martedì 3 settembre 2013

Europa: uno sguardo a lungo termine in L'Indro 3 settembre



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Europa: uno sguardo a lungo termine

Eurozona destinata, per i prossimi 10 o 15 anni, a una crescita lenta, molto prossima alla stagnazione

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Settembre è il mese in cui le istituzioni europee -specialmente quelle economiche e finanziarie- devono cercare di giungere a posizioni comuni all’assemblea annuale della Banca mondiale e del Fondo Monetario che quest’anno ha luogo a Washington all’inizio di ottobre. Raramente, questi tentativi hanno successo: spesso gli stessi Paesi dell’eurozona prendono linee differenti, ove non necessariamente divergenti, all’assemblea delle due maggiori istituzioni finanziarie internazionali.
 L’Italia, uno degli Stati fondatori dell’Unione Europea (UE), potrebbe avere un ruolo importante nel mediare su temi specifici (ad esempio, le differenze tra Francia e Germania in materia di mercato del lavoro e di vigilanza bancaria) ma anche e soprattutto sul più vasto argomento di quale Europa predisporre per il futuro: se un’Europa che vada progressivamente verso il federalismo od una a cerchi concentrici di varie forme e gradi di cooperazioni intergovernative. Per avere questo ruolo e, ancor più, per trasmettere l’immagine a sé stessa ed agli altri nelle prossime contese elettorali, occorre uscire da discussioni sul breve periodo -short termism per utilizzare una parola inglese ormai diventata di uso comune anche nel nostro Paese- e dai giochetti personalistici di potere. Il Governo ha appena trovato una soluzione a problemi scottanti come quelli dell’IMU e di alcune categorie di esodati.
Occorre, però, una visione di lungo termine. Il quadro non è rassicurante. Lo confermano le stime del Rapporto Fmi: una contrazione del Pil di 14 punti percentuali tra il 2008 ed il 2014 a cui seguirebbero (se le riforme vengono effettuate nei modi e nei tempi previsti), dieci anni con un aumento compressivo del Pil di 4 punti percentuali (ossia dello 0,33% l’anno). Nel contempo, la contrazione 2008-2014 ha distrutto parte importante del principale settore produttivo di un Paese a vocazione manifatturiera come il nostro in quanto privo di risorse naturali, con un’agricoltura poco competitiva e con servizi finanziari non innovativi: la produzione industriale è passata dal 22% al 15% del Pil in sette e nel Mezzogiorno, secondo l’ultimo Rapporto Svimez, siamo alle prese con una vera e propria ‘desertificazione industriale’. In questo contesto si pone il problema occupazionale, all’origine anche dei moti studenteschi di questi giorni.
Il problema non è solamente italiano ma di tutta l’UE. In una recente riunione Aspen, il Ministro delle Finanze della Repubblica federale tedesca, Wolfgang Schäuble, ha ammonto che è meglio non farsi illusioni: la Germania cresce ancora (pur se a un tasso annuo solamente attorno all’1%), ma, una volta -chissà quando- terminata la recessione, l’Europa in generale, e l’Eurozona in particolare, sono destinate a una lunga fase di crescita lenta, con inevitabili pressioni sul mercato del lavoro. In sintesi, le prospettive per i prossimi dieci-quindici anni sono di aumenti del Pil molto prossimi alla stagnazione. La determinante di fondo è la perdita (avvenuta negli Anni Novanta del Novecento) del monopolio del progresso tecnologico di cui un gruppo di Paesi OCSE ha fruito per circa due secoli; alcuni Paesi dell’UE (Austria, Germania, Olanda, Finlandia) hanno dato prova di notevole ‘efficienza adattiva’ a nuovo contesto mondiale ed a realizzare le necessarie riforme. Altri, come l’Italia, pur avendo mostrato notevole ‘efficienza adattiva’ in passato (ad esempio nel dopoguerra e negli Anni Ottanta) non sono capaci di effettuare le riforme per tener conto del nuovo quadro internazionale e della sua probabile evoluzione.
Nello scenario secondo cui le riforme verrebbero attuate come programmato, come si è visto, l’Italia potrà contare su una crescita dello 0,33% per i dieci anni dal 2014 al 2024; se non si faranno le riforme, o se saranno meno tempestive e meno incisive di quanto ora progettato, la crescita sarà inferiore. Solo tre anni fa, la Banca Centrale Europea (Bce), la Commissione Europea (Ce), e il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) ponevano all’1,3% l’anno il ‘potenziale di crescita’ dell’economia italian - dato che suscitò ironia tra alcuni giornalisti economici italiani, i quali, non si sa bene con quale strumentazione, contrapposero un solido (e fantastico) 3%.
La situazione italiana non è peggiore di quella di altri Paesi dell’Unione Europea (Ue). Grecia, Spagna, Portogallo e Malta hanno prospettive più negative delle nostre. La Francia le ha più o meno come le nostre. I ‘virtuosi’ nordici crescerebbero meno dell’1% l’anno, con il risultato di non potere neanche loro assorbire la crescente massa di nuova forza lavoro con poche speranze di avere carriere e redditi analoghi a quelli dei loro padri e nonni. Nei cassetti della Ce si sta rispolverando un programma di alcuni anni fa, quello delservizio civile europeo’: allora, si pensava a un mero collegamento tra i ‘servizi’ nazionali, adesso a qualcosa come il rooseveltiano ‘esercito del lavoro’, il cui finanziamento richiederebbe, però, seri emendamenti ai trattati che regolano l’eurozona.
Il problema ha radici profonde: l’Europa ha perso -unitamente agli Stati Uniti- il monopolio del progresso tecnologico proprio quando è iniziato un inarrestabile invecchiamento della popolazione -fenomeno noto a demografi ed economisti e su cui sono stati scritti diecine di volumi (per una sintesi si veda il brillante paper di Francesco Giavazzi ‘The risky game of chicken between Eurozone governments and the ECB’, pubblicato alcuni anni fa, ma ancora freschissimo), ma a cui gran parte della politica ha prestato poca attenzione. Anzi, spesso ne ha aggravato (e ne sta aggravando) gli effetti.

L’invecchiamento della popolazione porta a un aumento dell’età dell’elettoremediano’. Nelle società in cui le decisioni sono prese a maggioranza, il risultato della consultazione elettorale tenderà a collocarsi intorno alla posizione mediana nelle preferenze dei diversi individui. Il teorema costituisce uno dei più noti risultati della teoria delle votazioni che studia le procedure di formazione delle scelte collettive e dimostra che il risultato finale della votazione tende a corrispondere alle preferenze dell’elettore per il quale l’alternativa migliore si colloca in una posizione mediana. Quest’ultimo elettore, infatti, è quello che esprime una posizione con cui concorda la maggioranza degli elettori.
Già adesso l’età dell’elettoremedianonell’UE si avvicina ai 50 anni. Il risultato è che per conquistare il voto di coloro che fanno massa si guarda più agli obiettivi degli anziani che a quelli delle giovani generazioni. Non solo chi è anziano tende a preferire la stabilità al rischio (elemento essenziale per la crescita, come sappiamo sin dai primi lavori di Joseph Schumpeter), ma diffida di riforme che possono, direttamente o indirettamente, mettere a repentaglio quelli che loro giudicano, a ragione o a torto, ‘diritti quesiti’ nella loro vita lavorativa ed ultimi anni della loro avventura terrena.
Ne abbiamo avuto due esempi recenti. In Francia, il Governo socialista ha varato un programma di aggravi tributari di 30 miliardi di euro e di riduzione della spesa di 10 miliardi di euro che ha portato in piazza il 30 settembre ben 80.000 persone solamente a Parigi, ma ha trovato modi e maniere per riportare da 62 a 60 l’età pensionabile, proprio al fine di soddisfare l’elettore ‘mediano’. In Spagna, il Governo popolar-liberale ha varato il programma di finanza pubblica più severo della storia del Regno al fine di evitare insolvenze e fallimenti bancari a catena; non solamente non ha toccato il capitolo pensioni, ma ha previsto, per il 2013, un leggero aumento per tutto coloro che sono ‘a riposo’. In Spagna, la spesa previdenziale è pari al 9% del Pil, inferiore a quella dell’Italia (13%) e della Francia (15%), ma l’invecchiamento è più rapido che negli altri due Paesi: nel 2050 un terzo della popolazione avrà più di 65 anni.
C’è la probabilità che l’aumento dell’età dell’elettoremedianosarà un freno alla riforme e che i tassi di crescita saranno ancora più bassi di quelli, deludenti, citati. Da anni una pattuglia di economisti e di demografi sostiene l’urgenza di dare attenzione alla politica per la famiglia come veicolo per aumentare la natalità e cominciare a modificare le tendenze. Nell’UE e in numerosi Stati membri non se parla. In Italia se ne bisbiglia soltanto. Non è mai troppo tardi per porre il tema sul tavolo.
Oggi in Italia il tasso di coloro che cercano attivamente lavoro senza trovarlo è pari al12% delle forze lavoro. Nell’Europa a 28, gli ‘occupati in attività dipendenti’ dell’Italia sono i penultimi in termini di orari settimanali effettivi di lavoro. Secondo stime (mai smentite) elaborate dal Premio Nobel Edward C. Prescott, su base annua unoccupatoitaliano lavora un numero di ore di lavoro inferiore al 40% di quelle effettivamente lavorate da unoccupatoamericano. Inoltre, l’invecchiamento della popolazione in parte dovuto alla mancanza di una politica per la famiglia, l’età mediana (quella attorno alla quale di addensa la maggior parte di uomini e donne) degli elettori italiani sta raggiungendo (come si è detto) i 50 anni  -quando moltissimi contano i mesi che li separano dalla pensione, non investono guardando al lungo periodo (specialmente se non hanno figli), non innovano e tanto meno si dedicano al venture capital o simili. Le prospettive sono di una società grigia e sempre più povera di reddito e -ciò che è più grave-  di idee.
Questo percorso sembra irrevocabilmente segnato. Tuttavia,occorre  aprire ed approfondire il ‘dibattito proibito’, per riprendere il titolo di un libro di Jean Paul Fitoussi, su questi temi. Al fine di esaminare come cambiare tracciato e giungere nel 2030 ad Italia che sia almeno al livello del 2010.
Cerchiamo di vedere quali sono le trappole da evitare e quali le leve che si può pensare di utilizzare.
Innanzitutto, se il nodo del problema riguarda l’‘efficienza adattiva’, anche e soprattutto a ragione dell’invecchiamento demografico e dell’apparato produttivo, occorre non cadere nella trappola secondo cui ritrovata la sovranità monetaria (uscendo, ad esempio, dall’unione monetaria) potremmo accelerare una crescita che non c’è. Negli Anni Settanta, quando si guardava alla Banca d’Italia per uscire dalla recessione, l’allo­ra Governatore Guido Carli dava conto delle misure di stimolo pre­se aggiungendo ‘Il cavallo non beve’. D’altronde lo stesso John Maynard Keynes, in alcune pagine del­la ‘Teoria Generale’, aveva esaminato casi di cosiddetta ‘trappola della liquidità’: individui, famiglie e imprese mettono sotto il mate­rasso la liquidità loro offerta perché prefigurano tempi bui in cui ne avranno esigenza. Tesorizzano invece di investire o migliorare livello e qualità dei consumi.

Come già detto, l’attuale recessione è differente ri­spetto a quelle di cui abbiamo avuto esperienza nel secondo do­poguerra. Non è stata determina­ta da un rallentamento, prima, e da un crollo, poi, della produzione. Oppure da un’improvvisa contrazione dei consumi. Nell’eurozona (e negli Stati Uniti) si è alle prese non solo con l’invecchiamento e la scarsa ‘efficienza adattiva’ ma anche  con quella che Richard C. Koo -economista nippo-americano che guida da anni il servizio studi del Nomura Research Institute- chia­ma acutamente una balance sheets recession, ovvero una recessione dei conti profitti e perdite. Ciò si verifica quando alcuni asset per­dono drasticamente di valore, cau­sando crisi debitorie più o meno gravi, e gli obiettivi d’investimen­to di individui, famiglie e imprese mutano drasticamente: dalla massimizzazione del profittosi passa allaminimizzazione dell’indebitamento’ (per timore di nuove crisi debitorie). Per questo motivo la crisi è tanto grave e la stagnazione, accompagnata da momenti di recessione, minaccia di essere duratura.
L’Italia non è in una balance sheets recessionparticolarmen­te acuta a ragione della prudenza e del proprio sistema bancario e delle famiglie. Ma è contornata da Paesi che lo sono (Francia, Spagna, Grecia, Portogallo, anche parte della Germania). È un vaso di coc­cio tra vasi di ferro. Dato il forte grado d’integrazione europea, vie­ne trascinata dagli altri: la nostra recessione tradizionale dipende in gran misura dalle recessioni altrui. Inoltre, l’aumento della pressione fiscale rischia di trasformare in de­pressione la recessione.

Per tornare a crescere ci vorrebbero un’iniezione di fiducia, un obiettivo condiviso in cui credere, una liberalizzazione dei mercati protetti, un miglioramento della qualità delle risorse umane -gli in­gredienti che fanno crescere com­petitività e produttività e, quindi, ‘efficienza adattiva’. Invece, liberarsi dai vincoli dell’unione monetaria e ritrovare lasovranità monetaria’, porterebbe ad una drastica svalutazione -stime della Commissione Europea (CE) pongono al 30% la fiscal devaluation dell’Italia- che diffonderebbe sfiducia, non fiducia. Aggravando la situazione, non migliorandola. In questo contesto, poi, una scossa alla Reagan (ossia una drastica riduzione della pressione fiscale accompagnata da una manovra espansionistica del bilancio pubblico), pur avvocata da un’associazione di imprenditori e docenti universitari tra i 35 ed i 45 anni e risultante come la misura più votata all’ultimo sondaggio del Club dell’Economia, potrebbe avere effetti devastanti dato che l’economia italiana non gode della fiducia daultima spiaggia’ di cui fruisce l’economia americana e dato che l’euro (ove ci fosse concesso di restare nell’unione monetaria in piena flagranza di violazione dei trattati) non la funzione di signoraggio di cui gode il dollaro degli Stati Uniti.
Per il lungo periodo, utili spunti si possono trarre da proposte presentate in questi mesi da varie Fondazioni più o meno contigue a schieramenti politico-culturali. Un primo gruppo di proposte riguarda come ridurre il fardello del debito pubblico che, di per se stesso, frena di un punto percentuale la crescita economica dell’Italia  -e spiega come l’aumento potenziale annuo del Pil sia passato dall’1,3% stimato verso il 2005 da CE, Bce, e Fmi allo 0,3% delle ultime stime OCSE). Anche se un lavoro molto recente del FMI (incluso nell’ultima edizione del ‘World Economic Outlook’) mostra scetticismo nei confronti della solidità e durevolezza di misure straordinarie per ridurre il debito pubblico, un seminario al CNEL ha messo a confronto una dozzina di proposte che vanno dalvendere, vendere, vendere’, a prestiti forzosi, a strumenti finanziari per riscattare il debito in essere (diminuendo l’interesse medio ed allungando le scadenze). La proposta più articolata è quella messa a punto dalla Fondazione Astrid; se attuata, potrebbe riportare verso il 2025 il tasso di crescita potenziale all’1,3% l’anno). Prevede una gamma di strumenti e la possibilità di misurare in concreto efficienza ed efficacia di ciascuno di essi, modificando, per così dire, le dosi in corso d’opera. Relativamente poco ambiziosa, ove non modesta, la proposta del Ministero dell’Economia e delle Finanze di riduzione (tramite dismissioni) di un punto percentuale l’anno il rapporto tra stock di debito pubblico e Pil.
Il secondo punto chiave riguarda la politica industrial-manifatturiera. E’, e continuerà ad essere, l’asse portante di un Paese privo di risorse naturale (e quindi trasformatore) ed in cui i servizi sono composti o da mini-imprese marginali o da comparti protetti. Alcune analisi (ad esempio, quelle della Fondazione Edison) suggeriscono che le piccole e medie imprese hanno dato prova, di fronte alla crisi, ad un buon grado di ‘efficienza adattiva’. Solo l’Arel pare affrontare, almeno in parte, il problema centrale: le dimensioni d’impresa; le nostre sono minute nel contesto europeo ed ancor più in quello mondiale, non in grado, quindi, di fare altra innovazione che quella ‘adattiva’  -ossia applicare all’Italia i risultati di ricerche di base straniere. Occorre, a mio avviso, studiare con attenzione il programma elaborato in Germania ed attuato dagli Anni Ottanta per aumentare le dimensioni delle loro ‘piccole imprese’ (che corrispondono a grandi imprese italiane) e farle diventare i giganti oggi alla conquista del mercato mondiale. Ciò comporta nuove regole digovernanceimprenditoriale, di selezione del management, di formazione e governo delle risorse umane, nonché incentivi a fusioni e concentrazioni.
Il nodo centrale resta come avviare, portare avanti e realizzare questo cambiamento di un percorso che, alla Douglas C. North, sembra ‘predefinito’. Il requisito di base è inevitabilmente politico: i cittadini devono ritrovare fiducia nel ceto politico  -ciò comporta riduzione del numero dei Parlamentari, fine del bicameralismo perfetto, adeguamento di indennità almeno a quelle del Parlamento Europeo, drastico tagli agli apparenti, un sistema elettorale che consenta contatti tra elettori ed eletti e monitoraggio dei primi nei confronti dei secondi, eliminazione di alcuni livelli intermedi di governo, e via discorrendo.
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