venerdì 31 gennaio 2014

Che cosa si dice dell’Italia in Bankitalia e al Fondo monetario internazionale in Formiche del 31 gennaio

Che cosa si dice dell’Italia in Bankitalia e al Fondo monetario internazionale

31 - 01 - 2014Giuseppe Pennisi
Che cosa si dice dell'Italia in Bankitalia e al Fondo monetario internazionale
Il dibattito sulla legge elettorale, in corso (con toni anche violenti) in questi giorni, ha come obiettivo la “governabilità”. Una volta ottenuta – di dritta, di raffa o di baracca – l’agognata e sospirata “governabilità”, che ne facciamo? Il segretario del Partito Democratico, Matteo Renzi, dovrebbe chiederselo. Nei suoi frequenti appelli al suo ‘fraterno’ amico Presidente del Consiglio, Enrico Letta, invita il governo a un cambio di marcia, per accelerare l’attuazione di un programma (i cui lineamenti sono peraltro molto sfumati). Non varrebbe la pena domandarsi se siamo sulla corsia giusta. Accelerando la marcia sulla corsia sbagliata, porta inevitabilmente a uno scontro tanto più forte quanto più si preme il pedale. In questo caso, forse sarebbe meglio la “non governabilità” con pertinente paralisi da ingorgo.
Che l’Italia non sia necessariamente sulla strada giusta paiono suggerirlo due seminari, uno ad inviti (alla Banca d’Italia) tenuto la mattina del 31 gennaio, e l’altro, organizzato dall’Istituto Affari Internazionali (IAI), il 28 gennaio, in una saletta al piano seminterrato di quello che fu il ‘Bottegone’ con la richiesta di massima discrezione.
Specialmente eloquente il primo, articolato su una presentazione del rapporto del Fondo monetario su crescita ed occupazione in Europa, un documento che pochi alti funzionari ministeriali hanno letto e che nessun politico ha sfogliato. Dal testo, e dalla discussione, si traggono queste conclusioni in termini di contenuti da dare alla “governabilità” se la si otterrà:
In primo luogo, nell’UE a 15 (ossia senza contare gli Stati aggiunti con l’allargamento, il debito sovrano è pari all’80% del Pil, ossia allo stesso livello a cui era nel 1945, con un forte aumento rispetto al 1975 (quando era giunto al 20% del Pil). E’ distribuito in modo non omogeneo tra i 15 Stati ma incide sulla crescita meno di quanto non si pensi.
Un vincolo più grave è l’indebitamento delle aziende e delle famiglie (in forte ascesa soprattutto in Italia). Alle prime blocca gli investimenti. Alle seconde i consumi. Il programma per smaltire almeno parte del debito commerciale delle pubbliche amministrazioni con le imprese non pare abbia avuto, sino ad ora, gli esiti sperati. L’impoverimento progressivo delle famiglie rende difficile contare sulla domanda interna.
In questo quadro, non certo positivo, si innescano i problemi della produttività. Nell’UE dal 1945 al 1975, la produttività del lavoro è cresciuta a tassi maggiori che negli Usa; da allora, la tendenza si è rovesciata. Dal 2000, in due Stati UE la produttività ha avuto complessivamente crescita zero: l’Italia (dove la produttività era relativamente bassa) e la Svezia (dove era alta).
Su questo scenario, si pone il problema occupazionale: l’Italia è lo Stato UE a tasso di partecipazione più basso nella forza lavoro di coloro che hanno l’età di lavoro (appena il 65% rispetto al 75% della Spagna ed all’80%) degli Stati Nordici.
L’export è stato l’elemento dinamico della crescita, ma lo sarà in futuro dato il rallentamento dello sviluppo in numerosi mercati “emergenti” e dato che siamo lontani dell’”hub” europeo la Germania e siamo tardivi nel collegarci con il resto d’Europa (leggi “Tav”).
Da questo quadro emerge chiaramente l’esigenza di porre l’accento sullo smaltimento del debito privato (imprese, famiglie)  sull’aumento della produttività, sulle infrastrutture che, nel breve periodo, contribuiscono all’occupazione e nel lungo al rendimento di tutti i fattori di produzione, e su un programma “comprehensive” per l’occupazione (lo è il Jobs Act?).
A conclusioni per certi aspetti analoghe si giunge dalla lettura del documento sul debito sovrano del Centre for International Governance Innovation – quello discusso nel sottoscala del “Bottegone”. Viene proposto un modo non necessariamente innovativo – negoziare ristrutturazioni sulla base di clausole di azione collettiva – invece di continuare a sperare in un’unione bancaria europea, non solo piena di buchi ma in effetti affossata questa settimana dal Parlamento Europeo (EP). E di cui si riprenderà a discutere tra diversi mesi, dopo la formazione del PE (e dei suoi organi) scaturente dalle elezioni di fine magg

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