martedì 23 luglio 2013

Perché gli economisti sbagliano (quasi) sempre in Lindro del 23 luglio



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Non si prevedono le implicazioni politiche
L'influenza delle scelte istituzionali sulle questioni economiche
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La settimana scorsa, il Bollettino della Banca d’Italia ha gelato le previsioni quantitative di numerosi centri di ricerca economica (italiani e stranieri) affermando che nell’anno in corso il Pil subirà una contrazione del 2% circa non dello 0,5% come ipotizzato non solo dal Ministero dell’Economia e delle Finanze ma anche dal Fondo monetario, dall’Ocse e da  molti altri. Non è la prima volta che ciò avviene: alcuni anni fa un servizio internazionale di analisi econometriche ‘vendeva’ a istituzioni, banche , aziende l’abbonamento ad i propri lavori con una documentazione in base alla quale la frequenza e lo spessore dei suoi errori era ‘inferiore’ a quello dei suoi maggiori concorrenti.
Per anni se la si è cavata ripetendo il detto di Oscar Wilde secondo cui le previsioni sono difficili nei casi in cui riguardano il futuro. Tuttavia, se si trattasse unicamente o principalmente di previsioni potrebbe bastare tarare meglio i modelli ed i loro parametri. Il punto è che spesso gli economisti offrono, con le migliori intenzioni e sulla base di solida dottrina economica, ricette di strategie, programmi e misure che, alla prova dei fatti, risultano sbagliate. E ci se ne accorge pure soltanto pochi mesi dopo i fatti. Un caso eloquente italiano è quello del problema degli ‘esodati’ innescato dalle ultime (peraltro ben congegnate) misure in materia di previdenza. Un caso sempre italiano ma meno noto è stato il modo in cui nel novembre 1989  simultaneamente abbiamo tolto le ultime barriere valutarie e siamo entrati nella ‘fascia stretta’ degli accordi europei sui cambi (giornalisticamente chiamati lo Sme). Si pensi al processo di deregolamentazione finanziaria attuato negli Stati Uniti dal1975 ed oggi generalmente riconosciuto come una delle determinanti della crisi del 2007-2010 (negli Usa, ma ancora in corso in Europa). Od alle privatizzazioni negli Stati emersi dall’ex-Unione Sovietica (ed in parte in Italia). Sono soltanto alcuni esempi di buone strategie economiche finite tra il male ed il malissimo.
Gli sbagli di noi economisti sono così frequenti che non possono essere attribuiti a singoli errori umani o inadeguatezza tecnologica di una disciplina che ha tre secoli e le cui capacità di analisi sono state notevolmente aumentate dalla tecnologia dell’informazione e della comunicazioni.
Un errore di fondo poco considerato (a ragione dell’arroganza di noi economisti nei confronti del resto delle scienze sociali) è il non considerare le implicazioni politiche (o meglio le implicazione su equilibri politici) di strategie, piani, programmi e misure di politica economica. Di norma, tali strategia, piani, programmi e misure hanno l’obiettivo di ridurre le imperfezioni del mercato (asimmetrie informative, differenze di reddito e di consumo, oligopoli, monopoli , esistenza di esternalità,  di beni pubblici, di beni comuni) Tali imperfezioni danno luogo a rendite che politiche economiche ben intenzionate e ben congegnate mirano a ridurre sino a fare sparire. In tali strategie, piani, programmi e misure di solito l’economista lascia la politica, specialmente la politica politicante, fuori dalla porta nell’assunto che ‘una buona politica economica è una buona politica tour court’ oppure nell’ipotesi che ‘buone politiche economiche aiutano i politici a restare in sella’ e , quindi, è loro interesse attuarle oppure ancora che la politica viaggia ‘a caso’ dietro le proprie beghe ed è, quindi, irrilevante o quasi ai fini della politica economica.
Si tratta di assunti o di ipotesi che non reggono. La politica economica viene formulata nel contesto di un determinato equilibrio politico (in cui le imperfezioni di mercato, ed in particolare, le rendite hanno un ruolo tutt’altro che secondario). Se la politica economica è incisiva, ‘morde’ sulle rendite, sulla distribuzione dei redditi e dei consumi, sulle compatibilità e convenienze tra fasce sociale. Da , quindi, origine ad un nuovo equilibrio politico le cui implicazioni (se non tenute in debito conto al momento della formulazione delle politiche economiche) possono essere controproducenti. I casi che si sono citati (esodati, cambio della lira rispetto al marco e quindi all’euro, riforma del sistema finanziario Usa, privatizzazioni nell’ex- Urss) non sono che alcuni episodi dei numerosissimi che si potrebbe ricordare solamente studiando la storia economica recente.
Su questi temi stanno lavorando economisti di fama internazionale come Darun Acemoglu, Dani Rodrik, James A. Robinson. Stanno approntando un nuovo quadro teorico in cui l’economia e la politologia vengano coniugate per poter meglio comprendere le implicazioni politiche di decisioni economiche, i nuovi equilibri che si possono creare e le tecniche per minimizzare effetti controproducenti di scelte economiche che sembrano corrette (sotto il profilo della disciplina).
In Italia, temi di questa natura vengono echeggiati solo ne la Rivista di Politica ma non vengono neanche accennati in riviste professionali di economia. Eppure è proprio questa la materia su cui indagare per comprendere la nostra scarsa capacità adattiva alle trasformazioni dell’economia mondiale, le ragioni del nostro declino e le leve per cer
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PERCHE’ GLI ECONOMISTI SBAGLIANO (QUASI) SEMPRE
Giuseppe Pennisi
La settimana scorsa, il Bollettino della Banca d’Italia ha gelato le previsioni quantitative di numerosi centri di ricerca economica (italiani e stranieri) affermando che nell’anno in corso il Pil subirà una contrazione del 2% circa non dello 0,5% come ipotizzato non solo dal Ministero dell’Economia e delle Finanze ma anche dal Fondo monetario, dall’Ocse e da  molti altri. Non è la prima volta che ciò avviene: alcuni anni fa un servizio internazionale di analisi econometriche ‘vendeva’ a istituzioni, banche , aziende l’abbonamento ad i propri lavori con una documentazione in base alla quale la frequenza e lo spessore dei suoi errori era ‘inferiore’ a quello dei suoi maggiori concorrenti.
Per anni se la si è cavata ripetendo il detto di Oscar Wilde secondo cui le previsioni sono difficile nei casi in cui riguardano il futuro. Tuttavia, se si trattasse unicamente o principalmente di previsioni potrebbe bastare tarare meglio i modelli ed i loro parametri. Il punto è che spesso gli economisti offrono, con le migliori intenzioni e sulla base di solida dottrina economica, ricette di strategie, programmi e misure che, alla prova dei fatti, risultano sbagliate. E ci se ne accorge pure soltanto pochi mesi dopo i fatti. Un caso eloquente italiano è quello del problema degli ‘ esodati ’ innescato dalle ultime (peraltro ben congegnate) misure in materia di previdenza. Un caso sempre italiano ma meno noto è stato il modo in cui nel novembre 1989  simultaneamente abbiamo tolto le ultime barriere valutarie e siamo entrati nella ‘fascia stretta’ degli accordi europei sui cambi (giornalisticamente chiamati lo Sme). Si pensi al processo di deregolamentazione finanziaria attuato negli Stati Uniti dal1975 ed oggi generalmente riconosciuto come una delle determinanti della crisi del 2007-2010 (negli Usa, ma ancora in corso in Europa). Od alle privatizzazioni negli Stati emersi dall’ex-Unione Sovietica (ed in parte in Italia). Sono soltanto alcuni esempi di buone strategie economiche finite tra il male ed il malissimo.
Gli sbagli di noi economisti sono così frequenti che non possono essere attribuiti a singoli errori umani o inadeguatezza tecnologica di una disciplina che ha tre secoli e le cui capacità di analisi sono state notevolmente aumentate dalla tecnologia dell’informazione e della comunicazioni.
Un errore di fondo poco considerato (a ragione dell’arroganza di noi economisti nei confronti del resto delle scienze sociali) è il non considerare le implicazioni politiche (o meglio le implicazione su equilibri politici) di strategie, piani, programmi e misure di politica economica. Di norma, tali strategia, piani, programmi e misure hanno l’obiettivo di ridurre le imperfezioni del mercato (asimmetrie informative, differenze di reddito e di consumo, oligopoli, monopoli , esistenza di esternalità,  di beni pubblici, di beni comuni) Tali imperfezioni danno luogo a rendite che politiche economiche ben intenzionate e ben congegnate mirano a ridurre sino a fare sparire. In tali strategie, piani, programmi e misure di solito l’economista lascia la politica, specialmente la politica politicante, fuori dalla porta nell’assunto che ‘una buona politica economica è una buona politica tour court’ oppure nell’ipotesi che ‘buone politiche economiche aiutano i politici a restare in sella’ e , quindi, è loro interesse attuarle oppure ancora che la politica viaggia ‘a caso’ dietro le proprie beghe ed è, quindi, irrilevante o quasi ai fini della politica economica.
Si tratta di assunti o di ipotesi che non reggono. La politica economica viene formulata nel contesto di un determinato equilibrio politico (in cui le imperfezioni di mercato, ed in particolare, le rendite hanno un ruolo tutt’altro che secondario). Se la politica economica è incisiva, ‘morde’ sulle rendite, sulla distribuzione dei redditi e dei consumi, sulle compatibilità e convenienze tra fasce sociale. Da , quindi, origine ad un nuovo equilibrio politico le cui implicazioni (se non tenute in debito conto al momento della formulazione delle politiche economiche) possono essere controproducenti. I casi che si sono citati (esodati, cambio della lira rispetto al marco e quindi all’euro, riforma del sistema finanziario Usa, privatizzazioni nell’ex- Urss) non sono che alcuni episodi dei numerosissimi che si potrebbe ricordare solamente studiando la storia economica recente.
Su questi temi stanno lavorando economisti di fama internazionale come Darun Acemoglu, Dani Rodrik, James A. Robinson. Stanno approntando un nuovo quadro teorico in cui l’economia e la politologia vengano coniugate per poter meglio comprendere le implicazioni politiche di decisioni economiche, i nuovi equilibri che si possono creare e le tecniche per minimizzare effetti controproducenti di scelte economiche che sembrano corrette (sotto il profilo della disciplina).
In Italia, temi di questa natura vengono echeggiati solo ne la Rivista di Politica ma non vengono neanche accennati in riviste professionali di economia. Eppure è proprio questa la materia su cui indagare per comprendere la nostra scarsa capacità adattiva alle trasformazioni dell’economia mondiale, le ragioni del nostro declino e le leve per cercare di rimettersi a crescere.

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