lunedì 21 ottobre 2013

POLITICHE E CRITERI D’INVESTIMENTO PER LE INFRASTRUTTURE in Saggi in onore di Augusto Sinagra




POLITICHE  E CRITERI D’INVESTIMENTO PER LE INFRASTRUTTURE
Giuseppe Pennisi
Università Europea di Roma
Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro
1 Premessa In questi ultimi mesi  il dibattito sul ruolo delle infrastrutture nella politica di uscita dalla crisi in Europa e più specificatamente in Italia si è fatto particolarmente intenso, anche a ragione di interpretazioni giornalistiche di dichiarazioni di esponenti delle parti sociali [1].. Si dispone, inoltre, di ricca documentazione messa a punto in occasione di analisi e confronto a carattere pubblico (ad esempio, Balassone , Casadio, 2011; Bassanini, Reviglio 2011, Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, 2011a); Ministero dell’Economia e delle Finanze . 2011; Wagenwoort, R. De Nicola C., Kappeler A. 2011,) con dati ed analisi di alto livello. Ci sono stati altri contributi importanti sia italiani sia internazionali (ad esempio, Calderon, Moral-Benito, Serven, 2011; Hull, 2011;Ragazzi, 2011)
Questa nota ha l’obiettivo di tirare le somme di quanto pubblicato e di formulare alcune proposte al fine di meglio definire parametri e criteri per la definizione d’investimenti in infrastrutture che meglio contribuiscano ad una crescita inclusiva – per “inclusiva” si intende cresciti che dai particolare attenzione alla aree territoriali ed alle fasce di reddito e di consumo meno favoriti.
La nota è divisa in quattro parti: a) definizioni di come vengono contabilizzate le spese per le infrastrutture; b) strategia di rilancio della spesa pubblica e privata per le infrastrutture c) le strategie europee nel settore  e d) parametri e criteri per l’analisi degli investimenti, tenendo conto dei lavori recentemente avviati dall’Istat.
2. I Conti delle Infrastrutture Qualsiasi analisi delle politiche relative alle infrastrutture richiede elementi quantitativi di base; ad esempio, indicatori della spesa per infrastrutture in termini di Prodotto interno lordo(Pil). Tale elementi quantitativi sono difficilmente comparabili, come rilevato dalle recenti analisi della Bei (Wagenwoort, De Nicola, Kappeler, 2011) e della stessa Banca D’Italia (Balassone,.Casadio, 2011) Come ricordato nel lavoro Bei, la definizione che sembra più sensata (e che è più frequentemente utilizzata) è quella proposta da Gramlich una ventina di anni fa che, al termini di una dettagliata rassegna della lettera economica in materia, restringe il campo essenzialmente alle infrastrutture fisiche (strade, ponti, ferrovie, porti, idrovie smaltimento di rifiuti), specialmente se in condizione di monopolio naturale. Lo stesso lavoro Bei sottolinea che tale definizione include esclusivamente l’infrastruttura “economica” , escludendo quella “sociale” (scuole , ospedali). A mio avviso , l’esclusione è molto più netta da quanto appaia nel lavoro Bei poiché da circa trent’anni sono varie forme di capitale “umano” e di “capitale sociale” (North, 1994) sono considerate le leve per la crescita inclusiva e lo sviluppo endogeno (per una rassegna, Pieterse 2001; in questa accezione , per il “sociale” come “scuole” e “ospedali” la componente fisica (“bricks and mortar” , mattone e cemento) raramente supera più del 10% della spesa e ciò che conta sono i flussi annuali (ovviamente capitalizzabili) per assicurarne il buon funzionamento.
 Di conseguenza, un’interpretazione di cosa sono le infrastrutture tale da includere queste componenti, pur se giustificata sotto il profilo dell’analisi economica, comporterebbe l’aggiunta di spese pubbliche e private che, sotto invece, il profilo contabile sono di parte corrente. Paradossalmente, in Italia mentre  negli ultimi quattro anni il rapporto investimenti pubblici per infrastrutture è sceso (raffrontando i conti pubblici e la contabilità economica nazionale da 2.5% a 1.6% del Pil – si aggirava sul 3% negli Anni Ottanta-, il rapporto sarebbe rimasto sostanzialmente stabile (attorno al 18% del Pil) includendo le spese per istruzione e sanità  quelle maggiormente dirette al capitale umano ed al capitale sociale. Una delle ragioni per cui non è stata accettata,a livello dell’eurozona, l’ipotesi di una “Golden Rule” tale da esentare le spese per il capitale dal computo del rapporto tra spesa pubblica e Pil ai fini del “patto di crescita e di stabilità” risiede proprio nella difficoltà di definire cosa sono, in una visione moderna del pensiero economico, cosa debba o non debba rientrare nel concetto di spesa per investimento (Breuss, 2007). Cosa includere e cosa non includere nella definizione di cosa è e cosa non è “infrastrutture” (al di là di quelle fornite dalla statistica economica e dalla contabilità economica nazionale, di solito basta su quella di Gramlich)diventa elemento essenziale sia per l’allestimento e la valutazione delle politiche per le infrastrutture , sia per finalità direttamente operative su cosa posa essere considerato finanziabile ad esempio da parte della Cassa Depositi e Prestiti (CPD) e delle istituzioni appartenenti al Long Term Investment Club (LTIC).[2]
Occorre, poi, sottolineare un aspetto sollevato , sempre circa venti anni fa, dall’allora direttore del Congressional Budget Office, Alice Rivkin: in un’economia avanzata e matura – Alice Rivkin guardava agli Stati Uniti ma si può fare un ragionamento analogo per l’Europa in generale e per l’Italia in particolare- le spese infrastrutture fisiche differiscono in misura significativa da quelle che caratterizzano Paesi o regioni in via di sviluppo: nei Paesi maturi riguardano non tanto la creazione di nuove infrastrutture fisiche quanto l’ammodernamento e la manutenzione straordinaria di quelle esistenti – e , di conseguenza, assume un ruolo specialmente importante il dibattito su come contabilizzare i “costi accantonati” (in gergo i sunk costs) mentre, di converso, esternalità ed interdipendenze e prezzi ombra di alcuni fattori (e.g. lavoro) sono centrali nell’analisi economica di nuove infrastrutture fisiche.
Queste considerazioni sono utili non unicamente sotto il profilo metodologico ma anche per spiegare , da un canto, il differente grado e la differente natura di dotazione in infrastrutture tra varie aree d’Europa e d’Italia (aspetto descritto in modo accurato in Balassone e Casadio, 2011) ma anche i differenti effetti della crisi in corso dal 2007 tra il gruppo originario, o quasi, di Stati dell’Unione Europea (UE) e gli Stati neo-comunitari (analizzato in Wagenwoort, De Nicola, Kappeler, 2011). Nell’UE a 15, in effetti, c’è stata una marcata riduzione della spesa per infrastrutture secondo la definizione di Gramlich, mentre negli Stati neo comunitari la flessione è stata breve e poco marcata. Nel primo gruppo, i programmi di ammodernamento e di manutenzione straordinaria potevano essere posposti; nel secondo, invece, ritardi in questo campo avrebbero reso molto più lunga e molto più difficile la convergenza con il resto dell’UE anche in base ai teoremi fondamentali della teoria dell’integrazione economica (Balassa, 1961.). Nel primo gruppo, infine, c’è stata una rapida espansione della spesa per il welfare (indennità di disoccupazione, ed altri ammortizzatori sociali) che secondo un’interpretazione estesa del concetto di “infrastrutture” è necessaria a mantenere quel capitale umano e quel capitale sociale che a differenza del capitale fisico si deteriora se non utilizzato (Galor, 2011; Pennisi, 2011).
Negli anni ’50  sono state realizzate  molte grandi opere perché c’era una volontà politica che si fondava su un ampio consenso (politica, imprese e cittadini). Allo stesso modo per l’opinione pubblica in passato la costruzione di una nuova opera era per definizione un’opportunità, oggi tale percezione non è scontata. Soprattutto, c’era l’esigenza di costruire l’infrastruttura primaria per lo sviluppo del Paese. A partire dalla fine degli anni ’90, invece, le esigenze principali sono state per il completamento e l’ammodernamento del parco infrastrutture esistente, un’esigenza molto più complessa sotto il profilo tecnico, molto più difficile da valutare sotto quello economico e finanziario e molto meno attraente ai fini della costruzione e gestione del consenso. Inoltre, il completamento e l’ammodernamento del parco infrastrutturale hanno dovuto misurarsi con le nuove esigenze in campo ambientale e le pertinenti normative nonché con la sempre maggior carenza di risorse finanziarie che andava a influire sulle scelte politiche. Ciò ha cambiato il complesso del ciclo di progetto, le sue regole di governance e il modello normativo di riferimento.

2.I Ritardi nell’Attuazione della ‘Legge Obiettivo’  Il recente documento Cnel di Osservazioni e Proposte conclude che “una condivisione dello “status quo” delle infrastrutture in Italia da parte delle amministrazioni, delle imprese e dei cittadini appare  lontana se si considera che il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha ritenuto  che l’anno che sta per chiudersi (2011) si configuri come un anno di cerniera tra un decennio del “fare”, quello che va dal 2001 al 2010, e il prossimo decennio, quello che va dal 2011 al 2020, che si caratterizzerà come il decennio del “fruire”. Ciò implica non tanto prevedere procedure selettive di nuovi interventi, di nuovi progetti, ma piuttosto misurare le reali ricadute che gli interventi programmati, progettati, e in molti casi appaltati, producono  sul Paese. La tesi formulata dal Ministero contrasta però con i dati dell’Osservatorio sulla legislazione della Camera dei Deputati che dal 2004 monitorizza l’avanzamento degli interventi previsti dalla cosiddetta legge obiettivo (delibera CIPE n. 121/2001).
L’attuazione della Legge Obiettivo dal 2001 a oggi
Attività di programmazione
Anno
Opere
Interventi
Sotto-interventi
Costo complessivo (MLD)
2001
228
373
188
125,8
2010
348
753
358,0
Stanziamento effettivo delle risorse (in miliardi di €)
Valore complessivo dei progetti programmati nella Legge Obiettivo (2010)
Valore dei progetti  approvati dal CIPE
Valore complessivo dei Mutui contratti
Somme  effettivamente erogate
358,00
14,09
8,83
2,50








Fonte: Servizio Studi della Camera dei Deputati, 2011
L’ingente costo complessivo programmato dalla Legge Obiettivo (358 miliardi di €) stride, poi,  con il modesto volume finanziario delle opere effettivamente approvate dal CIPE (14,1 miliardi di €) e del quasi inesistente ammontare delle risorse effettivamente erogate dal 2001 ad oggi (2,5 miliardi fra l’altro ripartite in ben 32 opere). I pochi progetti avviati sono limitati nel loro svolgimento dal contenzioso che, contava, al 28 luglio 2009,  259 ricorsi amministrativi e giurisdizionali (176 promossi da privati, 62 da enti pubblici e 21 da associazioni di cittadini).

La contrazione della capacità di realizzazione non ha determinato né un riesame dei criteri di priorità, né una razionalizzazione della spesa e neppure una politica di sviluppo. Sebbene le informazioni disponibili non consentano confronti internazionali sistematici, esse tuttavia indicano che i costi medi di realizzazione sono relativamente elevati nel nostro Paese, sia per le autostrade, sia per l’alta velocità ferroviaria. Sul divario rispetto agli altri paesi europei, oltre alle condizioni orografiche e di antropizzazione del territorio, hanno inciso anche scelte tecniche. Anche i tempi complessivi di realizzazione sono mediamente più lunghi e gli scostamenti di tempi e di costi di realizzazione, rispetto alle stime iniziali, superiori a quelli rilevati negli altri Paesi europei.

Su tempi e costi di realizzazione influiscono, oltre ai diffusi fenomeni di illegalità e ai contenziosi[3] e lo scarso coordinamento tra i diversi livelli di governo; il ridotto utilizzo di valutazioni standardizzate dei costi e dei benefici economici e sociali dei progetti; le carenze nelle procedure di affidamento dei lavori maggiormente utilizzate, che spesso non garantiscono la selezione dell’offerta migliore.

Dalla fine degli anni ’90 a oggi, i vari Governi che si sono succeduti nel corso delle legislature sono intervenuti in più riprese nel settore delle infrastrutture, sia sul versante della riorganizzazione dell’offerta, proponendo un nuovo schema di accesso al mercato delle opere pubbliche grazie al varo delle Società Organismo di Attestazione (SOA)[4], nel contesto della revisione dell’impianto normativo degli appalti pubblici; sia sul versante della domanda, stabilendo due principi fondamentali per l’intervento dello Stato nelle infrastrutture pubbliche: la snellezza delle procedure, la concentrazione delle risorse finanziarie scarse su un certo numero di progetti prioritari (Legge Obiettivo 2010).

L’esperienza dei primi anni di applicazione non ha prodotto gli effetti sperati. Il sistema di accreditamento delle SOA ha rappresentato un ulteriore stimolo alla staticità, mentre l’endemico ritardo dei pagamenti da parte della pubblica amministrazione ha di fatto consentito solo a poche grandi imprese di rimanere attive. di rimanere attive solo poche grandi imprese. L’enfasi posta sulle opere strategiche proposte dalla Legge Obiettivo si è impantanata all’interno di una amministrazione non adeguatamente preparata a gestire le innovazioni normative. Soprattutto, l’autorità politica non si è asunta fino in fondo la responsabilità di selezionare le priorità  arrivando a identificare fino a ben 348 opere strategiche. Nel corso di questi ultimi dieci anni si è dunque ampliata la distanza che separa gli obiettivi del quadro normativo di riferimento dalla realtà dell’infrastrutturazione strategica del Paese.

La distanza  tra obiettivi e realizzazioni è  sintetizzata dal confronto tra il punto di vista del Governo e del Ministero preposto, da un lato, e il dato fornito dal Servizio Studi della Camera dei Deputati, dall’altro (evidenziato nelle precedenti tabelle),  nonché dalle considerazioni piuttosto scettiche dei rappresentanti di organizzazioni ed enti che hanno interagito con il Gruppo di Lavoro. Le misure fisiche di dotazione infrastrutturale, secondo le analisi del Servizio studi della Banca d’Italia, suggeriscono la presenza di un divario persistente tra l’Italia e i principali Paesi europei nonostante negli ultimi tre decenni la spesa pubblica per investimenti italiana, in rapporto al PIL, sia stata superiore a quella media di Francia, Germania e Regno Unito.

 Il tema delle infrastrutture in Italia, tuttavia, non teme confronti dal punto di vista dell’approfondimento scientifico e di analisi. In proposito, nel corso delle audizioni sono stati ricordati almeno tre documenti ricchi di studi e approfondimenti usciti negli ultimi mesi:
-        il primo, è un documento di programmazione: il Piano nazionale della Logistica 2011-2020, approvato dalla Consulta dell’autotrasporto e della logistica e attualmente in discussione nelle aule parlamentari;
-        il secondo è un repertorio delle principali correnti di pensiero intorno alla questione: “Le infrastrutture in Italia:dotazione, programmazione e razionalizzazione”, a cura della Banca d’Italia;
-        il terzo, infine, è un approfondimento giuridico-istituzionale: “Le infrastrutture strategiche di trasporto: problemi, proposte e soluzioni (non ancora disponibile per la diffusione) elaborato dalle Fondazioni Astrid, Respublica e Italiadecide per conto del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti.

Dai documenti citati emerge  che le sole inefficienze della logistica comporterebbero, secondo il Piano Nazionale della Logistica, un costo di 40 miliardi di euro l’anno. Un primo passo per affrontare i problemi infrastrutturali del Paese consiste nell’appurare quali e quante siano le risorse disponibili[5] e quali siano le priorità strategiche da privilegiare tra quelle proposte dagli enti di spesa, in primis dai Ministeri e dalle Regioni .

4 La politica per le infrastrutture nel Piano Nazionale di Riforme 2011
Nel Programma Nazionale di Riforme, Pnr (Ministero dell’Economia e delle Finanze, 2011), la politica per le infrastrutture è indicata , in ordine di priorità, come quarto strumento di azione di governo per il rilancio dell’economia nazionale, dopo la riforma fiscale, il meridione ed il lavoro ma prima di altre riforme considerate di rilievo nell’arco della legislatura (edilizia privata, ricerca e sviluppo, istruzione e merito, turismo, agricoltura, processo civile, pubblica amministrazione e semplificazione). L’elenco – occorre rilevarlo – appare più come un ordine di priorità “implicito” (quale indicato nella premessa del documento) che come un ordine di priorità “esplicito”, espresso in una funzione obiettivo oppure in una funzione di benessere sociale formalizzata al fine d’ordinare programmi e progetti o di attribuire ponderazioni a costi, benefici, effetti ed impatti afferenti alle varie classe di reddito o di consumo. Nelle 120 pagine del Pnr, appena tre vengono dedicate alle infrastrutture intese come “opere pubbliche” in senso stretto, un’interpretazione, quindi, rigorosa ma restrittiva, rispetto alla gamma di definizioni passate succintamente in rassegna nel primo paragrafo di questa nota. Circa due terzi del documento sono dedicati al programma di stabilizzazione di finanza pubblica nel quadro dello schema di trattato euro-plus. La priorità delle infrastrutture per la ripresa nazionale è stata ribadita del recente Governo ‘tecnico’ presieduto dal Prof. Monti.
In materia di infrastrutture/opere pubbliche nel Pnr vengono presentate stime degli effetti macro-economici della realizzazione del programma di infrastrutture delineato (in essenza le opere pubbliche previste nella Legge Obiettivo), ma né nel documento né nell’allegato infrastrutture (Camera dei Deputati, 2011) né nell’attenta analisi effettuata dal servizio del bilancio del Senato della Repubblica e dal Servizio Studi della Camera (Senato della Repubblica-Camera dei Deputati, 2011) si ricavano le informazioni necessarie per apprezzare la validità delle stime econometriche effettuate, in particolare non viene precisata né la modellistica utilizzata né la qualità dei dati disponibili.
  Soprattutto, il lettore ha l’impressione che ci si riferisca essenzialmente a quelli che vengono spesso chiamati gli “effetti di cantiere” di breve periodo (ossia al valore aggiunto attivato dalla spesa per opere pubbliche nel 2011-2013) senza tenere conto dagli impatti a volte molto più significati sull’aumento di capitale fisso sociale e quindi sulla crescita della produttività. In breve, si trae la sensazione che nonostante le aspettative lanciate una decina di anni fa con la Legge Obiettivo, oggi perduto valore nella strategia di politica economica.
Occorre sottolineare che a conclusioni analoghe si giunge analizzando il censimento più recente sulle infrastrutture/opere pubbliche in finanziamento tramite sia fondi esclusivamente pubblici sia varie forme di partnership tra pubblico e privato (Reviglio, 2011). Il documento presentato ad un seminario ristretto di operatori italiani e stranieri del settore aggiorna in misura significativa i dati resi disponibili negli studi della Banca d’Italia (Balassone, Casadio, 2011) e conferma essenzialmente la riduzione del ruolo delle infrastrutture/opere pubbliche nella strategia di riforme e di crescita dell’Italia. A rilievo dello stesso tenore si giunge esaminando alcuni tra i documenti da istituti privati di analisi e ricerca , ad esempio quello più recente del Centro Europa Ricerche (CER, 2011) e lo stesso documento di osservazioni e proposte del CNEL (CNEL; 2011) sul Pnr; nei documenti CER e CNEL, al pari di quello dei servizi di bilancio e studi di Senato e Camere, le osservazioni e proposte riguardano sia il Pnr sia il Programma di Stabilità che, insieme, costituiscono il Documento di economia e finanza (Def) 2011.
Da questi documenti (e da altri resi disponibili negli ultimi 12 mesi) si ricava inoltre che la lentezza (e la poca chiarezza di regole) in materia di progettazione, gare e contrattualizzazione , il frequente mutamento del quadro regolatorio, la scarsa priorità data alla predisposizione di studi di fattibilità ed alla valutazione delle infrastrutture/opere pubbliche (ex ante, in itinere ed ex post)[6] sono elementi che frenano la definizione e l’attuazione di una politica per le infrastrutture più delle mancanza di risorse; alla riduzione delle risorse pubbliche derivante dai vincoli di bilancio fa riscontro invece in Italia ed all’estero un aumento di risorse private alla ricerca di investimenti di lungo periodo a rendimenti da considerarsi adeguati ed a rischio contenuto (ad esempio, De Carolis ., Giorgiantonio , Giovanniello 2011); Bassanini, Reviglio 2011, Reviglio, 2011).
Occorre, a questo punto, chiedersi se il ruolo comparative ridotto della politica per le infrastrutture/opere pubbliche nel Pnr sia da attribuirsi alla maggiore urgenza e priorità di altre riforme, specialmente nel campo della finanza pubblica e del fisco, oppure alla constatazione (cfr. para. 2) che in Paesi maturi, come l’Italia, le politiche per le infrastrutture riguardano principalmente ammodernamenti e completamenti piuttosto che nuove reti (e per questa ragione suscitano minore attenzione che in Paesi od aree emergenti od in ritardo di sviluppo) oppure ancora che non sia stato metabolizzato il nesso tra infrastrutture (anche nel senso ristretto di opere pubbliche) e riforme.
Tale nesso – si tenga presente – è stato al centro delle strategie della Banca mondiale (prima) e delle altre maggiori Banche regionali di sviluppo, poi, (principalmente del Banco interamericano di sviluppo e della Banca asiatica di sviluppo) ma pare sia stato poco metabolizzato nell’esperienza europea ed ancor meno in quella italiana. Sulle strategie ed esperienze in questo campo specifico da parte della Banca mondiale, del Banco interamericano per lo sviluppo e della Banca asiatica di sviluppo esiste una letteratura smisurata sin dagli Anni Ottanta; le esperienze sono diventante particolarmente ricche negli ultimi vent’anno in seguito ai lavori fondamentale di Dixit e Pindyck su investimenti, riforme ed incertezza (Dixit, Pindyck 1994) e di Adler e Posner su analisi economica dell’investimento e decisioni in materia di regolazione (Adler, Posner, 2006). In Europa , non manca letteratura anche empirica (Bezzi, 2006, Chervel, 1995; Ferrara, 2010; Pennisi, Scandizzo, 2003), ma non sembra sia stata metabolizzata dai policy makers il ruolo delle infrastrutture (se opportunamente soggette a valutazione) come grimaldello per riforme della normativa e della regolazione.
5. Politiche europee per le infrastrutture
Da decenni , la politica d’integrazione europea pone l’accento sulla esigenza di notevoli investimenti per le infrastrutture al fine sia di migliorare la competitività del continente sia rafforzare la coesione all’interno dell’Unione (per una sintesi delle misure effettuate prima dell’unione monetaria, Triulzi, 1999; gli anni più recenti utile consultare oltre al sito della Commissione Europea, www.euinfrastructure.com). Interessante notare che anche il filone di pensiero che ha coerentemente espresso le critiche più severe nei confronti del coinvolgimento da loro ritenuto eccessivo da parte delle istituzioni europee, ed in particolare, da parte della Commissione, in attività che dovrebbero rientrare nella sfera esclusiva degli Stati membri (Vibert,2001) e da chi ha sempre sostenuto l’esigenza di una politica di bilancio molto rigorosa (Magnifico, 2008; Valli 1999). La letteratura sulla politica europea per le infrastrutture fisiche, specialmente le reti di collegamento Ten-T è sterminata . E tale è anche quella sulle infrastrutture immateriali ad alto contenuto tecnologico. Alcune di queste infrastrutture interessano direttamente l’Italia in quanto , traversandola da Sud a Nord e da Ovest ad Est per migliorare i collegamenti europei, comportano nuovi snodi ed ammodernamenti del parco italiano d’infrastrutture. A riguardo è utile ricordare che è' stato pubblicato di recente[7] un decreto legislativo di attuazione della Direttiva europea concernente l'individuazione e la designazione delle infrastrutture critiche europee (ICE), e la valutazione della necessità di migliorarne la protezione.
Il decreto stabilisce le procedure per l'individuazione e la designazione di infrastrutture critiche europee, nei settori dell'energia e dei trasporti, nonché le modalità di valutazione della sicurezza di tali infrastrutture e le relative prescrizioni minime di protezione dalle minacce di origine umana, accidentale e volontaria, tecnologica, e dalle catastrofi naturali. I sotto-settori riguardanti energia e trasporti, individuati sono:
·         Energia: elettricità, petrolio, gas;
·         Trasporti: trasporto stradale, trasporto ferroviario, trasporto aereo, vie di navigazione interna, trasporto oceanico, trasporto marittimo a corto raggio e porti.
Gli adempimenti relativi alla protezione delle infrastrutture previsti dal decreto in oggetto non sostituiscono quelli già stabiliti da disposizioni in vigore, ma sono da ritenersi integrativi.In particolare sono introdotte le seguenti definizioni, riprendendo quelle utilizzate dalla Direttiva:
·         infrastruttura critica (IC): infrastruttura, ubicata in uno Stato membro dell'Unione Europea, che è essenziale per il mantenimento delle funzioni vitali della società, della salute, della sicurezza e del benessere economico e sociale della popolazione ed il cui danneggiamento o la cui distruzione avrebbe un impatto significativo in quello Stato, a causa dell'impossibilità di mantenere tali funzioni;
·         infrastruttura critica europea (ICE): infrastruttura critica ubicata negli Stati membri dell'UE il cui danneggiamento o la cui distruzione avrebbe un significativo impatto su almeno due Stati membri. La rilevanza dell’impatto è valutata in termini intersettoriali. Sono compresi gli effetti derivanti da dipendenze intersettoriali in relazione ad altri tipi di infrastrutture.
Le funzioni di individuazione e designazione delle ICE sono svolte dal Nucleo Interministeriale Situazione e Pianificazione (NISP)  che ha anche ll compito di coordinare l'elaborazione di direttive interministeriali contenenti parametri integrativi di protezione, elabora:
·         entro un anno dalla designazione di un'ICE, una valutazione delle possibili minacce nei riguardi del sottosettore nel cui ambito opera l'ICE designata;
·         ogni due anni elabora i dati generali sui diversi tipi di rischi, minacce e vulnerabilità dei settori in cui vi è un'ICE designata.
In parallelo, quasi, con la definizione di infrastrutture critiche, emerge l’esigenza di nuovi strumenti finanziario come gli “eurobonds” (Bassanini, Reviglio, 2011) per il finanziamento delle infrastrutture da distinguersi da altre forme di obbligazioni europee finalizzate a ridurre il peso del debito sovrano di alcuni Stati [8]
Gli “Eurobonds” non sono  un’idea nuova ed originale. Per questo Ne sono state fatte numerose formulazioni in passato. Ad esempio, già negli Anni Sessanta, Alexandre Lamfalussy propose obbligazioni  “europee” a supporto della politica agricola comune. Negli Anni Settanta, venne  delineato un programma da François-Xavier Ortoli, all’epoca presidente della Commissione europea (giornalisticamente vennero chiamati “Ortoli Bonds”) di emissioni di obbligazioni “europee” che avrebbero avuto essenzialmente lo scopo di rilanciare occupazione e crescita tramite grandi investimenti in infrastrutture. Ne circolarono varie versioni, tutte preliminari: secondo alcune sarebbero stati emessi dalla Banca Europea per gli Investimenti (Bei), secondo altre direttamente dalla Commissione europea. “Eurobonds” vennero, poi, proposti, sempre in chiave di finanziamento dello sviluppo, nel “piano” Delors per la creazione del mercato unico europeo, approvato nel Consiglio Europeo di Madrid nel 1989; in effetti, quella delle obbligazioni “europee” è una delle parti del “piano” rimaste sulla carta. Lo stesso Delors ha rilanciato l’idea nel 2005. In tutte queste versioni lo strumento sarebbe di diretto interesse del Cnel ed in particolare della Commissione IV.
Una  proposta recente, formulata da Mario Monti (Monti,2010), riguarda “Eurobonds” a più valenze, che verrebbero emessi da un’Agenzia europea per il debito ancora da istituire; in prima battuta, servirebbero ad alleggerire il debito “sovrano” di Stati iper-indebitati; in seconda, allo sviluppo, alla stregua degli “Ortoli Bonds” e dei “Delors Bonds”. In questo quadro, si colloca anche la proposta di “Eurobond” lanciati da Giulio Tremonti e Jean-Claude Juncker. Se ho ben compreso la proposta, ad emetterli sarebbe la nuova Agenzia ed sottoscriverli sarebbero i Tesori e le banche degli Stati iper-indebitati dell’Unione monetaria; in tal mondo si alleggerirebbe (a tassi e termini più conveniente) il fardello dei loro debiti (principalmente quelli con l’estero). Ciò potrebbe comportare una complessa revisione ( quindi, con annesse procedure di ratifica) dei Trattati, anche allo scopo d’istituire la nuova Agenzia; ove alla fine di questo processo, gli “Eurobonds” venissero in vita in forma sistematica (non episodica), probabilmente il nodo del “sollievo dal debito” sarebbe già stato sciolto in altri modi, ma resterebbe loro l’obiettivo di finanziare lo sviluppo e di facilitare l’integrazione del mercato mobiliare europeo. Al pari dei bond di Bei, di Banca mondiale, di banche regionali  di sviluppo, gli "Eurobonds" potrebbero arrivare al dettaglio tramite i normali canali bancari ed essere acquistati dai risparmiatori al dettaglio. E’ difficile, però, argomentare che lo strumento servirebbe a  facilitare l’integrazione di un mercato finanziario come quello dell’eurozona che appare già sufficientemente integrato (Fontana, Scheicher, 2010)
A mio avviso, la letteratura, benché vastissima, sugli “Eurodonds” ha analizzato in dettaglio gli aspetti giuridico-istituzionali e tecnico-finanziari dello strumento, ma non ha sufficientemente focalizzato sui suoi fondamentali economici. In effetti, i principali nessi teorici nella letteratura sugli “Eurobonds” si riferiscono alla teoria dei mercati finanziari, ed in specie alla teoria dell’efficienza dei mercati (finanziari), seriamente rimessa in questione proprio dalla crisi internazionale  iniziata nel 2007 ed  all’origine dell’aumento del debito pubblico e del debito sovrano con l’estero (Bordo, Landon-Lane, 2010).
 Un approccio differente, anche se non necessariamente alternativo, sarebbe quello di esaminare le varie proposte relative agli “Eurobonds” sotto il profilo della teoria delle opzioni, in particolare quella delle opzioni reali e degli investimenti in condizioni di incertezza (Dixit, Pyndick , 1994). In effetti, l’acquisto di titoli ad alto rendimento di Stati le cui politiche economiche destano perplessità è un investimento in condizioni d’incertezza piuttosto che di rischio; le variabili di quadro generale sono tali e tante che non può essere valutato con tecniche anche raffinate di calcolo delle probabilità ma occorre, per una sua valutazione, costruire scenari contro fattuali e stimare “opzioni reali” di vario tipo (Pennisi, Scandizzo, 2003). Ciò vuole, innanzitutto, dire esaminare  quale può, o deve, essere il “sottostante” dello strumento perché lo strumento medesimo possa essere efficiente ed efficace. Ciò comporta un chiarimento sugli obiettivi e, quindi, sulle modalità di funzionamento e sulle tecniche operative specifiche, dello strumento. In prima approssimazione ed estrema sintesi, il valore degli “Eurobonds” deve essere visto come derivante dalla qualità del “sottostante”. Le procedure di valutazione degli investimenti utilizzando l’analisi dei costi e dei benefici estesa alle “opzioni reali” comporta  l’esame , e la discussione, delle opzioni reali ai soggetti interessati dal’investimento e la definizione di un consenso tra essi. Altro motivo di interesse per il Cnel.
In merito al “sottostante” , si possono fare varie ipotesi, di cui le tre principali possono essere le seguenti:
a)      “Eurobonds” il cui sottostante è l’aderenza a politiche tale da minimizzare, in un contesto d’incertezza, il futuro aggravio del debito e del rischio di insolvenza. Si tratterebbe di strumenti analoghi al “policy-based lending” adottato da decenni, con alterno successo, dalle istituzioni finanziarie internazionali (Banca mondiale, Fondo monetario).  Rispetto ad altre aree, nell’”eurozona” il “policy based lending” viene facilitato, per certi aspetti, dal “patto di crescita e di stabilità” che ne fornisce un quadro di riferimento. Il “patto”, però, tratta principalmente di politiche di bilancio e di saldi aggregati da esse derivanti. Occorre chiedersi se sia sufficiente o si non si debba entrare in altri aspetti (privatizzazioni, liberalizzazioni, politiche sociali e previdenziali) che, a loro volta, sono il “sottostante” delle politiche di bilancio, e le determinano. Ciò comporta aspetti tecnici e politici non indifferenti. Da un canto, in molti Stati (ad esempio, l’Italia) mancano ancora i dati  (quali una Sam_ Social Accounting Matrix aggiornata e credibile) [9]per effettuare analisi che siano quantitative e, quindi, vengano considerate asettiche. Da un altro, analisi qualitative in merito a politiche possono essere facilmente tacciate di essere “biased” ovvero pregiudizialmente  “orientate”. Da un altro ancora, “peers  reviews” di politiche  tra Stati dell’UE non sembrano avere mai brillato per efficacia.
b)       “Eurobonds” il cui sottostante è la qualità di investimenti per la crescita, con effetti moltiplicativi keynesiani nella fase di cantiere e con aumento di capitale sociale (e, quindi, dell’aumento della produttività multifattoriale) nella fase a regime. Per questa tipologia, esistono metodi, tecniche e procedure di valutazione ex-ante e ex-post codificate da decenni ed in applicazione nei principali Stati UE, nonché guide operative della stessa Commissione UE (Florio, 2003). E’ tuttavia difficile vedere in che modo tali “Eurobonds” differiscano dalle obbligazioni Bei e Bers, anche esse essenzialmente ancora alla “quality of lending” come loro “sottostante” e dunque alla qualità della valutazione dei progetti d’investimento.
c)      “Eurobonds” che potrebbero essere definiti “di scopo”, finalizzati, da un lato, a ridurre il fardello del debito  e, parallelamente, a facilitare alcune politiche specifiche (quali  privatizzazioni, le liberalizzazioni, alcune riforme di settore) in quelle situazioni in cui fosse necessaria “fresh money”, non solo finanza per il riscatto In tal caso l’utilizzazione degli “Eurobonds” verrebbe limitata , da un lato , ad una funzione analoga a quella dei “Brady Bonds” e, dall’altro, alla facilitazione di politiche ritenute prioritarie per il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica e di crescita reale.
In ciascuna di queste tipologie (e nelle loro possibili combinazioni), da un canto, il “sottostante” sarebbe palese e trasparante, riguarderebbe l’economia reale e potrebbe essere valutato, consentendo ai contribuenti degli Stati “virtuosi” (chiamati a sostenere l’operazione) di effettuare scelte informate. Da un altro, sarebbe possibile orientare progressivamente la funzione obiettivo pertinente al “sottostante” sempre più verso la crescita dato che in ultima istanza la crescita economica è il rimedio necessario per ridurre il peso del debito ed il rischio d’insolvenza.
Nel concludere , occorre sottolineare che gli “Eurobonds” nelle loro varie accezioni altro non sarebbero che una forma di partnership pubblico-privato che può essere ottenuta in vari altri modi.

6. Parametri di Valutazione e Criteri di Scelta e per le Infrastrutture
Quale che sarà le scenario futuro europeo ed italiano per la progettazione ed il finanziamento delle infrastrutture nei prossimi anni (Bassanini, Reviglio, 2011), appare necessario riesaminare i parametri di valutazione per le singole operazioni ed i criteri per selezione, a fonte di inevitabili vincoli di bilancio, quelli che meglio contribuiscono agli obiettivi della società. Credo sia utile iniziare ad accennare a quella che potrebbe diventare una nuova linea di ricerca In sintesi, la caratteristiche del “dopo crisi”  paiono essere due:
  • La prima a carattere più generale interessa il mondo intero e riguarda come andare “oltre il Pil” come misura di benessere nazionale. Il Pil come misura di benessere nazionale è alla base di gran parte della manualistica sulla valutazione e selezione delle infrastrutture.
  • La seconda , a carattere principalmente europeo, riguarda come andare da un modello di sviluppo che dalla fine della seconda guerra mondiale ha fatto perno sulla crescita trainata dall’export (e, quindi, ha ipotizzato crescenti disavanzi dei conti con l’estero Usa e saldi attivi invece in quelli dell’Europa con il resto del mondo) ad un modello di crescita basato invece sulla soddisfazione di bisogni collettivi interni all’Europa (infrastrutture, ambiente, capitale umano, salute, cultura, tutela del patrimonio di beni culturali e del paesaggio) e del miglioramento sostenibile, quindi, della qualità della vita.
Un’ampia rassegna dei tentativi per andare “oltre il Pil” è stata pubblicata da Marc Fleurbeay delle Università di Parigi “Descartes” e di Lovanio (Fleurbeay, 2009).  Sul tema, sono in corso numerosi studi internazionali; in Italia ha cominciato ad operare una Commissione CNEL-ISTAT. Al momento , a mio avviso, il lavoro di Fleurbeay rappresenta, a mio avviso, il meglio di quanto disponibile in un mercato spesso caratterizzato da saggistica approssimativa. Una sintesi efficace del secondo punto è nel breve ma eloquente saggio di Paolo Guerrieri e Pier Carlo Padoan (Guerrieri-Padoan, 2009). I due lavori sembrano distanti sia in termini di approccio (una rigorosa rassegna della letteratura, oltre 400 titoli, il primo; un pamphlet volutamente divulgativo per smuovere i decision maker il secondo) sia in termini di conclusioni ( problematico il primo sulle caratteristiche delle “serie alternative al Pil che sarebbero alle porte; più definitivo nelle sue conclusioni il secondo).
Hanno, soprattutto, un messo in comune che riguarda sia i Governi sia le imprese: nel “dopo crisi”: in linea con un affinamento della definizione e del mondo di computare il Pil che tenga conto di tre scuole di pensiero (l’economia del benessere, l’economia delle libertà, ed il perfezionismo contabile) , l’accento è delle politiche pubbliche e delle operazioni delle “intraprese private” dovrà essere sul medio e sul lungo periodo e non più sul breve periodo (che pare avere caratterizzato gli ultimi lustri).
Ciò ha una conseguenza implicita per di cui non credo ci sia ancora piena consapevolezza tra gli operatori : come valutare politiche , strategie ed investimenti a lungo termine, specialmente quelli caratterizzati da un lungo periodo di gestazione prima di fornire flussi di ricavi all’impresa e/o di benefici alla collettività.
Emergono questi spunti di riflessione:
1.      Le politiche e gli investimenti aziendali (anche per le infrastrutture) devono remunerare gli investitori ad un tasso che non sia inferiore al costo opportunità del capitale. Quali misure adottare quando una politica od investimento abbia un valore economico per la collettività nel lungo periodo ( una gamma di investimenti che va dalla tutela del patrimonio artistico e paesaggistico alla televisione digitale terrestre) ma che potrebbe avere risultati insoddisfacenti nel breve periodo. In passato, il divario veniva colmato da varie forme e guise di aiuto di Stato – oggi non più contemplabile a ragione non solo della normativa UE ma anche dei vincoli di bilancio. Occorre, quindi, pensare di colmare il divario con la regolazione ; nazionale od europea? I grandi investimenti europei – ad esempio le reti trans europee – non dovrebbero essere il grimaldello per una regolazione europea? Specialmente una “regolazione” che dia certezze di stabilità e di non essere frequentemente mutata sotto la spinta d’interessi particolaristici pure di breve periodo.
2.      Le politiche e gli investimenti pubblici (a supporto del miglioramento della qualità della vita) avranno effetti anche sulle generazioni future , che in molti casi ne saranno le principali beneficiarie. Ciò solleva due ordini di interrogativi. In primo luogo, secondo Ocse e Banca mondiale, il tasso di attualizzazione utilizzato per valutare l’investimento pubblico in molti Paesi UE (a lungo la Francia è stata un’eccezione) e dalla Commissione Europea riflette il vincoli di bilancio pubblico e misura il declino del valore sociale delle risorse pubbliche liberamente utilizzabili. Non è il caso di seguire invece la più antica proposta di Dasgupta-Sen-Marglin di scegliere un tasso di attualizzazione che rispecchi il tasso d’interesse sui consumi (Dasgupta,Sen Margling, 1972? Secondo stime disponibili (anche da me effettuate) il primo approccio comporta un tasso di attualizzazione sull’8%, il secondo sul 2,5%; il primo non “cattura” quindi costi e benefici alla collettività nel lungo periodo Pennisi, Scandizzo, 2003). Né l’uno né l’altro, poi, “catturano” costi e benefici alle generazioni future : due scuole si confrontano su “come farlo”, ambedue sono cariche d’implicazioni di politica pubblica. Non è il caso di promuovere un’intesa a livello europeo?
3.      Le metodologie di analisi delle politiche e degli investimenti , anche privati, hanno posto l’accento sin dagli Anni Settanta su come coniugare efficienza (intensa nel senso di redditività) con efficacia (intensa nel senso di distribuzione del reddito e, in un secondo tempo, delle opportunità). In materia si sono sviluppati metodi, tecniche e procedure basate sulle “ponderazioni variabili” dei costi e dei benefici a seconda dei livelli di reddito o di consumo delle varie categorie di soggetti coinvolti nell’”intrapresa”.  Nel Ventunessisimo secolo, ed in Paese avanzati ad economia di mercato, l’enfasi si deve spostare a come coniugare il breve e medio con il lungo termine. Dato che previsioni e scenari (specialmente se contro fattuali) a lungo termine, sono ardui da costruire con un grado realistico di accuratezza, non è il caso di spostare l’accento, nella CSR, dall’analisi del rischio all’analisi dell’incertezza?
4.      E’ invalsa la prassi, promossa di numerose società di studi e consulenza, di quantizzare i benefici degli interventi per beni intangibili (ad esempio gli investimenti in beni culturali ed infrastrutture ad esse attieni) in base alle stime del turismo culturale da essi attivati. Tale metodo non solamente non tiene adeguatamente conto dei costi sociali spesso associati al turismo ma non ha più legittimità accademico-professionale. Non è il caso di promuovere tecniche di “valutazioni contingenti” ormai ampiamente in uso anche in Italia in numerosi settori afferenti al capitale umano ed all’intangibile?
Il Governo, e le sue strutture tecniche, in primo luogo, il Ministero delle Infrastrutture in collaborazione con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, dovrebbero rispondere a questi interrogativi.
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[1]  “Infrastrutture : crollo dei fondi” in Il Sole “4 Ore del 27 maggio.
[2] Un esempio interessante è l’evoluzione della policy della Banca mondiale in materia di finanziamento per l’istruzione e la sanità. Particolarmente eloquente è il caso dell’istruzione. Negli Anni Sessanta, quanto la Banca cominciò ad operare nel settore erano “eligible” (ossia ammissibili) unicamente lem spese in conto capitale (con un’alta componente di valuta estera) progetti di formazione (e.g. scuole professionali, Politecnici) direttamente connessi ad industria od agricoltura. Negli Anni Settanta l’”ammissibilità” venne estesa all’intero settore (ossia anche le scuole elementare) purché limitata alle spese in conto capitale. Negli Anni Ottanta, venne ampliata al finanziamento di libri di testo. Dalla seconda metà degli Anni Novanta vengono finanziate anche spese di parte corrente di programmi d’istruzione innovativi nonché la Banca investe capitale di rischio (equity) in istituti privati.
[3]   Che sembrerebbero essere stati presi in considerazione nei recenti decreti legislativi - ancora in fase di discussione - in materia di monitoraggio e di valutazione della spesa pubblica in infrastrutture da parte dei Ministeri.
[4]   Le Società Organismi di Attestazione (SOA) sono organismi di diritto privato, autorizzati dall'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, che accertano l'esistenza nei soggetti esecutori di lavori pubblici degli elementi di qualificazione, ovvero della conformità dei requisiti alle disposizioni comunitarie in materia di qualificazione dei soggetti esecutori di lavori pubblici, riassunti nel regolamento per il sistema di qualificazione, Decreto del Presidente della Repubblica 25 gennaio 2000, n. 34.

[5]   Spesso “nascoste” in “contabilità speciali” e gestioni fuori bilancio di vario ordine e grado, secondo gli studi del Consigliere Giuseppe Pennisi, il solo Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, MIBAC, nel proprio bilancio conta ben 324 gestioni speciali.
[6] Da natura che in questo ultimo periodo è diminuito il ruolo dell’unità centrale di valutazione presso il Ministero dello Sviluppo Economico e sono state, in pratica, smantellate le unità di valutazione create presso alcuni dicasteri (ad esempio Mibac) e Regioni.
[7] E' stato pubblicato sulla G.U. 102 del 04/05/2011

[8] Un’emissione limitata di “Eurobonds” è stata effettuata il 5 gennaio 2011 al Meccanismo Europeo di Stabilità per rifinanziare parte del debito estero dell’Irlanda: la domanda è stata pari a tre volte l’offerta (5 miliardi di euro), segno del gradimento del mercato nei confronti dello strumento (nonostante, nel caso specifico, si trattasse di un prodotto finanziario particolarmente complesso).  L’obiezione principale è che la loro generalizzazione, e la loro graduale ma progressiva sostituzione di emissioni di titoli dei singoli Stati dell’eurozona, potrebbe causare ad alcuni Stati un aumento del costo dell’indebitamento e del servizio del debito. Altre obiezioni concernono l’”azzardo morale” inerente all’utilizzazione di “Eurobonds” per contenere i rischi di insolvenze sul debito sovrano da parte di Stati le cui politiche economiche non sono state adeguatamente accorte- ossia l’incentivo ad adottare politiche poco prudenti derivante dalla prospettiva di riscatti “europei” del debito tramite “Eurobonds”. Ci sono, inoltre, varie obiezioni a carattere prevalentemente tecnico (e facilmente superabili) su chi debba essere l’autorità emittente (se una sola o molteplici), chi i sottoscrittori, come arrivare al dettaglio (Favero.

[9] L’ISTAT ha ripreso a lavorare su questo terreno.

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