venerdì 15 agosto 2014

L’idea del Fmi: sull’inflazione la Bce alzi il target al 4% in Avvenire 15 agosto



L’idea del Fmi: sull’inflazione la Bce alzi il target al 4%


GIUSEPPE PENNISI
L’

Istat mercoledì ha cer­tificato che i prezzi al consumo non hanno subito alcun aumento in luglio ma una leggerissima contrazio­ne (-0,1%) rispetto al livello rag­giunto in giugno. Mentre in Sici­lia, Sardegna e Trentino, gli indi­ci dell’andamento dei prezzi hanno segnato piccoli aumenti, in tutte le altre Regioni hanno accusato riduzioni, particolar­mente forti in dieci grandi città. Perché dovremmo preoccupar­ci? Di solito è l’incessante cre­scita dei prezzi, principalmente di beni e di servizi considerati 'di prima necessità', a far tre­mare i polsi alle massaie ed ai padri di famiglia. Gli economi­sti si innervosiscono per la loro contrazione. Il fenomeno avvie­ne al termine di un decennio di stagnazione e dopo quattro an­ni della recessione più lunga dal­la fine delle Seconda guerra mondiale. Può essere l’inizio di una deflazione in cui l’Italia si avvita su se stessa: i consumato­ri ritardano acquisti in attesa di ulteriori riduzioni dei prezzi, la produzione diminuisce, la di­soccupazione cresce. Lo stessa ribasso dei tassi d’interesse com­porta una riduzione dei rendi­menti per molte forme di previ­denza integrativa; quindi o si au­menta il montante con accanto­namenti più alti o nella terza età ci si dovrà accontentare di asse­gni più sottili (anche in quanto la previdenza pubblica viene 'ri­valutata' in base all’andamento del Pil). La deflazione, quindi, pesa anche sulle nuove genera­zioni. E fa paura. Internazionale (il Working Paper 14/92) argo­menta, con solide analisi, che occorre portare la regola dal 2% al 4%: la crisi che tormenta l’eu­rozona sarebbe meno severa se l’asticella dei prezzi fosse più al­ta. All’interno del servizio studi della Bce, cominciano a circola­re lavori in questo senso. So­prattutto, la misura, pur non ri­solutiva, avrebbe un effetto sui comportamenti di imprese e consumatori: la consapevolez­za che la Bce è pronta ad accet­tare un più alto tasso d’inflazio­ne sarebbe un segnale impor­tante che si volta pagina rispet­to ad un’austerità basata su pa­rametri e vincoli di cui non si Nel Ventesimo secolo da defla­zioni di peso si è usciti o con un forte impegno della mano pub­blica (finanziando in deficit spese soprattutto per investi­menti) oppure scivolando ver­so regimi politici autoritari. Nessuno si augura questa se­conda prospettiva. Le regole dell’unione monetaria chiedo­no che si vada verso il pareggio di bilancio. La deflazione – af­fermano studi nell’ultimo nu­mero del Journal of Common Market Studies – potrebbe es­sere la miccia della 'disintegra­zione europea' (è il titolo del saggio di Hans Vollaard dell’U­niversità di Leiden in Olanda).

Può la Banca centrale europea dare un contributo? Probabil­mente, sì. Non tanto con misu­re 'non convenzionali' (come gli Omt, Outright Monetary Tran­sactions, dirette principalmen­te all’acquisto di titoli del debi­to pubblico). Quanto con azioni mirate a mostrare che le autorità monetarie europee sono pronte ad accettare un tasso moderato d’inflazione per uscire dal peri­colo della 'deflazione'.

Il primo regolamento approva­to dagli organi di governo della Bce afferma che l’istituto deve intervenire per stabilizzare i mercati (ossia in senso restritti­vo) se il tasso d’inflazione supe­ra il 2% l’anno. Da settimane , un documento del Fondo Mo­netario toccano ancora i benefici.

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