica analogo a quello con la religione: la visione a lungo raggio della Politica con la “p” maiuscola e i programmi per realizzarla vengono bloccati da una politica con la “p” minuscola ridotta a intrighi. Opera radicalmente innovativa nella struttura drammaturgica (i fatti rappresentati nel Prologo precedono di 25 anni l’azione dell’Atto I), è uno dei lavori più moderni di Verdi.
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L'Italiana in Algeri
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L'Italiana in Algeri
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martedì 28 ottobre 2014

Ecco la vera disputa fra Padoan e Katainen in Formiche 28 ottobre



Ecco la vera disputa fra Padoan e Katainen
28 - 10 - 2014Giuseppe Pennisi
Indubbiamente, per i lettori in senso lato non è facile comprendere il significato dello scambio di lettere tra il ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan ed il Commissario Europeo Jyrki Katainen sulla Legge di stabilità. Così come è stato arduo capire cosa fossero le richieste spesso ripetute di una “maggiore flessibilità” come “scambio politico” per le “riforme di struttura”.
Una responsabilità di non poco conto la hanno i media. In primo luogo la televisione: i talk show trattano principalmente di economia e di politica economica ma sono quasi sempre affidati a conduttori che masticano poco della prima e nulla della seconda. Hanno la scusa – dicono – di avere poco tempo; forse sono solo poco preparati e peggio organizzati. In secondo luogo, anche la stampa su carta non ha colto il punto essenziale. Lo hanno fatto molto meglio i giornalisti francesi; forse il fatto che Oltralpe si richieda una laurea per l’accesso alla professione, e che il trattamento dell’economia viene affidato a giornalisti che hanno sudato sulla materia in università ha un certo peso.
In effetti, l’utilizzazione di “riserve” o di aumenti dell’Iva per restare entro il vincolo di un indebitamento netto della pubblica amministrazione non superiore al 3% del Pil sono i temi su cui viene posto l’accento. Il nodo del problema, invece, è la differente percezione tra i servizi della Commissione Europea e numerosi economisti italiani (e non solo) di quale è l’output gap dell’Italia.
L’output gap è la differenza tra il prodotto potenziale di beni e servizi e quello effettivo. Una lettura attenta del Trattato di Maastricht e dello stesso Fiscal Compact indica che le “circostanze straordinarie” (che consentono deroghe ai parametri) si verificano quando, per un lasso lungo di tempo, c’è un output significativo. E’, quindi, necessario stimare tale gap ed avere metodi di stima convergenti per potere collaborare efficacemente.
Prima della crisi, nel 2008, la Commissione Europea, il Fondo monetario, l’Ocse e le altre maggiori istituzioni internazionali (esiste a riguardo un ottimo documento del servizio studi della Banca centrale europea) stimavano attorno all’1,3% la crescita potenziale del Pil dell’Italia. Per avere un termine di paragone i “piani triennali” predisposti all’inizio degli Anni Ottanta la ponevano sul 2-2.5%, spiegando eloquentemente che è quello che ci si poteva aspettare da un Paese con una popolazione anziana, un apparato produttivo non modernizzato eccetto che in certe nicchie specifiche, ed un’amministrazione pubblica tutt’altro che efficiente. Le stime econometriche che giungevano ad un potenziale di crescita dell’1,3% tenevano conto dell’evoluzione avvenuta negli ultimi trent’anni (non positiva né sotto l’aspetto demografico né sotto quello dell’apparato produttivo), nonché dal peso del debito che incide comunque sulla crescita.
Nel 2010 il servizio studi della Banca d’Italia ha pubblicato un ottimo lavoro di Antonio Bassanetti, Michele Caivano ed  Alberto Locarno (il “Temi di Discussione” n. 771) che esaminava il periodo 1999-2005 (ossia pre-crisi) con vari metodi e poneva l’output gap tra lo 0,5% e lo 0,7% del Pil. Se la crescita potenziale è lo 1,3%, quella effettiva si poneva attorno tra lo 0,8% e lo 0,6%. Di recente, l’Ocse ha stimato l’output gap dell’Italia a -5 punti percentuali del Pil; una chiara giustificazione di ‘circostanze straordinarie’ tale da giustificare un disavanzo dei conti pubblici ben superiore al 3% del Pil.
Non è affatto chiaro quale metodo venga ora utilizzato a Bruxelles per stimare l’output potenziale dell’Italia. Se come nei manuali degli anni Settanta si impiega il tasso di disoccupazione che non accelera l’inflazione, si arriverebbe paradossalmente che la situazione potenzialmente ottimale sarebbe quella di crescita zero e un tasso di disoccupazione del 12% delle forze di lavoro.
Il problema è solo apparentemente tecnico, come ha scritto la stampa francese rispetto al loro output gap. E’ molto politico.
Il governo dovrebbe chiedere a Bruxelles di scoprire le carte, mostrare i “suoi” numeri e spiegare come ad essi si è arrivati.
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Pier Carlo Padoan
Pier Carlo Padoan
Pier Carlo Padoan
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Pier Carlo Padoan
Pier Carlo Padoan
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