giovedì 30 agosto 2012

“DA QUI ALL’ETERNITÀ” ARRIVA ALL’OPERA in Il Velino 30 agosto


“DA QUI ALL’ETERNITÀ” ARRIVA ALL’OPERA

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Roma - Torna, di tanto in tanto in televisione, il film “Da qui all’eternità” di Fred Zinnemann del 1953, tratto dall’omonimo romanzo di James Jones del 1951. Il film ottenne otto premi Oscar. In effetti, pochi pensavano che dal romanzo di Jones si potesse trarre un film nell’America degli Anni Cinquanta. Il romanzo si svolge ad Honolulu, tra caserme e bordelli, nei giorni che precedono l’attacco giapponese a Pearl Harbour e durante la battaglia. È, quindi, più scabroso, nelle situazioni e nel linguaggio, di quanto consentito negli Stati Uniti in cui imperava ancora il codice Hays sulla pudicizia al cinema. Tanto il film quanto, ancor più, il romanzo sono fortemente anti-militaristi: il titolo viene da un verso di Kipling “da qui all’eternità, sempre condannato tu sei, o soldato”. Non so se Bernd Alois Zimmermann ha letto il romanzo, ma molto probabilmente ha visto il film. La sua opera “Die Soldaten”, in scena a Salisburgo e tra alcuni mesi alla Scala (che ne ha coprodotto l’allestimento) è fortemente anti-militarista, nonché forte e scabrosa ancora di più del libro di James Jones. Zimmermann (classe 1918) ha combattuto tutta la seconda guerra mondiale al fronte orientale (Polonia, Russia); l’esperienza lo ha traumatizzato per tutta la vita (che si tolse nel 1970 proprio a ridosso del più importante riconoscimento artistico- professionale).

Al debutto a Colonia nel 1968 “Die Soldaten” venne acclamato come una delle più importanti opere del Novecento. Nonostante fosse titolare della cattedra di composizione di una prestigiosa università, restò isolato nel mondo musicale tedesco in quanto distinto e distante dalla cultura costruttivistica - marxista dominante a Darmstadt. “Arrotondava” lo stipendio universitario componendo musica da film. Complesso il rapporto con l’Alto. Pare che, al fronte avesse perso la Fede, ma nel 1957 compose “Omnia Tempus Habet”, un grandioso oratorio, tratto dall’Ecclesiaste. Composto interamente a Roma all’Accademia Tedesca di Villa Massimo, esprime a pieno il tormento interiore suo e di una generazione. Tratto da un dramma in 34 quadri di Jacob Lenz pubblicato nel 1776, ma rappresentato per la prima volta al Burgteather di Vienna nel 1863, mostra la dissoluzione di una famiglia borghese a Lille, città di confine e, quindi, piena di caserme. Siamo in una fase di pace in uno dei tanti conflitti dell’epoca, ma per i “soldati” se non c’è un nemico da combattere, ci sono le donne da umiliare. In un mondo senza Dio, infatti, si è sempre in guerra.

In questo contesto, l’opera dipinge la tragedia di Maria, brava figliola di un commerciante, fidanzata ad un sarto, ma attratta da un ufficiale aristocratico, ceduta da costui ad altri (sia aristocratici sia stallieri sia soprattutto truppe affamate di donne) e portata alla prostituzione ed alle peggiori malattie, nonostante gli sforzi del cappellano dell’esercito e della madre di uno dei suoi amanti passeggeri di evitarle tale destino. Nel quadro finale, dopo una guerra nucleare, sono morti tutti i protagonisti tranne Marie e suo padre, che non la riconosce ma le da un’elemosina, mentre una voce dall’alto intona il “Pater Noster”. Difficile vedere come La Scala potrà riprodurre l’allestimento scenico della Felsereitschule, con uno smisurato boccascena in cui le varie azioni vengono, a volte, rappresentate contemporaneamente mentre nel fondo scena 12 destrieri (con soldati ed amazzoni) fanno esercizi da concorso ippico. A questo impianto scenico di Alvis Hermanis ed ai costumi di Eva Dessecker (non settecenteschi ma stile guerre mondiali del Novecento) corrispondono tre grandi orchestre , una in buca e due nei lati della cavea dirette di Ingo Metzamacher, specialista in repertorio contemporaneo. In buca prevalgono archi, fiati ed ottoni. Ai lati percussioni e strumenti a corda, dando forti effetti stereofonici. L’azione è veloce: i quattro atti sono divisi da un unico intervallo, che si sarebbe anche potuto evitare (l’opera dura meno di due ore) per non allentare la fortissima tensione. Impossibile citare anche solo i 12 protagonisti tra i 40 solisti. Tra tutti spicca l’ormai milanese Laura Aikin, un soprano americano che come poche ha saputo gestire bene la propria voce: iniziando da parti di coloratura ed approdando alla scrittura più impervia dove si declina il “do” in tutte le sue accezioni.   (ilVelino/AGV)
(Hans Sachs) 30 Agosto 2012 11:27

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