giovedì 27 giugno 2013

Le fondazioni liriche in Astrid Rassegna del 29 giugno

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Le fondazioni liriche
di Giuseppe Pennisi
Background
Quasi contemporaneamente, il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali (Mibac), la Società Italiana degli Autori e degli Editori (Siae) e l’Economist Intelligence Unit (Eiu) hanno pubblicato dati sul teatro in musica dal vivo. Non si tratta di dati omogenei: quelli del Mibac sono racchiusi in una paginetta relativa al 2012 (diffusa nel febbraio di quest’anno) e si riferiscono all’intero comparto dello spettacolo dal vivo da cui enucleare le statistiche sul teatro musicale. La Siae arriva sempre con un po’ di ritardo; quindi, l’ultimo annuario riguarda il 2010 ma sono stati anche pubblicati raffronti tra l’andamento dello spettacolo dal vivo nel primo semestre 2011 e nel primo semestre 2010. Il lavoro Eiu (riassunto sul settimanale The Economist del 4-10 maggio) riguarda un solo comparto del teatro in musica: il musical in alcune delle sue molteplici accezioni. Ne approfondisce più gli aspetti commerciali e gestionali che quelli artistici.
Dai numeri tuttavia si possono trarre spunti per alcune riflessioni. Iniziamo da quelli Mibac. Nonostante il sostegno dato dal Fondo unico per lo spettacolo alla lirica, alla musica ed alla danza (290 milioni di euro su un totale Fus di 360 milioni di euro), il settore sta complessivamente facendo retromarcia (i tagli del Fus hanno probabilmente influito): 3.500 rappresentazioni liriche, 14.000 concerti di musica leggera, 6.800 di danza rispetto a 81.000 di teatro di prosa. Due milioni di spettatori paganti per la lirica, 3.4 milioni per la concertistica, 2 milioni per il balletto rispetto a 14.2 milioni per la prosa. Raffronti con altre forme di spettacolo (ad esempio il cinema) sarebbero impietosi.
I dati Siae confermano tutto sommato questo quadro. Per quanto riguarda i dati 2010, la spesa al botteghino per l’acquisto di biglietti e abbonamenti ha superato i 2,370 miliardi con un aumento del 3,97% rispetto al 2009 grazie ai risultati
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conseguiti soprattutto dal comparto cinema, mostre e teatro. In flessione invece il volume d’affari (-3,14%). Il cinema è il settore che ha fatto registrare i migliori risultati con segni positivi in tutti gli indicatori, dal numero di spettacoli (+43,26%) e biglietti venduti (+10,39) alla spesa al botteghino (+16,37%), spesa del pubblico (+14,33%) e volume di affari (+16,22%). Nel complesso stabile l’attività teatrale, mentre in ascesa è il settore delle mostre ed esposizioni con un volume d’affari cresciuto del 28,01% rispetto al 2009. Invece, l’attività concertistica che comprende sia la musica popolare che quella classica, a fronte di una maggiore offerta di spettacoli, ha fatto registrare un calo degli altri indicatori (-3,47% negli ingressi, -3,6% nella spesa al botteghino e -4,63% nella spesa del pubblico). Raffrontando il primo semestre del 2011 con lo stesso periodo nel 2010, il comparto delle attività teatrali (prosa e musica) è caratterizzato da forti flessioni: spesa al botteghino (-5,68%); spesa del pubblico (-7,97%); volume d’affari (-6,60%) e ingressi (-1,24%). In aumento solo l’offerta di spettacoli (+1,79%). In questo comparto, l’unico settore che mostra un andamento generalmente positivo è la lirica (spettacoli +4,84%; ingressi +12,68%; spesa al botteghino +11,18%; spesa del pubblico +11,27% e volume d’affari +11,27%). I concerti hanno visto diminuire il loro pubblico (ingressi -6,48%) e questa flessione ha inciso sulla spesa al botteghino (-2,75%), sulla più generale spesa del pubblico (-5,41%) e sul volume d’affari (-0,68%). Anche in questo settore è aumentata solo l’offerta di spettacoli (+17,13%). Senza dubbio, la crisi economica e finanziaria in corso dal 2007 (e che incide sui portafogli delle famiglie) è una determinante importante. Difficile dire da cosa dipenda l’andamento anomalo della lirica; vi hanno probabilmente influito gli appelli (tra cui quello di Riccardo Muti al Teatro dell’Opera di Roma alla presenza del Capo dello Stato) per evitare che, nel comparto, si spegnessero le luci.
La settantina di Conservatori italiani producano ogni anno diplomati costretti a cercare lavoro principalmente all’estero, le orchestre sinfoniche languiscono e la situazione delle Fondazioni liriche (quattro su tredici commissariate, ma pare che
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in autunno verrà commissariato anche il Teatro dell’Opera di Roma) sia allo stremo. Nel 2010, ultimo esercizio di bilancio consuntivo per il quale si dispone di dati completi, soltanto quattro delle tredici Fondazioni liriche (teatri come La Scala, il San Carlo, l’Opera di Roma, il Massimo di Palermo) hanno chiuso i loro bilanci consuntivi in attivo. Da anni, però, il bilancio della Scala espone un disavanzo contabile di circa 9 milioni, saldato in autunno da ‘contributi addizionali dei soci’. Leggermente migliore la situazione dei ventotto Teatri di tradizione, finanziati principalmente dagli enti locali — gravano infatti sul Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus) unicamente per il 4 per cento del totale — e per i quali le risorse statali sono meno della metà del finanziamento complessivo. Sono invece imprese private, spesso del territorio, a fornire mediamente il 24 per cento delle risorse totali per il loro funzionamento. A fronte di tale situazione, numerosi Teatri di tradizione hanno formato efficienti circuiti e coproduzioni per abbattere i costi: la loro situazione debitoria è così sotto controllo, pur con qualche eccezione. Le Fondazioni sono caratterizzate da alti costi (una recita costa mediamente il 140 per cento della media dell’UE a 15 ed oltre il 200 per cento di quella della UE a 25) e bassa produttività (60-70 alzate di sipario per opera e balletto ogni anno rispetto a 150 nell’UE a 15, con oltre 200 nei Paesi di cultura e lingua tedesca).
Nonostante alcune recenti inchieste giornalistiche presentino una situazione rosea nel resto d’Europa, la riduzione dei finanziamenti pubblici alle arti dal vivo — conseguenza delle politiche di bilancio per contenere disavanzi e ridurre il debito pubblico — sta incidendo anche su Paesi con profonda e diffusa cultura musicale, come la Germania. A Berlino si discute se porre sotto un’unica gestione i tre maggiori teatri d’opera del Land allo scopo d’effettuare economie; così anche in Francia, dove il finanziamento pubblico ai Teatri d’opera è rimasto tendenzialmente costante tra il 2000 e il 2009, dal 2010 sono in atto ingenti restrizioni. Negli Stati Uniti, il quadro è marcatamente differenziato. A New York, da una parte, il Metropolitan Opera House sta ottenendo nuovo pubblico e nuovo
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supporto (privato) grazie all’utilizzazione di tecnologie avanzate che consentono dirette in alta definizione in millesettecento cinema in tutto il mondo (sessanta in Italia), dall’altra, la New York City Opera, travolta dai debiti, ha una stagione di pochi titoli in sale secondarie (cinematografi, strutture di istituzioni politiche, ecc.). Ad ogni modo nel 2010 (anno di crisi economica) negli Stati Uniti ci sono state ben dodici prime mondiali: lavori spesso tratti da romanzi o film di successo, quali Il giardino dei Finzi Contini, Il postino o La Ciociara di Marco Tutino, che inaugurerà la prossima stagione della San Francisco Opera. In Asia, prevedibilmente, il mercato è in piena espansione: sono stati completati nuovi teatri a Pechino, Shanghai – dove è stata aperta una nuova Festival Hall con la produzione di Otello del nostro Teatro La Fenice – Hong Kong e Singapore; altri sono in costruzione; il pubblico, qui anche molto giovane, gareggia per riempirli. Nella sola Cina sono in costruzione oltre cento strutture polivalenti per opera e concerti all’occidentale: l’Oriente così potrebbe presto diventare una meta di brain drain dei nostri giovani professionisti formatisi nei Conservatori italiani e nei nostri Teatri di tradizione. Qui, tra l’altro, non fanno difetto i finanziamenti, pubblici o privati.
Questa rapida carrellata ripresenta non solo gli ormai frequenti interrogativi sui problemi delle Fondazioni liriche italiane (caratterizzate da alti costi e bassa produttività) e su come sanarli, ma pone domande (a cui di rado si è data risposta) sul ruolo del teatro in musica nello sviluppo economico di un Paese. La storia economica riconosce che ci sono stati periodi e Paesi — Venezia nel Seicento, la Gran Bretagna nella prima metà del Settecento, Italia e Germania nel secolo successivo — in cui l’opera lirica non era un fardello per le casse dello Stato, ma un comparto remunerativo per chi vi investiva e che, tramite l’imposizione fiscale, questa contribuiva notevolmente alla finanza pubblica. Di norma, però, l’impressione generale è che «la musa bizzarra e altera» (secondo l’acuta definizione del musicologo tedesco Herbert Lindenberger) fosse considerata come un “bene posizionale”, una misura di prestigio e sfarzo offerta dal Governo di
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turno nella competizione tra comunità. Ciò spiega, ad esempio, il pullulare di teatri lirici in regioni italiane relativamente piccole (come l’Umbria e le Marche), ma con città economicamente rilevanti e molto competitive.
Nella letteratura convenzionale, il teatro d’opera è stato l’uovo che nasceva da galline prospere, ossia vedeva luce in aree già sviluppate sotto il profilo economico e sociale. Questa tesi viene ribaltata da un interessante studio dei tedeschi Oliver Falck (IFO, il maggior centro di ricerca economica della Repubblica Federale), Michael Fritsch (Università di Jena) e di Stephan Heblich (Max-Planck-Institut) e pubblicato dall’IZA (l’Istituto tedesco di studi sul capitale umano) come Discussion Paper No. 5065. Il lavoro utilizza una complessa strumentazione statistica per studiare i nessi tra musica lirica e sviluppo economico, utilizzando come campione ventinove teatri costruiti in età barocca in differenti località di un’area che va dalla Renania alla Silesia (regione oggi parte della Polonia). La ricerca impiega una vasta gamma di indicatori per comprendere se i teatri sorgessero in aree già in fase di sviluppo prima della decisione di costruirli (l’ipotesi dominante) o se invece, nati in contesti non più avanzati della media dell’area di espressione tedesca, siano stati essi stessi gli artefici di un processo di espansione economica.
I dati disponibili permettono di affermare che Trier, Bautzen, Stralsund, Rostock, Dessau, Passau, Regensburg — per non citare che alcuni dei luoghi dove sono localizzati i teatri del campione — non avevano indici di sviluppo economico e sociale migliori degli alti territori. Anzi, in molti casi, nel periodo precedente la costruzione e la messa in funzione del teatro, questi esponevano indicatori inferiori alla media. L’analisi non si limita a offrire una fotografia di quella che era la situazione nel momento in cui la comunità decise di darsi un teatro con le caratteristiche specifiche per rappresentare opere liriche, ma problematizza, invece, una questione centrale: ovvero se e perché il teatro ha contribuito allo sviluppo economico della zona circostante. Alla prima domanda, i dati forniscono una
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risposta positiva. Per affrontare la seconda, lo studio fa ricorso a scuole economiche più recenti che hanno evidenziato in gran parte delle ventinove aree un incremento della concentrazione di capitale umano (lavoratori specializzati, musicisti, orchestrali, cantanti) e una maggiore apertura allo spazio circostante (tramite le compagnie di giro impiegate per numerosi spettacoli). In effetti, il capitale umano attira altro capitale umano e avvia e sostiene il processo di sviluppo. Questo chiarisce che la decisione dell’Asia emergente di investire in teatri d’opera è razionale anche dal punto di vista strettamente economico e non solo culturale. Alla luce delle conclusioni dello studio, forse andrebbero riconsiderate le politiche di restrizione al supporto pubblico di teatri d’opera. Soprattutto nei confronti delle realtà efficienti in termini di costi e produttività.
Molto differente il quadro dai dati Eiu. Il teatro musicale di stile anglosassone è vivo e prospero come non mai e si sta espandendo in tutto il mondo. Senza tener conto dei diritti cinematografici e televisivi, al solo botteghino, dal 1986 la rock opera The Phantom of the Opera ha incassato 6 miliardi di dollari, The King Lion (debutto nel 1997) 5 miliardi di dollari, uno spettacolo a basso costo come Cats (1981) 3 miliardi di dollari, un altro low cost del 1999, Mamma Mia!, 2 miliardi di dollari, Miss Saigon, un adattamento di Madama Butterfly (1991) 1,5 miliardi di dollari. E via discorrendo. L’Estremo Oriente sta entrando nel giro: è partito da Seul un revival di Dreamgirls che arriverà in Europa ed in America. Sta per debuttare Shangai, Shangai che dovrebbe essere cantato (arie, concertati, recitativi) in cinese ed andare per il mondo con sottotitoli.
Si può facilmente ironizzare sostenendo che questi titoli hanno poco o nulla a che vedere con la musica colta. Non solamente il teatro in musica di marca anglosassone è spesso il modo più efficiente e più efficace per avvicinare nuovo pubblico alla musa bizzarra ed altera ma negli Stati Uniti ed altri Paesi, nei quali l’opera e la concertistica non ricevono quasi alcun sussidio pubblico, prosperano ed innovano. Numerosi teatri d’opera tedeschi (il cui pubblico è tutt’altro che incolto) hanno nel loro repertorio lavori come A Streetcar Named Desire di André
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Previn, A View from the Bridge di William Bolcon, A Postcard from Morocco di Dominik Argento, Dead Man Walking di Jake Heggie, Willie Starl di Carlisle Floyd, Sophie’s Choice di Nicholas Maw. Solo due di questi lavori si sono visti in Italia. In effetti, mentre da noi a parte qualche raro caso e per volontà di poche istituzioni la produzione di nuove opere liriche appassisce, negli Stati Uniti è in pieno sviluppo: nel 2010 (anno di crisi) ci sono state 12 prime mondiali tra cui lavori tratti da romanzi come Il Giardino dei Finzi Contini e Il Postino. Grande attesa già adesso per La Ciociara commissionata a Marco Tutino per l’inaugurazione della nuova stagione della San Francisco Opera (2014-15).
Chi scrive ha vissuto oltre tre lustri a Washington senza mai annoiarsi ad una nuova opera americana (se ne vedevano ed ascoltavano un paio l’anno). Non solo, nei teatri commerciali americani accanto a nuove opere di compositori statunitensi si potevano ascoltare capolavori da noi quasi abbandonati come Il Volo di Notte di Dallapiccola. I deludenti dati Siae e Mibac e l’analisi dell’Eiu ci impongono quanto meno ad aprire un dibattito.
Molte misure da prendere sono microeconomiche e gestionali ma possono essere indirizzate dalla politica. Sarebbe sufficiente un decreto ministeriale che prevedesse accesso al Fus (Fondo unico per lo spettacolo), unicamente se il 70% della programmazione è in co-produzione. In una Italia fatta a Stivale, è più facile spostare gli spettacoli che il pubblico. Il costo di scene e costumi è appena il 5% di un allestimento ma in Italia i cachet degli artisti sono mediamente il doppio di quelli nel resto d’Europa e negli Usa perché vengono scritturati per poche (4-6) rappresentazioni; sarebbero molto più bassi se tramite una politica di coproduzioni venissero scritturati per replicare lo stesso lavoro in vari teatri 25 -30 volte. Inoltre, si dovrebbe prevedere una “premialità”, analoga a quella dei fondi europei: le fondazioni che chiudono i conti in attivo e hanno attuato una buona programmazione (in termini di numeri e qualità di spettacoli, quali valutati dalla critica italiana e straniera) dovrebbero ricevere una dotazione aggiuntiva l’esercizio
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successivo. Soprattutto occorre promuovere il ricambio del pubblico attirando i giovani, come sta facendo egregiamente l’AsLiCo di Como che, in co-produzione con teatri francesi e tedeschi, porta in una trentina di città un Olandese Volante di Wagner in edizioni per bambini, adolescenti e ragazzi.
Perché ciò funzioni sono essenziali quelli che gli economisti chiamano incentivi a basso ed a alto potenziale. I primi operano nel lungo termine come il migliora-mento dell’istruzione musicale nelle scuole (e in famiglia): la Rai (finanziata con il canone) dovrebbe tornare a svolgere un ruolo in questo campo. I secondi, invece, operano rapidamente. Il regolamento approvato dal governo ne prevede uno molto forte, ma “negativo”; il declassamento (a Teatri “di tradizione”) delle Fondazioni che non chiudono il bilancio almeno in pareggio. Occorre affiancarlo con uno “positivo”: una revisione degli sgravi tributari (attualmente una detrazione del 19%) per le elargizioni liberali per portarle alla media europea (30%) ove non necessariamente al livello della Francia (60%).

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