giovedì 6 giugno 2013

L’ANNO DELLE “PRIVATIZZAZIONI PARLATE” in 'Liberalizzazioni crisi di un modello in un Paese in crisi- Undicesimo Rapportp' Società Libera



L’ANNO DELLE “PRIVATIZZAZIONI PARLATE”
Giuseppe Pennisi


Premessa
In 12 anni dall’inizio di questa seria, è la prima volta che il narratore del percorso delle privatizzazioni in Italia – un sentiero mai facile e spesso irto - si trova in imbarazzo. Se dovesse presentare una cronaca ragionata (come nei volumi precedenti) non avrebbe che poco o nulla da raccontare. Mentre organi d’informazione come Privatization Watch ci informano che in tutto il mondo, pure in Africa sub-sahariana, continua il processo di liberalizzazione e di privatizzazione dell’economia e della società e monografie analizzano quanto fatto in altri Paesi ed altri continenti, in Italia ci sono state quasi esclusivamente “privatizzazioni parlate”, ossia privatizzazioni di cui si è discusso (spesso solamente chiacchierato o meglio ancora cincischiato) ma senza dare alcun seguito concreto.
Non è stata neanche pubblicata la Relazione annuale sulle privatizzazioni del Ministero dell’economia e delle finanze (Mef) al Parlamento, un atto amministrativo dovuto; l’ultima risale al settembre 2011 ed è stata illustrata e commentata nell’edizione 2012 di questo annuario. Occorre dire che il Parlamento non se ne è preoccupato più di tanto: non si registra una sola interrogazione in materia. Secondo informazioni di stampa, nell’anno e mezzo in cui l’Italia ha avuto un Governo “tecnico”, che pur ha proposto un programma di dismissione graduale del patrimonio immobiliare pubblico, una sola privatizzazione è stata “decretata”: quella dell’Unione nazionale degli ufficiali in congedo d’Italia (Unici) con 35.000 iscritti ed una manciata di dipendenti (che si occupano principalmente di attività turistiche e sportive dei soci del sodalizio). Tuttavia, il pertinente decreto non è stato convertito in legge in quanto giunto in Parlamento il 21 gennaio, a Camere ormai sciolte. Sempre secondo la stampa, ci sarebbero stati ritardi perché non sarebbe stato facile collocare nelle pubbliche amministrazioni tre della quindicina dei dipendenti dell’ente, ed avere, quindi, l’assenso dei sindacati. Quindi, si è aggiunta anche la beffa e la “privatizzata” Unici è rimasta tale e quale come era prima della denazionalizzazione; basta consultarne il sito per essere edotti sulle sue attività, principalmente ludiche.
Dato che queste informazioni non sono mai state smentite e che la Relazione del Mef non è stata pubblicata, almeno sino a metà marzo 2013, questo capitolo tratta essenzialmente dei programmi di privatizzazioni delineati per ridurre il fardello del debito pubblico e delle esigenze impellenti di privatizzazioni per raggiungere l’equilibrio di bilancio a cui ci siamo impegnati con il Fiscal Compact concluso in sede europea. Il quadro non è incoraggiante; a titolo indicativo si pensi che l’ultimo rapporto sullo sviluppo economico della Banca mondiale, presentato in Banca d’Italia nel marzo 2013, pone l’accento sul fatto che privatizzazioni e liberalizzazioni sono ingrediente essenziale (pur se non sufficiente) per creare quell’occupazione di cui l’Italia ha tanto bisogno (World Bank, 2013) e per riattivare un processo di crescita fermo da quindici anni ed aggravato, da oltre un lustro, dalla recessione più pesante degli ultimi settant’anni. Nel contempo, in controtendenza con il resto del mondo, in Italia è aumentato, con la pressione tributaria, il perimetro del settore pubblico, tramite interventi a favore di banche ed imprese – si è anche prospettata una partecipazione del Tesoro nell’ex Alitalia-Airone (argomento ampiamente trattato negli anni precedenti) ora di nuovo in situazione molto difficile, ove non quasi fallimentare.

Privatizzazioni e debito pubblico.
Uno dei nodi centrale della politica economica italiana è lo stock di debito pubblico rispetto al Pil (ormai attorno al 127% in termini di titoli, di cui circa la metà in mano ad operatori stranieri, senza includere pagamenti non effettuati ad impresi e privati (un altro 8% del Pil), a cui aggiungere, almeno una parte del debito previdenziale, variamente stimato tra il 150% ed il 200% del Pil ma parte del quale è incluso nel debito pubblico in senso stretto).
Analisi econometriche ormai generalmente accettate da economisti di varie scuole e tendenze (Rheinart; Rogoff, 2011), concludono, data la nostra struttura economica e demografica, se il debito pubblico supera l’85% del Pil, il macigno agisce come un freno di almeno l’un per cento l’anno sulla crescita. Prima della crisi finanziaria iniziata nel 2008, il tasso di crescita “potenziale” del Paese è stato stimato da Fondo monetario, Banca centrale europea, Ocse e Commissione europea , attorno all’1,5 % l’anno: con un rallentamento di un punto percentuale da attribuirsi al debito, ci si condanna alla stagnazione qualsiasi altra misura si applichi in materia di mercato del lavoro, liberalizzazioni, privatizzazioni, rilancio di investimenti pubblici e privati. Ridurre gradualmente il fardello con un “avanzo primario” (entrate superiori alle spese pubbliche al netto del servizio del debito) tale da portarlo al 60% del Pil (nei tempi previsti dal “Patto euro-plus” e dall’accordo sul Fiscal Compact) implica una manovra di 35-50 miliardi di euro l’anno per i prossimi 20 anni – ciò può voler dire smantellare servizi essenziali nella scuola, nella sanità, nell’assistenza e simili e condannare almeno una generazione al progressivo impoverimento, ormai in atto da almeno un lustro. Inoltre, il temuto e possibile ritorno a tassi d’interesse relativamente elevati per il collocamento dei titoli pubblici comprime ulteriormente le possibilità di crescita; il servizio del debito si aggira sugli 80 miliardi di euro anno, mentre gli investimenti pubblici non superano i 25-30 miliardi di euro l’anno. Il servizio del debito, quindi, assorbe risorse che potrebbero essere utilizzati a fini di crescita, di aumento del valore aggiunto nel breve periodo e del capitale sociale (e, quindi, della produttività, nel medio- lungo termine).
Quella dell’Italia è una malattia cronica, ove non congenita, che ha le sue radici in determinanti storico-sociologiche di lungo periodo: in 150 anni di Unità, per ben 111 anni lo stock di debito pubblico ha superato il 60% del Pil e per ben 56 il 100% del reddito nazionale (Pedone, 2011). Non ci sono esperienze di utilizzazione delle strategie tradizionali di consolidamento/ristrutturazione o di forte inflazione per ridurre il rapporto di debito e Pil nell’ambito di un’unione monetaria quale l’eurozona [1].
Non sono mancate in questi ultimi mesi idee e proposte per ridurre, grazie ad una strategia straordinaria, il rapporto tra stock di debito e Pil entro un lasso di tempo relativamente breve al fine principalmente di consentire crescita della produzione di beni e servizi, dell’occupazione e dalla produttività. Molte di queste proposte contemplano un programma di liberalizzazioni e di privatizzazioni. Specialmente di aziende e servizi pubblici locali, il “capitalismo municipale” che, come si è visto, in anni precedenti di questa serie di “Rapporti” ormai gestisce circa il 70% del capitale pubblico investito in attività di produzione di beni e servizi vendibili sul mercato.
Nel giugno 2012, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel) ha messo a confronto un campione ampio di proposte in un seminario a porte chiuse e senza la presenza di stampa. Dalla documentazione presentata in quella occasione (disponibile in e-Book sul sito del Cnel, Cnel, 2012) si può trarre un panorama complessivo. Si rimanda questo E-Book, di facile consultazione, per la lettura, se si vuole, di relazioni e proposte specifiche.
Al fine di ridurre il debito, il primo punto (in ordine di tempo) della strategia di crescita presentato dal Governo Monti (allora in carica) era non solo il pareggio di bilancio ed un consistente “avanzo primario” per diversi anni, ma anche la costituzione di un fondo immobiliare che ha presto acquisito, sulla stampa d’informazione, il nomignolo di “fondo taglia-debito” In breve, l’obiettivo è “creare ricchezza” dalla manomorta pubblica (stimata a 1.800 miliardi, pari quasi allo stock di debito pubblico). In pratica, la cessione di una parte (peraltro relativamente modesta) del patrimonio immobiliare pubblico (che oggi rende poco o nulla allo Stato ed alle pubbliche amministrazioni in generale) e diritti per le emissioni inquinanti di CO2. Dalla prima fonte si contano di ricavare 35-40 miliardi; dalla seconda altri dieci. Ciò nonostante, a marzo 2013, come si è visto, nulla era stato concluso in questi due campi. In primo luogo, è pleonastico dire che cercare di valorizzare il patrimonio pubblico è una buona idea. Ci sono ora pure le premesse perché l’idea abbia modalità di applicazione che la rendano realizzabile entro un lasso di tempo relativamente breve. Alcune sono riassunte in un saggio di Paolo Savona (Savona, 2012). Il programma proposto da Savona consiste nel vendere sul mercato parte del patrimonio pubblico non strategico attraverso un veicolo ad hoc, avvalendosi, ad esempio, della Cassa depositi e prestiti e di Fintecna, che mediante la costituzione di una società dedicata, comprerebbero dallo Stato beni e diritti in tranche da definire. Gli asset verrebbero utilizzati come garanzia patrimoniale per emettere obbligazioni a scadenza quinquennale. I capitali così acquisiti verrebbero girati allo Stato, che li impiegherebbe per abbattere il debito pubblico. La proposta rappresenta anche una garanzia per i piccoli risparmiatori. Il veicolo ad hoc emetterebbe infatti warrant detachables rivendibili separatamente: queste consentirebbero al possessore di godere del diritto di prelazione nell’acquisto degli asset trasferiti dallo Stato, nel momento della cessione effettiva. Sarebbe un’operazione a costo zero per i cittadini
Franco Reviglio e Francesco Forte hanno proposto, in articoli differenti su numerosi aspetti tecnici ma essenzialmente nella stessa direzione, forme di “prestito forzoso” analogo a quelli di cui si è avuto esperienza nella Repubblica romana del 1849, in varie fasi del Regno d’Italia (specialmente dopo l’unificazione monetaria) ed in epoca fascista (per sostenere il sovrapprezzamento della lira). Il rimborso del prestito forzoso dovrebbe essere accompagnato da privatizzazioni, specialmente da parte degli enti locali.
Andrea Monorchio e Guido Salerno Aletta hanno articolato (anche sotto il profilo giuridico-normativo, ossia uno schema di disegno o proposta di legge) un percorso basato su forme di ipoteche “incentivate” (piuttosto che “forzose” del patrimonio immobiliare privato). In effetti, si richiederebbe ai cittadini possessori di immobili un prestito (volontario o forzoso le opzioni sono aperte) pari a circa il dieci per cento del valore dell'immobile. La provvista di fondi potrebbe essere fatta dai cittadini presso le banche facendo mettere una limitata ipoteca sul valore dell'immobile stesso. A loro volta le banche potrebbero scontare questi mutui garantiti dagli immobili dei cittadini presso la Bce e quindi ottenere un tasso vicino a quello di sconto. Il ragionamento è il seguente: lo Stato si finanza a tassi molto più bassi ed inoltre trasferisce debito estero in debito interno. In contropartita, i cittadini aderenti allo schema avrebbero un’esenzioni da future imposte patrimoniali. “Se questa operazione viene fatta con perizia - affermano Monorchio e Salerno Aletta - il risparmio del costo del debito consentirebbe di ridurre in vent'anni il nostro debito al 60 per cento, come richiestoci dall'Europa. I cittadini avrebbero titoli dello Stato comunque negoziabili, che hanno un rendimento, sia pure modesto, e che comunque verranno rimborsati a scadenza. Quindi non si tratta di un’imposta ma di un modo per utilizzare il patrimonio immobiliare privato per costituirlo in garanzia del nostro debito pubblico ottenendo così più fiducia sui mercati e presso le autorità comunitarie". Nel criticare la proposta, è stato sottolineato che, in un’operazione essenzialmente di “riscatto” del debito (che alleggerirebbe il tasso d’interesse), se si chiede ai cittadini di mettere a disposizione (come garanzia) le proprie case (spesso il bene per essi più pregiato), lo Stato e gli enti locali dovrebbero mettere a disposizione le loro partecipazioni in aziende di maggior valore (ponendo le basi per la loro privatizzazione).
In articoli su quotidiani ed interventi pubblici Giuseppe Guarino ha lanciato quella che lui stesso definisce “una cura shock”: la costituzione di una Spa, all’inizio di totale proprietà dello Stato, che raccoglie e amministra il patrimonio pubblico (immobili, partecipazioni, crediti), si quota in Borsa e provvede a una cessione progressiva delle azioni (il cui valore si immagina correlato all’efficienza della gestione): con il ricavato lo Stato riduce il debito. Una versione minimalista della medesima idea prevede che Cassa depositi e prestiti acquisti con liquidità propria le partecipazioni dello Stato nelle grandi aziende pubbliche (Enel, Poste, Sace, Fintecna, Anas, Invitalia, ecc.) per un controvalore di 40-50 miliardi (da destinare a riduzione del debito). La proprietà rimane pubblica, ma cambia l’etichetta e c’è l’esborso di denaro fresco.
In un’altra proposta, di Antonio Guglielmi di Mediobanca, il patrimonio, immobili e/o partecipazioni, non verrebbe usato quale asset di una Spa le cui azioni – valorizzate nel tempo – sarebbero destinate alla cessione; fungerebbe invece da garanzia per l’emissione di nuovi titoli il cui ricavato è impiegato per ridurre il debito. Si introduce così un effetto leva con il vantaggio di aumentare l’incasso a breve, ma al contempo si stabilizzerebbe l’esistenza della Spa e si manterrebbero gli asset vincolati al suo interno. Mediobanca e altri istituti potrebbero costituire – con criteri tali da tenerla fuori dal perimetro pubblico - una società veicolo che riceve in dote da Stato ed Enti locali beni per un valore di 80-90 miliardi e, su questa garanzia, emette obbligazioni a lungo termine. Banche e assicurazioni sottoscrivono i titoli consegnando Btp che dal veicolo sono trasmessi allo Stato a riduzione del debito. Di fatto si tratterebbe un grande swap che consentirebbe alle banche di alienare a prezzo convenzionale titoli dai corsi ormai deboli e allo Stato di cancellare debito a valore facciale. Il veicolo rimarrebbe possessore degli asset e sono immaginate dismissioni in tempi favorevoli.

Su un'altra strada ancora Giuseppe Pignataro della Bnl propone una tassa od imposta “di riequilibrio", "straordinaria" ed interamente destinata ad abbattere il debito pubblico. Per poter raggiungere un rapporto stock di debito pubblico e Pil (attorno all’80%, occorrerebbero almeno 650 miliardi. La tassa o imposta straordinaria dovrebbe essere universale, equa, e reversibile. Insomma, una patrimoniale interamente destinata all'abbattimento del debito pubblico.
Altre proposte (ad esempio quella di Pietro Masci) guardano a esperienze innovative di riscatto quali quelle attuate da alcuni Paesi dell’America latina e dalla Germania. In America latina non si trattava di risolvere il nodo del debito pubblico interno (abbastanza contenuto a differenza di quello sull’estero) ma di affrontare il peso di un insostenibile debito previdenziale. In Germania, il problema era come coniugare denazionalizzazioni con la riduzione del debito dei Länder orientali. In tutti questi casi, per il riscatto sono stati istituiti fondi specifici quali il Treuhandanstalt (Tha) tedesco e si è utilizzato parte dello stock di ricchezza pubblica e privata.
In sintesi le idee non mancano. Soprattutto, dato che non possiamo utilizzare le strade maestre per ridurre il debito pubblico - consolidamento, maxi-inflazione, super-crescita - si è diffusa la convinzione che il debito pubblico è ormai un freno tale alla crescita che occorre pensare ad un’operazione straordinaria (nel senso etimologico di “fuori dall’ordinario”) per abbatterlo. Tale operazione passa o per un’imposta patrimoniale o per un’operazione di grande ampiezza sul patrimonio dello Stato all’insegna del motto “vendere, vendere, vendere”. Date le dimensioni del problema, il fondo delineato dal Governo può essere visto come una prima “tranche” di un’operazione ventennale. L’Italia ha un debito pubblico molto elevato sia in cifra assoluta sia in rapporto al Pil, detiene attivi poco redditizi (con rare eccezioni), gode di una fama politica non brillante (su riforma dello Stato e riduzione del debito le promesse sono state tante, i fatti pochi). Nei prossimi anni dovrà affrontare una recessione forse lunga, dinamiche monetarie non favorevoli, impegni con i partner europei molto pesanti. Operazioni finanziarie che dislocano abilmente il debito da una parte all’altra del perimetro pubblico danno sollievo temporaneo ma forse non sono all’altezza della complessità attuale. Cessioni reali di beni, basate su congegni che sfalsano i tempi fra incasso (rapido) e vendita (differita secondo le fasi di congiuntura), danno più sicurezza ai conti e più fiducia agli investitori. La scelta fra prelievo forzoso e appello al mercato, invece, ha carattere politico: i cittadini e le imprese – va però ricordato - patiscono già livelli di prelievo molto elevati.
Le proposte della Fondazione Astrid
Il documento analitico più completo è quello presentato dalla Fondazione Astrid (Astrid, 2012) all’inizio dell’autunno; avrebbe dovuto stimolare azione di governo in parallelo con la definizione ed approvazione della Legge di Stabilità.
Lo studio presenta un mix d’interventi in grado di portare il rapporto debito pubblico/Pil verso una “soglia di sicurezza” del 107 per cento entro il 2017 e di farlo ulteriormente scendere verso 100 per cento negli anni successivi. Il documento sottolinea che una parte consistente delle operazioni realizzate nel periodo 1992-2007 ha riguardato attivi patrimoniali, fra i quali: privatizzazioni di partecipazioni e di imprese (140 miliardi di euro), cartolarizzazioni di crediti (26 miliardi di euro), alienazioni di immobili (20 miliardi), la vendita di licenze Umts (13,8 miliardi). Le operazioni non patrimoniali hanno, invece, riguardato fra l’altro: condoni fiscali (32,3 miliardi di euro), imposizione di fondi di quiescenza (3 miliardi), l’eurotassa (10 miliardi), lo scudo fiscale (1,5 miliardi), il condono edilizio (1,6 miliardi), e il concordato fiscale (7,6 miliardi). “Senza tali operazioni non saremmo riusciti a rispettare i vincoli imposti ai Paesi che hanno partecipato al varo dell’euro; e il nostro debito pubblico sarebbe oggi più alto di circa il 15 per cento. È probabile che, nei prossimi anni, si dovrà fare ricorso a nuove operazioni straordinarie. In particolare, si tratterà di accoppiare un elevato avanzo primario, ma ottenuto – questa volta – grazie a una severa spending review capace di tagliare le spese correnti non necessarie, con operazioni straordinarie di riduzione del debito dell’ordine di 1-2 punti di Pil all’anno”. Specificato che un’imposta patrimoniale straordinaria, sia nella versione tradizionale sia in quella edulcorata (ossia incentrata su cessioni forzose di asset o su prestiti forzosi) produrrebbe un ulteriore aumento della pressione fiscale con prevedibile effetti recessivi, il documento sottolinea che “la strada delle cessioni/privatizzazioni di asset del patrimonio pubblico eviterebbe ovviamente gli effetti negativi sulla crescita, sebbene le modalità di realizzazione (con relativi rischi e benefici) possano essere molto diverse tra loro. Su questo fronte va chiarito - fin dall’inizio - che i beni del patrimonio pubblico,vendibili o utilizzabili come collaterale in tempi rapidi, non superano i 50 miliardi di euro. Se invece si avvia un processo pluriennale ad “alta intensità politica” affidandone la gestione ad una vera e propria “missione di struttura” alla francese, diventa possibile ottenere fino a 250 miliardi di euro così da portare il rapporto debito/Pil sotto la soglia del 100 per cento entro il 2020. Nel documento si presentano una serie di proposte per realizzare tale obiettivo. Il risultato non potrà essere ottenuto mediante uno o pochi interventi. Si tratta, invece, di porre in campo un insieme coordinato e graduale di interventi: (1) la valorizzazione e privatizzazioni di asset del patrimonio (in linea con le indicazioni recentemente annunciate dal Mef); (2) i proventi fiscali (una tantum e a regime) ottenibili con la tassazione dei capitali detenuti in Svizzera, a seguito di un Accordo tra le autorità italiane ed elvetiche; (3) l’introduzione - per via normativa - di obbiettivi di copertura degli impegni a lungo termine delle Casse di previdenza, beneficiarie di garanzie pubbliche, che si traducano nel vincolo ad acquistare e tenere in portafoglio titoli di stato a lunga scadenza indicizzati all’inflazione; (4) un programma di incentivi e disincentivi fiscali che abbia il duplice effetto di allungare le scadenze del debito e di schiacciare la curva temporale dei relativi rendimenti, così da avere un debito più stabile e un minore costo del suo servizio. “È importante che gli interventi (1) – (4) siano realizzati “in aggiunta e non in sostituzione” delle misure di consolidamento del bilancio pubblico, imperniate sulla realizzazione di un avanzo primario. Solo la combinazione fra ‘avanzi primari’ di bilancio d’esercizio  e un insieme di operazioni straordinarie renderà possibile porre sotto controllo la spesa pubblica e – al contempo - ricollocare l’economia italiana su un sentiero di crescita”. A tale fine, è però indispensabile che gli interventi proposti siano accompagnati da misure strutturali di sostegno alla crescita, da operazioni di riqualificazione della spesa pubblica intese a rilanciare gli investimenti pubblici in ricerca e infrastrutture, da incentivi agli investimenti privati in innovazione e infrastrutture, in modo da agire anche dal lato del denominatore (crescita del Pil). E’ inoltre importante – sottolinea il documento che la riforma del patrimonio pubblico sia realizzata non solo con il fine di “fare cassa” per ridurre il debito pubblico. Si tratta infatti di un’occasione storica per riordinare i beni pubblici, diminuirne i costi ed aumentarne i rendimenti e per avviare iniziative a favore di una migliore gestione del territorio e delle nostre città. Fra l’altro, ciò produrrebbe un effetto di volano a favore della crescita economica con la messa in atto di iniziative per la valorizzazione dei beni.
È necessario che il progetto perseguito sia ben definito e “blindato” e che sia il risultato di una scelta politica non solo di questo governo ma del Paese intero, in modo che la sua realizzazione possa proseguire secondo i piani, anche aldilà dei cambi di governo. Ciò essenzialmente per due ragioni. La prima è che i vari enti proprietari dei beni hanno, in generale, scarso interesse a dismetterli. Talvolta i beni stessi sono la ragione della esistenza di tali enti di gestione che, in molti casi, sono vere e proprie “riserve indiane”. Le forze, che non vogliono che un processo del tipo di quello sopra descritto venga avviato, sono già al lavoro con la tecnica tipica di una certa burocrazia: quella del rinvio o delle soluzioni complesse. Il ricorso a soluzioni complesse (e all’allungamento dei tempi) diventa la trappola grazie alla quale le cose non si fanno. La seconda ragione è che, senza il lavoro preliminare di pianificazione e di attuazione da parte di una taskforce dotata di “poteri straordinari”, il processo non sarebbe in grado di raggiungere gli obbiettivi posti.
“Pareggio di bilancio” e privatizzazioni
Nel quadro del Fiscal Compact, l’Italia si è impegnata a raggiungere il pareggio di bilancio (in termini tecnici equilibrio strutturale di bilancio) nel 2013. Mentre la legislatura stava chiudendo è stata varata la legge costituzionale rafforzata, Legge n 243 del 24 dicembre 2012 “Disposizioni per l’attuazione del principio di bilancio ai sensi dell’art. 81 sesto comma della Costituzione. I prossimi saranno il primo Governo ed il primo Parlamento della Repubblica vincolati non solo da trattati internazionali e leggi “rinforzate” di rango costituzionale ma anche da norme attuative approvate in articulo mortis dai loro predecessori. Secondo le stime della Commissione europea (Ce) e dei 20 istituti econometrici che costituiscono il gruppo del consensus (tutti privati, nessuno italiano), i conti pubblici italiani del 2012 si chiudono con una contrazione del 2,4% del Pil ed indebitamento delle pubbliche amministrazioni pari al 3% del Pil. Per il 2013: la Ce prevede, per l’Italia, un disavanzo “strutturale” del 0,4% ed il consensus ne stima uno dello 0,9%. Il Governo uscente ha sottolineato che il disavanzo “strutturale” verrà curato da misure quali quelle della spending review. La stima del consensus , qui riportata, è la media aritmetica di una gamma piuttosto ampia di previsioni: alcuni dei 20 istituti stimano un disavanzo pari allo 0,5% (o anche inferiore), altri all’1% (o anche di più). Se si esaminano stime econometriche a 24 mesi, prodotte da quasi tutti gli istituti del consensus, il disavanzo si aggirerebbe attorno all’1,5% sino al terzo trimestre 2014. Resterebbe, quindi, immutato rispetto al livello di fine 2012.
Tanto il Fiscal Compact quanto le norme italiane di ratifica, la legge costituzionale rafforzata e le  disposizioni attuative contemplano deroghe per eventi eccezionali che comportino scostamenti dall’obiettivo programmatico strutturale. Le deroghe sono essenzialmente quelle contemplate nel Protocollo interpretativo del Trattato di Maastricht concluso nel 2005, che servì a giustificare non solo gli scostamenti dei Piigs (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna – ancora non li si chiamava così) ma anche quelli, ben più importanti, di Francia e Germania. Riguardano azioni al di fuori dal controllo di Governo e Parlamento: catastrofi naturali, recessioni internazionali e via discorrendo. Le disposizioni attuative prevedono - come vedremo in seguito - un sistema di monitoraggio, l’istituzione di un Ufficio parlamentare di bilancio, una relazione del Governo al Parlamento su scostamenti e meccanismi di correzione. L’ultimo Bollettino della Banca d’Italia (Banche d’Italia, 2013) conferma queste indicazioni. I risultati dell’analisi del servizio studi di Via Nazionale e del mio lavoro artigianale sono pressoché identici: nel 2013 non si raggiungerà alcun pareggio di bilancio; per tentare di avvicinarvisi occorre una manovra primaverile che secondo i calcoli che si evincono dal Bollettino dovrebbe essere di 7 miliardi di euro e secondo i miei di dieci. In ambedue le ipotesi, la manovra dovrebbe essere effettuata appena il nuovo governo è insediato sempre che si voglia rispettare l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013. Quanto più tardi la si mette in atto, tanto più salato sarà il conto: se si aspetta l’assestamento di bilancio estivo, i miei computi giungono ad almeno 13 miliardi.
Soffermiamoci ora sul punto centrale: con tutti i suoi limiti, l’econometria ci dice che l’equilibrio strutturale di bilancio è un obiettivo scarsamente realizzabile, anche nell’eventualità di un Governo saldo ed orientato verso l’Europa (nonché deciso a portare “più Europa” in Italia). Al momento in cui viene scritto questo capitolo, i risultati delle elezioni non danno adito a prevedere un Governo con una larga e solida maggioranza parlamentare.
Veniamo adesso a due delle “disposizioni” specifiche per raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 e mantenerlo negli anni successivi nella normativa varato il 24 dicembre 2012: a) il monitoraggio del Mef sull’andamento dei conti ed il rapporto del Ministro al Parlamento su eventuali correzioni degli scostamenti; b) la creazione di un organismo indipendente per l’analisi e la verifica degli andamenti di finanza pubblica e per la valutazione dell’osservanza delle regole di bilancio. È verosimile che nella primavera-estate dell’anno in corso il nuovo Ministro debba, appena insediato, predisporre una proposta di “correzione”. Facile congetturare che l’aggiustamento, ove necessario, dovrebbe essere dal lato della spesa poiché proprio in quelle settimane ci sarà un aumento dell’Iva; ulteriori incrementi del carico tributario avrebbero un effetto recessivo in un’economia probabilmente non ancora in ripresa.
Il nuovo organismo verrà creato dal prossimo Parlamento e quindi non potrà incidere sul 2013. È stata concepita una costruzione istituzionale accurata perché i Presidenti delle due Camere nominino persone di grande autorevolezza. Il Presidente e i due componenti dell’organismo devono essere scelti in un elenco di dieci specialisti di finanza pubblica approvato dalle Commissioni Bilancio dei due rami del Parlamento con una maggioranza di due terzi. Hanno un mandato di sei anni non rinnovabile e sono coadiuvati da uno staff di trenta persone. Ci sono guarentigie per rendere difficili lottizzazioni in base alla appartenenza a questo o a quello schieramento. Molto dipenderà dai regolamenti attuativi e dalla selezione dei componenti dell’organismo e del loro staff.
Di solito, organismi di questa natura sono efficaci se – come nei regimi presidenziali – esecutivo e Parlamento hanno legittimazioni elettorali differenti non quando – come nei regimi parlamentari – il governo è espressione delle Camere. Forniscono un supporto tecnico a Parlamenti giustapposti a Governi (che hanno a loro disposizione i dicasteri). Tale supporto è meno necessario se l’Esecutivo è emanazione del Parlamento e le Camere hanno pieno accesso alle strutture “serventi” il Governo. Nell’ultimo decennio sono stati creati organismi analoghi (con mandati leggermente differenti) in alcune democrazie parlamentari (Gran Bretagna, Belgio, Danimarca, Olanda, Svezia). Nel 2011 sono stati istituiti Fiscal Councils in Irlanda e Portogallo nell’ambito dei programmi di riassetto definiti con l’Unione europea. È troppo breve l’esperienza di questi Councils per trarne conclusioni. L’Office for Budget Responsibility britannico è forse il più simile all’organismo che si sta creando in Italia. Il suo direttore sottolinea che i suoi (frequenti) interventi pubblici riescono a rendere maggiormente trasparenti le scelte di bilancio ma non ad incidere sui loro contenuti.
L’obiettivo del “pareggio”, o “equilibrio strutturale”, di bilancio dovrebbe essere il grimaldello per dare avvio, nella XVII Legislatura (se dura più dello ‘ spazio di un mattino’  ad una politica di sviluppo che abbia come suo elemento una nuova stagione di privatizzazioni e liberalizzazioni (specialmente a livello locale) seguendo, ad esempio, le linee del recente Liberare l’Italia (IBL, 2013) e nel precedente Manuale per le Riforme della XVI Legislatura, predisposto dall’Istituto Bruno Leoni (IBL, 2008) e nei ‘Rapporti’ annuali di Società Libera.


Riferimenti
Astrid - Le proposte per la riduzione dello stock del debito pubblico: pregi e difetti, Roma 2012.
Banca d’Italia - Bollettino Economico n.1 2013.
Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro - Lo stock del debito pubblico si può abbattere con misure straordinarie? Cnel, 2012.
Istituto Bruno Leoni- Manuale per le Riforme della XVI Legislatura, IBL Libri, Milano 2008.
 Istituto Bruno Leoni - Liberare l’Italia IBL Libri, Milano 2013
Pedone A. (a cura di) - Debito Pubblico e Riforma Tributaria, I quaderni di Economia Italiana, settembre 2011.
Reinhart C, Rogoff K. (2011) - This Time is Different; Eight Century of Financial Folly, Princeton University Press, Princeton N.J, 2011.
Savona P. - Eresie, Esorcismi e Scelte Giuste per Uscire dalla Crisi: il Caso Italia, Rubettino, Saveria Manelli, 2012.
World Bank - World Development Report 2013: Jobs, Banca mondiale, Washington DC, 2013.


[1] Tradizionalmente, ci sono principalmente tre modi per curarla (in via temporanea o permanente):
a)            ristrutturazione e consolidamento. È la strada seguita più frequentemente dai “sovrani” non solo per la componente estera ma per il totale. La storia è costellata da consolidamenti di successo da quella di Nerone nel 64 d.C. a quella di De Gaulle nel 1958 a quella di Gorbaciov nel 1987. Tutte e tre sono state accompagnate da forti programmi di liberalizzazione all’interno e sull’estero. In Italia, i mercati hanno esplicitamente chiesto un consolidamento nell’estate 1992. Non venne attuata per non urtare il “popolo dei Bot”;  il 17 settembre 1992 la lira venne deprezzata del 30%, urtando i “Bot people” e tutti gli altri. Saremmo entrati nell’unione monetaria con uno stock di debito più sostenibile. La storia economica non ricorda consolidamenti/ristrutturazioni di debito pubblico da parte di un solo Stato all’interno di un’unione monetaria: quando ciò venne tentato (in unione monetarie dell’Africa orientale e dell’Estremo Oriente in tempi relativamente recente) saltarono monete uniche e i loro annessi e connessi.
b)           Maxi-inflazione. Altra via frequentemente battuta. In Italia la perseguì il liberale Einaudi, portando, nel lasso di pochi anni, lo stock di debito pubblico dal 120% al 24% ed aprendo la porta a un quarto di secolo di sviluppo. Lo stesso Einaudi scrisse, con il senno del poi, che sarebbe stato “più equo” attuare una manovra di “finanza straordinaria” (ad esempio, un’imposta patrimoniale). Adesso, la maxi-inflazione non ci è permessa dagli statuti Bce e il solo sentore di una patrimoniale non tanto darebbe la esca a fughe di capitali ma verrebbe letta dai mercati come il preludio di una bancarotta (vedi Islanda ed Irlanda).
c)            Forte crescita economica. È il percorso perseguito con successo dai governi (sia Tory sia laburisti) dal 1945 al 1955: la loro moneta, però, era il fulcro dell’area della sterlina (e la Bank of England non doveva condividere con l’ottantina di altri soci dell’area le proprie strategie), la forza lavoro era giovane, la popolazione entusiasta per la vittoria. In Italia, il debito frena il Pil, la denatalità ha causato un profilo demografico anziano, le imprese faticano sui mercati mondiali e non si respira entusiasmo.

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