domenica 19 maggio 2013

«Le fabbriche dell’opera» producono sempre meno in Avvenire 19 maggio



«Le fabbriche dell’opera» producono sempre meno


DI GIUSEPPE PENNISI N el fascicolo appena giunto in edicola del mensile Classic Voice, Mauro Bale­strazzi traccia un quadro detta­gliato (9 pagine del periodico, cor­redate da tabelle) della situazione delle fondazioni liriche italiane sot­to il profilo della produzione, dei bilanci consuntivi, degli abbona­menti, degli spettatori paganti e raffronta le nostre “fabbriche del­l’opera” con un campione di ana­loghi enti stranieri. Il raffronto è in­quietante: i nostri due teatri che, in termini di “alzate di sipario” e di ti­toli, producono di più (La Scala e il Teatro dell’Opera di Roma) sono a livelli marcatamente inferiori (cir­ca del 30%) del campione di raf­fronto che include teatri non solo di città grandi (come Berlino, Pa­rigi e Londra) ma anche medie co­me Zurigo con i suoi 360.000 abi­tanti. In Italia, La Fenice starebbe superando la Scala (come enfatiz­zato nel titolo) in termini di pro­duzione e qualità (i Premi ottenu­ti) ma soprattutto molte fondazio­ni rischiano di essere trasformate in “teatri di tradizione”. Il Teatro Co­munale di Bologna, di cui il 14 maggio si sono celebrati i 250 an­ni dall’apertura, è tra gli enti a ri­schio.

L’analisi non trae le conseguenze in termini di politica del settore. Molte misure da prendere sono mi­croeconomiche e gestionali ma possono essere indirizzate dalla politica. Sarebbe sufficiente un de­creto ministeriale che prevedesse accesso al Fus (Fondo unico per lo spettacolo), unicamente se il 70% della programmazione è in co-pro­duzione. In una Italia fatta a Stiva­le, è più facile spostare gli spetta­coli che il pubblico. Il costo di sce­ne e costumi è appena il 5% di un allestimento ma in Italia i cachet degli artisti sono mediamente il doppio di quelli nel resto d’Euro­pa e negli Usa perché vengono scritturati per poche (4-6) rappre­sentazioni; sarebbero molto più bassi se tramite una politica di co­produzioni venissero scritturati per replicare lo stesso lavoro in vari tea­tri 25 -30  volte. Inoltre, si dovrebbe prevedere una “premialità”, ana­loga a quella dei fondi europei: le fondazioni che chiudono i conti in attivo e hanno attuato una buona programmazione (in termini di numeri e qualità di spettacoli, qua­li valutati dalla critica italiana e straniera) dovrebbero ricevere u­na dotazione aggiuntiva l’esercizio successivo. Soprattutto occorre promuovere il ricambio del pub­blico attirando i giovani, come sta facendo egregiamente l’AsLiCo di Como che, in co-produzione con teatri francesi e tedeschi, porta in una trentina di città un Olandese Volante di Wagner in edizioni per bambini, adolescenti e ragazzi.

Perché ciò funzioni sono essenzia­li quelli che gli economisti chia­mano incentivi a basso ed a alto potenziale. I primi operano nel lungo termine come il migliora­mento dell’istruzione musicale nelle scuole (e in famiglia): la Rai (finanziata con il canone) dovreb­be tornare a svolgere un ruolo in questo campo. I secondi, invece, operano rapidamente. Il regola­mento approvato dal governo ne prevede uno molto forte, ma “ne­gativo”; il declassamento (a teatri “di tradizione”) delle fondazioni che non chiudono il bilancio al­meno in pareggio. Occorre affian­carlo con uno “positivo”: una revi­sione degli sgravi tributari (attual­mente una detrazione del 19%) per le elargizioni liberali per portarle alla media europea (30%) ove non necessariamente al livello della Francia (60%).

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