sabato 3 maggio 2014

Debiti alti, si faccia pulizia in Avvenire 3 maggio



Debiti alti, si faccia pulizia


GIUSEPPE PENNISI
Q
uante sono le municipalizzate? Secondo le stime più accreditate, quelle 'primarie' sarebbero al­meno 6.000. Ci sono poi le società di se­condo grado, 'figlie' delle prime, in me­rito al cui numero nessuno può azzardar stime. Il presidente del Consiglio ha det­to che in tutto sono 8.000; probabilmen­te un’approssimazione per difetto. La ra­gion d’essere di numerose di queste so­cietà 'figlie' pare essere quella di aggira­re (entro certi limiti) la normativa su ap­palti e commesse. La situazione non sarebbe preoccupante se, come auspicato da Giovanni Monte­martini in età giolittiana (in testi studiati, obliati in Italia, ma su cui si basano le di­rettive della Banca mondiale) le munici­palizzate portassero un flusso di cassa po­sitivo netto, grazie al quale Regioni e Co­muni potrebbero poi destinare risorse e progetti ai più deboli. In realtà sembrano, invece, essere né più né meno che una fab­brica di cambiali. Secondo la banca dati del Dipartimento della Funzione Pubblica i risultati econo­mici delle municipalizzate italiane sono crollati del 77%: nel solo 2011, ultimo an­no monitorato, soltanto il 56% delle so­cietà locali ha chiuso in utile e meno del 7% degli utili è stato generato da aziende interamente pubbliche. Per la Corte dei Conti, l’indebitamento netto di questo 'capitalismo delle autonomie locali' si porrebbe sui 35-40 miliardi.

I vari tentativi di porre rimedio hanno fat­to un buco nell’acqua. Lo scorso autunno i Comuni fino a 30mila abitanti, cioè 96 municipi su 100, avrebbero dovuto priva­tizzare le proprie società, ma non se ne è fatto nulla. La regola è in Gazzetta Uffi­ciale dal 2010, quando la manovra estiva diede un ordine draconiano: fino a 30mi­la abitanti non si possono costituire so­cietà partecipate e i Comuni che le aveva­no, avrebbero dovuto cederle entro il 31 dicembre 2012. È seguita la pioggia di cor­rettivi, che hanno diluito e snaturato il te­sto originario. La legge oggi in vigore sal­va le società con i conti in ordine, ma im­pone di vendere quelle che zoppicano e magari hanno subito negli ultimi anni per­dite tali da portare il capitale sotto i mini­mi richiesti. Dato che se queste sono mes­se in vendita, nessuno le compra, se ne dovrebbe imporre la liquidazione.

Vicende analoghe hanno avuto i tentativi di porre ordine nelle società 'strumenta­li', cioè quelle che lavorano quasi esclusi­vamente per l’ente pubblico che le ha crea­te. A prenderle di mira è stata la spending review: non servono a nulla perché è me­glio acquistare i servizi dal mercato. In que­sto caso i termini erano doppi: la privatiz­zazione doveva avvenire entro il 30 giugno scorso, mentre a dicembre avrebbero do­vuto chiudere i battenti quelle non anco­ra privatizzate. La Corte costituzionale, chiamata in causa da Friuli Venezia Giu­lia, Campania, Puglia e Sardegna, a luglio ha stabilito che, in base all’attuale Titolo V, la regola è incostituzionale per le tutte le Regioni e per i Comuni nei territori a Statuto speciale. Il presidente del Consiglio in carica è stato presidente di provincia e sindaco di una grande città. Ha quindi e­sperienza in materia di governo degli en­ti locali. Se non la coniuga con l’ambizio­ne di modernizzare l’Italia, diventerà po­co più che un numero: una vittima in più del 'socialismo reale' a livello locale.

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Per la Corte dei Conti l’indebitamento netto del 'capitalismo delle autonomie locali' è sui 35-40 miliardi. I tentativi di porvi rimedio hanno fatto un buco nell’acqua


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Una recente protesta a Genova dei lavoratori delle società municipalizzate
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