martedì 31 dicembre 2013

Fiscal compact, ecco costi e benefici del referendum in Formiche del 31 dicembre



Fiscal compact, ecco costi e benefici del referendum
31 - 12 - 2013Giuseppe Pennisi Fiscal compact, ecco costi e benefici del referendum
Dopo il giornalista e scrittore Stefano Cingolani, anche l'economista Giuseppe Pennisi commenta la proposta del professor Gustavo Piga per un referendum sul Fiscal Compact lanciata su Formiche.net e che sarà illustrata il 10 gennaio. Pennisi spiega che...
Su Formiche.net, Gustavo Piga ha aperto un dibattito sul Fiscal Compact proponendo un referendum. Accantoniamo per il momento i complessi aspetti giuridici: il nostro ordinamento prevede unicamente referendum abrogativi; si tratterebbe di abrogare la legge costituzionale del 20 aprile 2012 sul pareggio di bilancio e la legge ordinaria rinforzata di attuazione della norma costituzionale. Accantoniamo pure le difficoltà organizzative pratiche della raccolta delle firme; gli ultimi tentativi referendari non sono andati a buon fine e toccavano temi molto più vicini, e soprattutto molto più eloquenti, per la grande maggioranza degli italiani (di cui solo una sparuta minoranza sa cosa si intende per Fiscal Compact).
DI COSA SI TRATTA
Cerchiamo, invece, di spiegare di cosa di tratta e di individuare i costi
ed i benefici per la collettività. In primo luogo, il Fiscal Compact è un accordo intergovernativo che stabilisce tempi e tracciati specifici perché gli Stati firmatari raggiungano (e mantengano) il pareggio di bilancio e riducano il debito pubblico al 60% del Pil. Secondo l’ultimo Consiglio UE verrebbe rafforzato da “contratti” individuali di ciascun Stato (con tutti gli altri) sulle modalità puntuali. Già il Trattato di Maastricht prevedeva, oltre vent’anni fa, pareggio di bilancio ed un tetto del 60% al rapporto tra debito pubblico e Pil. Nella primavera 2005 è stato “interpretato” a larghe maglie, con un “protocollo intergovernativo” reso necessario dal fatto che due dei maggiori azionisti dell’Eurozona (Francia e Germania) avevano travalicato il tetto del 3% del Pil come limite all’indebitamento delle pubbliche amministrazioni. La crisi in atto dal 2007-2008 ha dilatato spesa e debito pubblico in quasi tutti gli Stati dell’Eurozona per salvataggi bancari e industriali, ammortizzatori sociali e tentativi di rilanciare l’economia. In questo contesto, il Fiscal Compact si presenta un tentativo di serrare i freni. Tutti gli Stati dell’Eurozona hanno aderito ma non tutti gli Stati dell’Unione Europea (UE).
UNA SPIRALE PERICOLOSA
Se applicato alla lettera (e il “contratto” individuale dell’Italia specificherà in effetti la strategia di finanza pubblica per i prossimi vent’anni), il Fiscal Compact non potrà non avere implicazioni deflazionistiche e comportare, ogni anno, tagli alla spesa ed aumenti delle entrate per complessivi 50 miliardi di euro circa. Nel tentativo di ridurre lo stock di debito pubblico, si ridurrebbe ulteriormente il Pil aumentando quindi il rapporto tra stock e debito. È una spirale da film dell’orrore.
L’ERRORE DELL’ITALIA
Occorre chiedersi perché l’Italia ha firmato il Fiscal Compact. Chi ha partecipato al negoziato sostiene che l’allora Presidente del Consiglio e Ministro dell’Economia Mario Monti ed il Ministro per gli Affari europei Enzo Moavero pensavano ad uno “scambio politico”: ottenere la golden rule (ossia l’esenzione dal computo del disavanzo e del debito) per l’investimento pubblico. Non ebbero nulla non tanto perché la Germania o altri Stati “nordici” eressero una barriera ma per l’opposizione netta dei loro ex-colleghi della Commissione Europea (CE) i quali sostenevano che manca una definizione univoca di cosa è una spesa in conto capitale per investimenti. Non ne furono lieti ma non mostrarono neanche eccessivo disappunto da porre il pugno sul tavolo. Anzi, pare che la filosofia fosse: beggars cannot be choosy, chi mendica non può essere selettivo.
COSA FARE OGGI
Il problema è cosa fare adesso. Dopo il Consiglio Europeo del 19-20 dicembre un referendum può comportare il rischio di un attacco dei mercati internazionali all’Italia poiché, come ricordato su Formiche.net del 21 dicembre l’intesa sull’Unione bancaria comporta una fragile rete di sicurezza (a carico delle banche non dei contribuenti) durante i dieci di periodo transitorio per la costituzione del “fondo di risoluzione” (da attivare in caso di crisi che comportino il fallimento di istituti tali da avere ripercussioni europee). Avere previsto un percorso di dieci anni per costituire il fondo deve, però, apparire credibile non ai Ministri, ed ai barracuda-esperti che li accompagnano, ma ai milioni di operatori che comprano e vendono valute sui mercati. Già nell’inverno 1991-92, venne definito, con il Trattato di Maastricht un percorso a tappe per entrare nella (allora nuova) moneta unica. I mercati pensarono, a torto od a ragione, che alcuni Stati firmatari non ce la avrebbero fatta; l’esito fu la crisi dell’estate-autunno 1992. Ricordiamo che poche ore dopo l’intesa sull’Unione bancaria, il MIT ha diramato due lavori di economisti di rango e di differenti estrazioni culturali (del primo, Working Paper No. 13-22, sono autori Daron Acemoglu, Simon Johnson, Amir Kermanu, James Kwak e Todd Mitton; del secondo, Working Paper No. 13 -23, Rajit Sehti e Mohamed Yildiz) che, sulla base di esperienze concrete il primo e di analisi teorica, mostrano come la “neurofinanza” abbia un ruolo preponderante (molto più importante di quello dei Ministri) nel far sì che milioni di operatori giudichino su un’intesa terrà o meno. In parole povere, il fatto stesso di lanciare un referendum abrogativo nei confronti di una legge costituzionale, e di una legge ordinaria “rafforzata”, può indurre i mercati a credere, come nell’agosto-settembre 1992, che l’Italia fa promesse da mercante e non ce la fa stare al gioco. Scatenando un attacco ai nostri titoli. I costi dell’operazione eccederebbero di gran lunga i benefici.
Sarebbe preferibile, come sostenuto su Formiche.net del 14 ottobre, smetterla di ritoccare il Trattato di Maastricht a pezzi e bocconi e proporre una revisione complessiva dell’Unione monetaria.
Ma il Governo Letta ha la forza di chiederlo? Se, come sembra, sarà ancora in carica nel secondo semestre 2014, quando l’Italia ha il turno di presidenza degli organi collegiali UE.

Il lago dei cigni, o quello dei debiti: ecco il problema del Teatro dell'Opera di Roma in Il Sussidiario 31 dicembre



IL CASO/ Il lago dei cigni, o quello dei debiti: ecco il problema del Teatro dell'Opera di Roma
Pubblicazione: martedì 31 dicembre 2013
Il balletto del teatro dell'Opera di Roma Il balletto del teatro dell'Opera di Roma
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NEWS ROMA
Al Teatro dell’Opera di Roma è in scena sino al 16 gennaio Il Lago dei Cigni. Come vedremo in seguito non è il consueto spettacolo per le feste sia perché si tratta di un nuovo allestimento sia perché qualche sera l’orchestra è sostituita da un nastro registrato a ragione dello stato d’agitazione– l’unico teatro, pare, che non rispetta la regola secondo cui uno sciopero deve essere annunciato on 24 ore di anticipo e non può avere luogo nel periodo delle Festività. Sfidano il rischio di maximulte.

Quali le cause dell’agitazione dopo quattro anni di calma nella fondazione lirica romana? Il Consiglio d’Amministrazione  (CdA)  nominato quattro anni fa è scaduto, dopo avere presentato per tre esercizi finanziari bilanci in pareggio (od in leggero attivo). E’ stato rinnovato. Sino a qui tutto normale. O quasi. La Corte dei Conti, però, ha scoperto un ‘buco’ di 23 milioni a cui aggiungerne 7,5 nel preconsuntivo 2013. In breve, dopo il Maggio Musicale Fiorentino (circa 40 milioni di debiti), il Teatro dell’Opera di Roma è la fondazione lirica più inguagliata d’Italia (nonostante l’aumento di capitale – tramite la cessione del Teatro Nazionale – effettuato dalla precedente Amministrazione Comunale). Quindi i Cigni sono in un Lago di Debiti.

Dato che ho fatto parte per un quinquennio del Consiglio Nazionale dei Beni Culturali ed intrattengo ottimi rapporti con la dirigenza del dicastero, già all’inizio della scorsa primavera (prima dell’insediamento del Governo Letta e le elezioni del nuovo Sindaco) mi era giunta voce di serie difficoltà finanziarie della fondazione. L'ho fatte presente, ma sono stato smentito e rassicurato. Alla conferenza stampa per la presentazione della stagione 2013-2014 (a cui il Sindaco di Roma non ha preso parte) è stato annunciato un quarto esercizio in pareggio per il consuntivo 2013. Difficile comprendere come tra tanti pareggi presentati ed annunciati, si sia finiti in una situazione del genere. Non spetta ad un ‘chroniqueur’ che frequenta assiduamente dall’età di 12 anni (quindi da circa sessant’anni), condurre indagini in materia. Tanto più che le stanno già facendo gli organi preposti e pare siano imminenti ‘azioni di responsabilità’ nei confronti del precedente CdA. Andiamo brevemente al Lago dei Cigni prima di vedere quali sono le prospettive per il Teatro

L’edizione proposta, con la coreografia e le scene di Maurice Bart ,basato, solo in parte, sul lavoro Marius Petipa e Lev Ivanov è un nuovo allestimento che sostituisce quello che si è replicato quasi ogni anno dal 2003 al 2011. Di norma si pensa che ‘Il Lago dei Cigni’ è uno spettacolo per bambini. Invece, pur basato su un’antica fiaba russa, la partitura Petr Ilic Ciajkovskij è ambigua, sensuale e morboso. Il balletto composto quando l’autore, consapevole della propria omosessualità (e di quella di suo fratello), per celarla si sposò. Un matrimonio breve che terminò con il ricovero in manicomio della moglie e innescò la serie di eventi che portarono al suo suicidio (più o meno volontario) nel 1893, proprio mentre “Il Lago dei Cigni” stava gustando il successo meritato. Alcuni elementi di questo dramma si colgono nell’interazione tra il protagonista, il principe Siegfried, ed il suo miglior amico Benno, nonché nella Regina protettiva che fa di tutto per spingere il figlio al matrimonio ma resta desolatamente sola nell’ultimo quadro. In questo allestimento, invece, siamo in un mondo dal cielo grigio: con un abile gioco di luci e di scene dipinte il Palazzo si trasforma in riva (ed anche fondo) del lago. Il marrone domina l’impianto scenico, un marrone limaccioso che indica eloquentemente i contrasti interiori del compositore.
Molto bravi i quattro protagonisti: Anna Tsyganova, Mikhail Kaniskin, Gaia Straccamore, Manuel Parruccini. Efficaci i numerosissimi ruoli minori e il corpo di ballo. Lo spettacolo piace. Impeccabile la bacchetta di Andriy Yurkevich. La sua bacchetta pare impeccabile, tranne qualche tono bandistico all’inizio della seconda parte e diligente. Ha, però, fatto emergere bene la triade “Si bemolle-Re-Fa”, associata alle forze del male, e la triade “Si-Fa diesis-Do diesis”, associata, invece, al tema della morte e resurrezione, dando loro il macero e morboso che meglio avrebbe rispecchiato il dramma di una partitura che rispecchia una tragedia interiore.

L’edizione del Lago dei Cigni nel Lago dei Debiti, induce ad alcune considerazioni per il lungo periodo.

In primo luogo, il corpo di ballo e le étoiles del Teatro dell’Opera hanno un costo di 10 milioni l’anno (sui circa 50 totali). Attualmente, presentano tre ‘grandi’ balletti l’anno (due nella stagione invernale ed uno in estate alle Terme di Caracalla) ed una serie di piccoli spettacoli. Dato che una domanda per questo tipo di spettacolo dal vivo c’è (come mostrato dal pullulare di compagnie private, ospitate a Roma in tre teatri), e dato che le fondazioni liriche di Napoli, Palermo, Firenze sono rimaste con tronconi di corpo di ballo (ed altre non ne hanno punto), non è caso di pensare ad un Balletto Nazionale , scorporato dal Teatro dell’Opera ma che operi oltre che a Roma in tutta Italia (come il Royal Ballet britannico e l’American Ballet americano) servendo altri teatri?

In secondo luogo, tenendo presente i disagi fisici dell’attuale sede principale, e non potendosi certo pensare alla costruzione di uno nuovo, non si dovrebbe pensare, per aumentare la produttività, di aumentare le produzioni di repertorio con scene dipinte o proiettate (non costruite) come fanno gran parte dei teatri tedeschi, francesi ed americani?

In terzo luogo, dati i costi delle nuove produzioni – ci si accinge a presentare per soltanto sei sere un nuovo allestimento di Manon Lescaut che, a quel che si sa, non andrà in altri teatri- perché non adottare la prassi, ad esempio del Metropolitan di New York, che nuovi allestimenti possono essere concepiti unicamente se almeno altri tre teatri ne dividono le spese?

In quarto luogo, in quante opere è necessario un coro di 85 cantanti (ed uno di voci bianche) ed un’orchestra di oltre 90 elementi? Sono organici che non hanno i due maggiori teatri di Berlino (che offrono ciascuno almeno cinque recite la settimana, non sei-dieci al mese). Non si tratta di licenziare nessuno, ma di tenere la barra ferma sul blocco al turnover per alcuni anni sino a giungere a dimensioni più ragionevoli.

In quinto luogo, perché non aprire il Teatro alla commedia musicale e se del caso pure ai concerti pop e rock per farlo conoscere alle nuove generazioni? Perché non attuare, come il Regio di Torino ed altri teatri, una last minute policy ? Meglio vendere biglietti a 15 euro ciascuno che vedere file vuote.

Queste non sono che poche idee. Molte altre ce ne vorranno per giungere a risultati adeguati.


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lunedì 30 dicembre 2013

Quale concerto scegliere a Capodanno in Formiche del 30 dicembre



Quale concerto scegliere a Capodanno

30 - 12 - 2013Giuseppe Pennisi Quale concerto scegliere a Capodanno
Se ancora non si è organizzata la serata e si vuole ascoltare buona musica, quale concerto scegliere per il Capodanno? Non ho dubbi: quello in programma a La Fenice, giunto all’undicesima edizione, l’unico in Europa che rivaleggia con il concerto del Musikverein di Vienna. Se non si trovano biglietti per ascoltarlo dal vivo, andando nella città lagunare, ci pensa Rai1 che lo trasmette in diretta (viene replicato quattro volte) mercoledì primo gennaio 2014 alle 11.15. E’ una tradizione iniziata quando il musicologo Pietro Acquafredda (Conservatorio ‘Casella’ de L’Aquila) collaborava con la Rai. L’idea sembrava banale: nella città scelta negli Anni Trenta per rivaleggiare, con un festival mondiale di musica contemporanea, con Salisburgo, perché non sfidare Vienna?
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La sfida ha avuto successo in quanto adesso il concerto è trasmesso in diretta, non solo da Rai 1, ma anche da Arte, ZDF, WDR, Radio France e da varie emittenti dell’Europa dell’Est, con inserti danzati dall’étoile dell’Opéra di Parigi Eleonora Abbagnato (la sigla di testa, coreografia di Nicolas Le Riche sull’intermezzo dai Gioielli della Madonna di Ermanno Wolf-Ferrari) e dai primi ballerini e solisti del Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma (due coreografie di Micha van Hoecke sul Valzer brillante di Giuseppe Verdi e Nino Rota e sull’Intermezzo da Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni). Il concerto sarà anche pubblicato in DVD a cura di ArtHaus Musik (una delle migliori case discografiche con distribuzione internazionale).
IL MODELLO LA FENICE
L’evento è particolarmente importante in una fase in cui la metà delle fondazioni liriche sta per chiedere accesso al fondo recentemente creato per risolvere problemi finanziari. Accesso al fondo, che comporta ristrutturazione dei teatri, una riduzione del 50% circa del personale tecnico-amministrativo, sospensione dei contratti integrativi ma soprattutto differenti di modalità di gestione imperniate sul semi-repertorio e sulle coproduzioni. In breve, seguire il modello La Fenice in testa nella classifiche del mensile Classic Voice per produttività, efficienza e qualità. Proprio in questi giorni esce un volume (Alberto Triola Giulio Gatti Casazza – Una Vita per l’Opera- Dalla Scala al Metropolitan, il primo manager dell’Opera-Zecchini Editore € 33) che dovrebbe essere letto da tutti i manager. A La Fenice lo hanno letto e metabolizzato; per questo il teatro viene considerato uno dei più efficienti in Europa.
IL CONCERTO
Ma veniamo al concerto. Il ventinovenne maestro venezuelano Diego Matheuz, direttore principale della Fondazione Teatro La Fenice dal luglio 2011 e già applauditissimo protagonista dell’edizione 2011-2012, sarà sul podio. Accanto a lui il soprano Carmen Giannattasio e il tenore americano Lawrence Brownlee, tra i più apprezzati interpreti internazionali del repertorio belcantistico.
La prima parte del concerto sarà, come d’abitudine, esclusivamente orchestrale, con l’Orchestra del Teatro La Fenice impegnata nella Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92 di Ludwig van Beethoven. La seconda parte, che vedrà anche la partecipazione dei solisti e del coro, si aprirà con l’Allegro vivace dall’Ouverture del Guillaume Tell di Rossini e con il Valzer brillante di Giuseppe Verdi nella trascrizione orchestrale di Nino Rota per la colonna sonora del Gattopardo di Luchino Visconti.
Seguirà la cavatina «Casta diva» da Norma di Vincenzo Bellini e la romanza «Una furtiva lagrima» dall’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti, interpretate rispettivamente da Carmen Giannattasio (col coro) e da Lawrence Brownlee. L’orchestra eseguirà quindi la spumeggiante Canzone napoletana op. 63 che Nikolaj Rimskij-Korsakov trasse nel 1907 da Funiculì funiculà di Luigi Denza, seguita da altri due brani solistici: l’assolo di Tosca «Vissi d’arte» dall’opera di Giacomo Puccini e la romanza Mattinata di Ruggero Leoncavallo, scritta nel 1904 per Enrico Caruso.
Dopo un altro brano orchestrale, l’Intermezzo sinfonico da Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni, Carmen Giannattasio e Lawrence Brownlee si riuniranno nella scena dell’addio nel primo quadro del secondo atto della Traviata di Giuseppe Verdi conclusa dal celeberrimo «Amami, Alfredo». Il conceto si concluderà , come è tradizione, con il coro «Va’ pensiero» dal Nabucco e il brindisi «Libiam ne’ lieti calici» dalla Traviata.
Concerto 2013
Diego Matheuz
Concerto 2013
Concerto di Capodanno 2012
Concerto di Capodanno 2012
Diego Matheuz

domenica 29 dicembre 2013

2014, la guerra (economica) che può scoppiare nell'Ue in Il Sussidiario del 30 dicembre



FINANZA/ 2014, la guerra (economica) che può scoppiare nell'Ue

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Il vostro chroniqueur è quello che in inglese viene chiamato un contrarian. Non partecipa a “cori a cappella” e ha spesso punti di vista differenti, ove non divergenti, da quelli della grande maggioranza degli editorialisti. Per questo motivo, all’avvicinarsi del nuovo anno 2014, non brinda alla serenità e alla ripresa. Nell’Unione europea, e in particolare nell’eurozona, suonerebbe beffardo un peana alla serenità, dato che il un tasso di disoccupazione, in senso stretto, nell’area dell’euro è pari a oltre il 12% delle forze di lavoro, e giunge al 15% se si aggiungono coloro, in età da lavoro, che scoraggiati hanno smesso di cercare un’occupazione. Ancora più fuori luogo sarebbe stappare champagne per una ripresa che nell’area dell’euro vuol dire (secondo le più recenti stime dei 20 maggiori istituti econometrici mondiali) passare da una crescita del Pil del -0,4% nel 2013 a una del +0,3% nel 2014. Non solo il +0,3% è caratterizzato da alta volatilità (basterebbe una leggera flessione in Nord Europa per tornare a un tasso negativo per l’intera area) e anche da un continuo gap tra il settentrione e il meridione dell’eurozona.
Gli italiani non nutrano illusioni: nella migliore delle ipotesi chiuderemo il 2014 con un Pil identico a quello del 2013 e occorrerà pazientare sino al 2024 per tornare a un reddito pro-capite ai livelli di quello del 2007. Sempre che tutto vada bene. A tal fine, occorre ricordare (con angoscia) che il 2014 è l’anno del centenario dell’inizio della Prima guerra mondiale. Pochi anni prima, secondo Kevin O’Rourke, uno dei migliori storici economici di quel periodo, si era chiusa la grande fase d’integrazione economica internazionale 1870-1910, con cenni (peraltro poco notati) di ripresa del protezionismo commerciale, ma pochi pensavano che si stava per aprire un difficile “secolo breve” e un ancor più duro “secolo crudele” caratterizzato da guerre e stermini resi possibili proprio dalla tecnologia sottostante la globalizzazione 1870-1910.
Lo stesso giovane John Maynard Keynes, chiosando un libro di successo di Norman Angell, notava che il mondo (che contava) aveva raggiunto un livello tale di benessere (e un’integrazione così forte dei mercati finanziari) che in Europa una guerra sarebbe stata futile; ci sarebbero, al più, state guerre in lontani territori coloniali. Diversi anni dopo, un commediografo francese, Jean Giraudoux, mostrò la dinamica degli avvenimenti nella commedia La guerre de Troie n’aura pas lieu (“La guerra di Troia non si farà”), portata sulle scene in Italia unicamente da Diego Fabbri. Non solo greci e troiani, prosperi e molti simili, non avevano intenzione di prendere le armi, ma Paride, stanco e stufo di un’Elena leggermente ninfomane (e spesso sotto le lenzuola di uno o dell’altro tra i numerosi figli di Priamo), la aveva resa a Menelao, che se la era ripresa per evitare conflitti pur consapevole che non sarebbero mancate nuova corna, quando a un arciere che stava, stancamente, spolverando un arco partì una freccia: ci scappò un morto e dieci anni di guerra.
Non temo una guerra mondiale nel 2014, anche se pulluleranno quelle locali e il confronto in atto tra Cina e Coree, da un lato, e Giappone, dall’altro, non promette nulla di buono. Potrebbe, però esserci, una guerra economica nell’Ue in generale e nell’eurozona in particolare. Nel 1995-96, in due lavori distinti lo avevano preconizzato: uno di Martin Feldstein, Capo dei consiglieri economici nei primi anni Ottanta e per decenni Presidente (elettivo) del National Bureau of Economic Research, e l’altro di Alberto Alesina, Enrico Spolaore, e Romain Wacziarg. Alesina venne licenziato in tronco dal Tesoro dove faceva parte del Consiglio degli esperti del Direttore generale. I due lavori sostenevano che il Trattato di Maastricht era così mal congegnato che avrebbe provocato un aumento delle divergenze economiche e sociali nell’eurozona. Ciò avrebbe portato a un’implosione dell’Ue secondo Feldstein per guerre economiche che - secondo Alesina, Spolaore e Wacziarg - sarebbero anche potute essere armate.
A circa vent’anni distanza queste analisi non hanno perso attualità e validità, soprattutto se si tiene conto della “economia della paura” di cui scrive Paul Krugman: in Europa gran parte delle famiglie vive nella paura che uno dei congiunti perda il lavoro e che le nuove generazioni non abbiano mai accesso a un’occupazione regolare.
La Francia, potenza regionale in rapido declino, ma che ancora si illude di essere una “grande potenza” a livello mondiale, ha già scagliato i primi sassi frenando alla frontiera (in spregio al trattato di Schengen) immigranti sbarcati in Italia per ricongiungersi con le loro famiglie Oltralpe. Calpestando lo stesso Trattato di Roma, ha varato leggi secondo cui le televisioni e le sale cinematografiche debbano privilegiare la produzione nazionale. Sono prevedibili ritorsioni da altri paesi dell’area, dato che Parigi fa orecchie da mercante ai richiami della Commissione europea.
Il futuro ha molti tratti del passato. Buon anno (se potete).


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