giovedì 27 dicembre 2012

COMMERCIO MONDIALE: CONDIZIONI PER LA RIPRESA in Il Velino del 27 dicembre



COMMERCIO MONDIALE: CONDIZIONI PER LA RIPRESA
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Roma - Mesi fa, Il Velino è stata una delle rare testate a sottolineare l’importanza dell’incontro tra il Presidente del Consiglio Mario Monti ed il Direttore dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) Pascal Lamy; senza una forte ripresa dell’export mondiale è difficile preconizzare crescita in Europa, specialmente dei Paesi, come l’Italia, manifatturieri ed esportatori. Nel 2011 l’espansione degli scambi mondiali di merci è stata appena del 5 per cento, rispetto al 13 per cento dell’anno precedente.
È in corso una nuova ventata protezionistica attraverso l’Atlantico. Tale ventata rappresentata un’insidia non solo al completamento (con risultati anche solamente parziali della Doha Development Agenda, Dda - il negoziato commerciale multilaterale in seno all’Omc in corso dal novembre 2001) ma anche ad un’ulteriore liberalizzazione degli scambi mondiali. Minaccia di aprire la porta ad una nuova ondata di protezionismo. Non solo, il processo di de-globalizzazione inizierebbe dal gruppo dei Paesi ad alto reddito pro-capite, a struttura produttiva avanzata, ed a forte tecnologia. Ripetendo il copione di circa 100 anni fa, quando nel 1905, o giù di lì, terminò la lunga fase d’integrazione dell’economia internazionale (e di crescita dei redditi e dei commerci) cominciata attorno al 1870.

Negli Usa, l’attacco alla liberalizzazione degli scambi, all’Omc ed agli stessi accordi regionali (come il Nafta- il trattato di libero scambio tra gli Stati del Nord America) è stata al centro della campagna elettorale per le presidenziali. Ad aggiungere benzina sul fuoco, un’analisi dell’Economic Policy Institute , il “pensatoio” di Washington supportato dalle maggiori organizzazioni sindacali: un’analisi attribuisce alla liberalizzazione degli scambi avvenuta negli ultimi 40 anni (l’Omc ed il suo predecessore, il Gatt, hanno complessivamente 60 anni) non soltanto la perdita di posti di lavoro nel manifatturiero ma anche il divario salariale tra le fasce alte delle forze di lavoro ed i “working poor” (“i salariati poveri”). È una conclusione tendenziosa ed artata – lavori di Lawrence Katz dell’Università di Harvard quantizzano, da oltre un lustro, le determinanti del differenziale ed individuano la principale nelle storture di un sistema universitario in cui l’offerta di laureati in discipline scientifiche non tiene dietro alla domanda). In aggiunta, una ricerca del Peterson Institute of International Economics dimostra che l’aumento del commercio internazionale ha comportato un incremento di dieci punti percentuali al reddito nazionale americano nel periodo dalla fine della seconda guerra mondiale al 2006. Tuttavia, il neoprotezionismo plasma i programmi elettorali dei democratici e sino ad ora ha comportato una risposta complessivamente debole da parte dei repubblicani.

Più complesse le insidie provenienti dal Vecchio Continente. Esse si nascondono dove uno meno se lo aspetta e probabilmente anche per questo motivo non sono state notate né dagli europeisti più convinti né soprattutto dei “liberisti della Domenica”. Si annidano negli articoli di quel Trattato di Lisbona con l’intento di rilanciare il processo d’integrazione europea (dopo il fallimento del tentativo di redigere una magniloquente Costituzione). Per afferrarne l’importanza occorre fare un passo indietro di 60 anni, al Trattato di Roma che affidava, in via esclusiva, alla Commissione Europea i negoziati commerciali con il resto del mondo – non era un aspetto unicamente simbolico ma sostanziale poiché non si sarebbe potuto dare vita ad un mercato comune con una rete di accordi bilaterali tra i singoli Stati membri e gli altri. Naturalmente la posizione della Commissione doveva essere fondata su atti d’indirizzo del Consiglio dei Ministri Europeo che manteneva anche le competenze in materia di vigilanza (nei confronti dell’Esecutivo comunitario). Il Trattato di Lisbona mantiene le funzioni della Commissione in materia negoziale (su indirizzo del Consiglio) ma affida al Parlamento europeo il compito di approvare o respingere gli accordi commerciali conclusi dall’Esecutivo. Un parere legale dei servizi del Parlamento Europeo (peraltro ancora non pubblicato) parla di “riforma drastica” delle competenze (a favore dell’assemblea).

Fredric Erixon, che dirige lo European Center for International Political Economy, afferma che ciò renderà qualsiasi negoziato molto più complicato. Gli fa eco Rory Macrea di GPlus Europe: la politica commerciale rischia di diventare preda delle lobby , molto attive in seno al Parlamento Europeo, i parlamentari saranno comunque propensi a combattere per gli interessi delle singole aree in cui vengono eletti, ed a potere esercitare un diritto di veto nei riguardi della Commissione indebolendone il potere negoziale. E rendendola più incline ad ascoltare i protezionismi dei singoli settori o regioni dei 27 ed a cedere più facilmente a quelli altrui (avendo meno “titoli” da dare in cambio).

Come si concilia una posizione liberista e free trader con una certa apprensione rispetto al Parlamento (massima espressione della democrazia rappresentativa)? Da un lato, sotto il profilo teorico, la liberalizzazione degli scambi è un bene pubblico (non divisibile e non rivale), quindi non di mercato: fruiscono dei suoi benefici anche i protezionisti e tutti coloro che non la vogliono. La sua produzione, pertanto, deve essere assicurata in via monopolistica e tecnocratica. Da un altro, 60 anni di trattative multilaterali sugli scambi provano che i negoziatori devono avere pieni poteri perché l’esito sia positivo.
Con il protezionismo che si annida dai due lati dell’Atlantico si profilano tempi bui per l’integrazione economica internazionale. Eppure, proprio nell’attuale situazione di crisi, si possono tirare fuori dagli istituti di ricerca e porre al centro del dibattito politico, anche in Italia, proposte volte alla creazione di ‘grandi mercati comuni’ (quale l’area di libero scambio atlantico e la partnership transpacifica) che frenerebbero gli accordi bilaterali o regionali e, unitamente a ritocchi alla politica agricola comune, potrebbero porre la base per un’apertura degli scambi dei prodotti maggiormente commerciati.   (ilVelino/AGV)
(Giuseppe Pennisi) 27 Dicembre 2012 10:30

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