mercoledì 15 gennaio 2014

Parsifal» punta alla redenzione nonostante le provocazioni in Avvernire 16 gennaio





GIUSEPPE PENNISI

BOLOGNA
N
egli ultimi 45 minuti del terzo at­to, la periferia di una grande città contemporanea si affolla gradual­mente e tutta la popolazione si mette in cammino verso la salvezza sino a quando (pochi istanti prima del calar del sipario) il protagonista, appena diventato sacerdote, resta solo ed una voce fuori sce­na ricorda come nella Redenzione, uomi­ni e donne si congiungono con l’Alto. Nel secondo atto siamo in mondo corrotto del­l’inizio del Novecento; qui il nostro eroe ha contezza del peccato e sa sfuggirlo. Nel pri­mo atto, in densa foresta primordiale (Ger­mania medioevale o Amazzonia poco im­porta), il giovane assiste al Sacramento del­l’Eucarestia ma resta ignavo: non com­prende nulla.

Questo è Parsifal di Richard Wagner in sce­na a Bologna sino al 25 gennaio. Coprodotto con il Teatro Reale di Bruxelles ed affidato per regia, drammaturgia, scene, costumi e luci ad un team d’avanguardia italiano (Romeo Castel­lucci e Piersandra Di Matteo) e per la parte musicale a Roberto Ab­bado (che debutta nel dirigere Wagner), si te­meva uno spettacolo dissacrante. Come altri di Castellucci (ricordiamo le polemi­che su Sul concetto di volto nel figlio di Dio) o come le edizioni di Parsifal in scena a Stoccarda (regia di Bieito) o a Londra (Lan­gridge). Invece, pur se alcuni momenti del secondo atto posso destare perplessità per gli espliciti accenni al sadismo non affatto attinenti al testo o alla musica, la produ­zione è rispettosa dello spirito della «sacra rappresenta­zione in musica» (così Wagner chiamò il lavoro). Non mostra un Me­dioevo di cartapesta ma l’eternità atem­porale del trinomio 'consapevolezza del peccato-pietà­redenzione'. Eccel­lente l’idea di non mostrare al pubblico la Consacrazione e l’Eucarestia (sempre dif­ficile in teatro): si svolgono dietro un sipa­rio bianco mentre i solisti (e parte del co­ro) sono sul palcoscenico ed il resto nei pal­chi e nel loggione, avvolgendo, con effetti stereofonici, gli spettatori. Sotto il profilo musicale, è un Parsifal mol­to 'italiano', come quello di Pizzi-Ferro a Venezia nel 1983. Abbado tiene meticolo­samente i tempi, quali appuntati da Hum­perdinck (assistente di Wagner) nelle pro­ve del primo allestimento a Bayreuth nel 1882. Il protagonista non né un tenore 'e­roico', ma un tenore 'lirico spinto' (l’a­mericano Andrew Richards), la protagoni­sta femminile non un soprano drammati­co, ma un contralto (la svedese Anna Lar­soon) come vollero Solti e Ferro. Di gran­de livello Gábor Bretz nel faticosissimo ruo­lo di Gurnemantz e Detlef Roth in quello di Amfortas. Lucio Gallo è un Klingsor sa­dico e perverso. Meritano un elogio i cori, da quello del Teatro Comunale diretto da Andrea Faidutti, a quello di voci bianche della scuola Alessandra Galante Garrone diretto da Alhambra Superchi. Debole la coreografia di Cindy Van Acker in alcuni momenti di un secondo atto che varrebbe la pena rivisitare.

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A Bologna la regia di Castellucci esagera ma non tradisce Wagner, bene Roberto Abbado



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