domenica 24 novembre 2013

La "vendetta" della Germania contro l'Europa in Il Sussidiario del 25 novembre



SPY FINANZA/ La "vendetta" della Germania contro l'Europa

Pubblicazione:
Infophoto Infophoto
Approfondisci

FINANZA/ La "balla" sull’austerità di cui nessuno parla, int. ad A. Bagnai

SPY FINANZA/ Il nuovo "bluff" di Draghi per tenere in piedi l'Europa, di M. Bottarelli

NEWS Economia e Finanza

RC AUTO/ Dagli italiani un "regalo" alle assicurazioni

PRIVATIZZAZIONI/ Perché non "svendiamo" l'euro?

SPY FINANZA/ La "vendetta" della Germania contro l'Europa

Casa: c'e' la crisi ma Venezia si conferma eccezione 'di lusso'

Dossier illeciti: portavoce Tronchetti, nessun ruolo vertici Pirelli

Crisi: Almalaurea, per meta' laureati non rispettate aspettative

Gli esami non finiscono mai, come diceva, sin dal titolo, una commedia di Edoardo De Filippo. Specialmente nell’eurozona. Adesso vi è finita la Germania in base a uno dei numerosi protocolli inter-governativi redatti e firmati per rattoppare il Trattato di Maastricht, pensato frettolosamente (e redatto ancor più affannosamente) sotto la spinta dell’unificazione tedesca. Il protocollo cerca di regolamentare eccedenze e disavanzi delle bilance dei pagamenti. In particolare, si finisce sotto esame se il surplus supera il 7% del Pil. La Germania eccede questo tetto e, quindi, la Commissione europea ha aperto un’istruttoria.
Naturalmente ai tedeschi non garba affatto di essere sotto inchiesta per “eccesso di efficienza”. Prima che la procedura venisse aperta, due economisti italiani - Luigi Bonatti dell’Università di Bergamo e Andrea Fracasso di quella di Trento - hanno esaminato in dettaglio il “modello tedesco” nell’ultimo numero del Journal of Common Market Studies; hanno concluso che, per quanto neo-mercantilisti, inchieste e minacce di sanzioni non indurranno i tedeschi, che sono passati “per vent’anni di dolorose riforme”, a dare una mano ai paesi in difficoltà. Specialmente a quelli che, a torto o a ragione, vengono considerati scavezzacolli che hanno firmato i Trattati dell’unione monetaria pensando di comportarsi da “figliol prodighi”.
A Berlino, dove ho passato circa una settimana, non si respira aria affatto buona nei confronti dell’eurocrazia. Un economista autorevole e considerato europeista come Charles B. Blankart della Humboldt Universitat ricorda che nel 1991-92 tutti erano consapevoli che all’eurozona mancassero le caratteristiche di «un’area valutaria ottimale», ma speravano che i parametri di Maastricht (con annessi e connessi) e le forze del mercato avrebbero stimolato la convergenza dei settori produttivi. «Mentre, grazie alla “mano invisibile” l’economia reale ha tentato di effettuare gli aggiustamenti necessari, i governi hanno fatto l’opposto», sperando che andando ciascuno per la propria via prima o poi i governi più facoltosi avrebbero aiutati gli altri a togliersi d’impiccio perché la tenuta dell’unione era anche nell’interesse dei più virtuosi e dei più forti.
Le “sanzioni” che potrebbero essere comminate al termine dall’inchiesta della Commissione provocano irritazione e ironia. Il problema di come evitare squilibri troppo accentuati nei conti con l’estero - ricordano gli economisti tedeschi - fu una delle preoccupazioni principali di John Maynard Keynes alla conferenza di Bretton Woods, come mostra il carteggio con Roy Harrod. La conclusione fu che la sola “sanzione” può essere erogata dal mercato apprezzando il cambio (il prezzo di tutti i prezzi) del Paese con un attivo eccessivo. Keynes abbandonò la sua idea di una moneta unica “mondiale” (il bankor) per sposare quella di cambi sostanzialmente fissi, ma variabili entro margini stretti e se del caso aggiustabili (con rivalutazioni e svalutazione) in seguito a decisioni collegiali sulla base di analisi del Fondo monetario internazionale.
Ciò sarebbe stato possibile se fossero ancora in vigore gli accordi europei sui cambi (giornalisticamente chiamati Sistema monetario europeo, Sme), ma non lo è nell’ambito di un’unione monetaria. Gli attivi e i passivi all’interno dell’unione rappresentano quelle che gli economisti chiamano fiscal devaluation e fiscal appreciation - mutamenti al ribasso o all’insù dei tenori di vita che rispecchiano, principalmente, differenziali di produttività e competitività. L’Italia, secondo stime dell’Istituto Affari Internazionali, ha subito una fiscal devaluation del 30% (in termini di perdita di potere d’acquisto e di quote di mercato). Ne può uscire soltanto con maggiore produttività e competitività
Cosa possono chiedere alla Germania la Commissione europea e gli altri Stati dell’area dell’euro? Non certo di ridurre produttività e competitività, poiché ne soffrirebbe il resto dell’eurozona più della Repubblica Federal, come ha eloquentemente documentato Clemens Wergin, capo della redazione esteri di Die Welt. Ancora meno il pagamento di una multa (ossia di un deposito infruttifero presso la Commissione europea) in quanto potrebbe rendere più dura la strategia della Bundesbank proprio al fine di non “monetizzare”, e non creare inflazione, il pagamento dell’ammenda. Maggiori investimenti pubblici (e spesa per il sociale)? Sono elementi già inclusi nel programma in discussione tra i partner della “Grande Coalizione” in formazione.
Per il momento, l’indagine ha reso più distante la possibile nascita di eurobond e altri interventi a favore dei paesi più deboli. «Perché vi fate del male con le vostre stesse mani?», è la domanda fattami da un collega tedesco che potrebbe contare nel prossimo esecutivo.


© Riproduzione Riservata.


Nessun commento: