mercoledì 10 luglio 2013

Non dimentichiamo la spending review in Lindro 9 luglo


OpinioniItaliaEconomia

Non dimentichiamo la spending review

 Giuseppe Pennisi

Non basta tagliare le spese pubbliche, occorre migliorare la qualità della spesa


La 'revisione della spesa' di cui è stata abbozzata una prima fase dal Governo Monti dovrebbe essere il metodo per giungere ed un miglioramento di  'the quality of spending' - parallelo di scienza delle finanze della 'quality of mercy' con cui, travestita da avvocato, Porzia scioglie i vari nodi ne 'Il mercante di Venezia' di William Shakespeare. La fine della sprecopoli deve diventare obiettivo principale di Governo (individuarla, contenerla e ove possibile eliminarla) , ma non se avvedono ancora i segnali.
Alcuni anni fa  è stato pubblicato uno studio condotto dalla London School of Economics (Lse), in collaborazione con l’Imperial College ed il CEIs  dell’Università di Roma, Tor Vergata. Lo studio merita di essere analizzato sia da chi avrà il compito di condurre una 'due diligence' dei conti pubblici sia, più in generale, dalla Corte dei Conti e dalla Ragioneria Generale dello Stato (Rgs). In Italia è disponibile come CEIS Working Paper N. 115 (per ottenerne il testo integrale su supporto magnetico, si suggerisce di farne richiesta a o.bandiera@lse.ac.uk o a a.prat@lse.ac.uk oppure t.valletti@imperial.ac.uk )
E’ un’analisi empirica che dopo una premessa teorica ed una rassegna della letteratura, passa al setaccio la spesa delle pubbliche amministrazioni per acquisti di beni e servizi nel periodo 2000-2006 , differenziando tra 'sprechi attivi' (ossia per il tornaconto individuale – dalla corruzione alla clientela in tutte le sue forme e guise) e 'sprechi passivi' (dovuti al lassismo ed alla lentocrazia burocratica). Si può argomentare di un comparto che riguarda meno dell’8% della spesa pubblica; è, però, quello caratterizzato da maggiore discrezionalità (rispetto, ad esempio, alla spesa per il personale, per le pensioni, per la sanità e per altri trasferimenti a famiglie ed imprese).
Andiamo ai risultati.
Gli 'sprechi passivi' sono l’83% del totale (ciò smentisce le chiacchiere giornalistiche su sprecopoli) e devono essere affrontati cambiando regole (semplificazione, abrogazione automatica di norme e circolari dopo un certo numero d’anni dalla loro applicazione);
Gli sprechi ('attivi' e 'passivi') sono di peso principalmente nell’apparato centrale dello Stato  -in breve i Ministeri pagano, mediamente, il 22% in più degli enti locali per beni e servizi analoghi.
Il controllo sociale è l’arma principale per contenerli (e tale controllo è più forte a livello locale che centrale).
Interessante notare che a conclusioni simili si è giunti, non guardando specificatamente l’Italia ma esaminando gli Usa, nella lontana Yale in uno studio pubblicato nell’ultimo fascicolo della 'Yale Law and Policy Review': il succo del lavoro che coniuga due discipline (economia e diritto) consiste nel proporre di utilizzare, in modo sistematico, l’analisi costi benefici a fini deliberativi delle poste di spesa (ossia decisionali) non meramente informativi.
Una legge della nostra Repubblica (la legge 144/99) lo prevede per l’investimento pubblico -unitamente alla creazione d’unità, nuclei, gruppi di valutazione in tutte le amministrazioni. Occorre applicarla con rigore ed estenderla a tutte le maggiori partite di spese (come fu tentato nel 1984 del Governo Craxi con articolo del ddl di legge finanziaria, eliminato durante l’iter parlamentare).  Non solo il CNEL ha predisposto e approvato all’unanimità sei mesi fa un primo documento di Osservazioni e Proposte per la valutazione e selezione della spesa pubblica ma lungaggini burocratiche ne stanno bloccando la prosecuzione.
Infatti, non basta tagliare le spese pubbliche con bassa utilità per la collettività. Occorre migliorare la qualità della spesa sia complessivamente, sia nei singoli comparti. Il primo passo consiste in un migliore equilibrio tra spese pubbliche di parte corrente per consumi collettivi e spesa pubblica in conto capitale tale da attivare, in fase di cantiere, capacità produttiva non utilizzata (un tasso di disoccupazione al 12% delle forze lavoro indica che in Italia ce n’è, purtroppo, a iosa) e di aumentare la capacità produttiva multifattoriale grazie al miglioramento del capitale fisso sociale.
L’investimento pubblico è essenziale alla piena utilizzazione della capacità produttiva (nella fase di cantiere) e all’aumento del capitale fisso sociale e, quindi, della produttività e della competitività (nella fase a regime). In un periodo in cui l’economia italiana ha subito una contrazione del 12% del Pil dall’inizio della crisi economica nel 2007, l’investimento pubblico è condizione indispensabile, pur se non sufficiente, per attivare l’ingente capacità produttiva e di lavoro non utilizzata e per rilanciare la produttività  -in ristagno da tre lustri.
Un tasso di disoccupazione che supera il 12% della forza lavoro e un tasso di utilizzazione degli impianti industriali che sfiora mediamente il 60% e nella metalmeccanica non raggiunge il 50% sono segnali evidenti della necessità di riavviare un processo virtuoso.

In effetti, secondo numerosi economisti, sarebbe necessario allo scopo un forte aumento dell’investimento pubblico, tanto più che non fanno difetto progetti esecutivi pronti a essere immediatamente cantierabili. Tuttavia, le restrizioni al bilancio dello Stato e degli Enti locali, definite nel quadro degli accordi europei in materia di moneta unica, sono all’origine di una contrazione degli investimenti pubblici sia in percentuale del Pil sia in termini assoluti; in percentuale del Pil, la spesa pubblica in conto capitale è passata dal 3,5% negli anni sessanta e ottanta (con una leggera contrazione negli anni settanta) al 2% in media nel primo decennio del nuovo secolo. In termini assoluti, si stima che nel 2011 la spesa pubblica in conto capitale si sia assestata attorno a 32.000 milioni di euro (meno della metà della media annuale degli anni ottanta).

La finanza di progetto, ossia l’apporto di capitale privato al finanziamento di beni sociali, come le infrastrutture, è in Italia in gran misura agli inizi: tra il 1990 e il 2009 (ultimo periodo per il quale si ha un consuntivo completo) mentre nel Regno Unito il finanziamento privato sfiorava il 70% circa del costo delle infrastrutture (intese in senso lato), in Spagna il 10% e in Francia e Germania il 5%, in Italia si toccava appena il 2%. Questi dati rispecchiano essenzialmente il fatto che in Italia la finanza di progetto è decollata tardi rispetto ai principali Paesi europei. Iniziative della Cassa Depositi e Prestiti, di alcune delle maggiori banche e di singoli investitori suggeriscono che l’apporto dei privati dovrebbe e potrebbe essere crescente nei prossimi anni.
Ciononostante, da un lato, è scarsamente realistico pensare che l’investimento pubblico, anche con l’apporto dei privati, torni ai livelli degli anni ottanta o anche solamente a quello dell’inizio degli anni novanta (quando pareva assestato sul 3% del Pil); dall’altro, i vincoli di bilancio e l’auspicabile crescente apporto di investitori privati hanno due implicazioni importanti.
La prima: l’esigenza di allestire con cura e rigore la strategia di investimento (nonché i singoli progetti), al fine di massimizzare gli effetti dell’utilizzazione di scarse risorse per il raggiungimento degli obiettivi politici di utilizzazione, nella fase di cantiere, di capacità produttiva non pienamente impiegata e di aumento della produttività nella fase a regime;
La seconda: rendere compatibili obiettivi pubblici sovente relativi al medio e lungo periodo con obiettivi di privati investitori che di solito guardano al breve periodo con attenzione maggiore rispetto all’operatore pubblico, specialmente in una situazione, come l’attuale, di grande volatilità dei mercati finanziari.


Nessun commento: