sabato 28 gennaio 2012

Per abbattere il debito pubblico bisogna fare un fondo ad hoc come in Germania in L'Occidentale 28 gennaio

Come rimettere in sesto le finanze pubbiche
Per abbattere il debito pubblico bisogna fare un fondo ad hoc come in Germania

Giuseppe Pennisi
28 Gennaio 2012

Il 26 gennaio si è volta a Palazzo Mezzanotte a Milano un’assemblea su come ridurre lo stock di debito pubblico. E’ un’iniziativa meritoria ma che, al pari delle notizie di stampa, su programmi che starebbe mettendo a punto il Ministero dell’Economia e delle Finanze va posta nel contesto appropriato.
In primo luogo, vale la pane parafare una celebre battuta di Tiwie, il protagonista della commedia musicale Fiddler on the Roof : “del debito (privato o pubblico che sia) non bisogna vergognarsi ma neanche esserne fieri”. Il debito pubblico italiano è senza dubbio una palla di piombo alla nostra finanza pubblica ed alle nostre potenzialità di crescita reale, ma proprio in questi giorni, giovani econometristi disputano le stime di Reinhart e Rogoff secondo cui il nostro debito rallenterebbe di un punto percentuale l’anno. Lo storia economica ci insegna che nei 150 dalla proclamazione del Regno d’Italia, in 111 anni il debito pubblico italiano ha superato il 60% del Pil ed in 54 il 100%. Ciò nonostante sino al 1990, quando demmo un cambio sovrapprezzato alla lira, siamo cresciuti gagliardamente. Quando abbiamo firmato il Trattato di Maastricht (imponendoci di portare lo stock di debito pubblico dal 120 al 60% e di non superare questo ultimo limite), né noi né gli altri sapevamo quel che facevamo. Forse il vino della Mosella aveva inebriato tutti coloro al tavolo della trattativa. Speriamo che non lo faccia la birra di Bruxelles “Stella” nel negoziato ora in corso.
In secondo luogo, i mercati non si aspettano un “taglia debito” ma politiche che facciano aumentare produttività e competitività e, quindi, rimetterci su un sentiero di crescita. In Italia, Einaudi portò, nel giro di tre anni, il debito pubblico dal 120% al 24% del Pil utilizzando, però, la più iniqua delle tasse (la maxinflazione) e la riforma monetaria; dopo meno di dieci anni il debito pubblico già superava il 60% del Pil. Nel 1992-93, Amato ridusse di un sol colpo del 10% lo stock di debito con una gamma di strumenti dalla patrimoniale sui conti correnti alla svalutazione: tre anni dopo eravamo al livello di prima poiché il Governo Ciampi ed il Parlamento sotto elezioni ridussero la morsa. Nel quadro di politiche per la produttività e la competitività, i mercati (e speriamo l’UE) si aspettano una riduzione del tasso d’interesse (che di per se stesso fa crescere il debito). Lo dicono a tutto tondo a PIMCO , il maggior trader mondiale in obbligazioni, anche nelle newsletter (a pagamento) ai propri iscritti. La stampa italiana ed i decision-maker dovrebbero leggerle con più frequenza ed attenzione.
Una possibilità concreta potrebbe essere un fondo per riscattare il debito, a bassi tassi d’interesse basato su esperienze fatte in America Latina (per alleviare il debito previdenziale) ed in Germania (per l’unificazione). In una nota al Cnel (di cui sono Consigliere) ho proposto un fondo con tre “sottostanti” (ossia attività reali e finanziarie a garanzia di nuovi titoli): a) parte del patrimonio immobiliare pubblico (come nella proposta governativa); b) parte del patrimonio immobiliare privato su base volontaria e in cambio di un’esenzione fiscale permanente da eventuali imposte patrimoniali (sempre che tali esenzioni siano credibili) ; e c) parte dei veri di gioielli di famiglia (Enel, Eni, Finmeccanica, Poste Italiane, Sace, St-Microelectronics, Terna, Poligrafico, Sogin, Inail). Rai, Ferrovie, Fincantieri e altre imprese da denazionalizzare non verrebbero incluse poiché non sono certo “gioielli di famiglia”, ma fardelli da rimettere in sesto o da liquidare.
Con un tale “sottostante” in garanzia, il fondo potrebbe emettere titoli a tassi molto bassi (quelli di sconto del Bce) per a) riscattare il debito pubblico e, in secondo ordine, b) finanziare investimenti a lungo termine di interesse collettivo. Il fondo sarebbe un veicolo per denazionalizzare/privatizzare le società /gli enti le cui azioni sarebbero il suo “sottostante”. Perché l’operazione funzioni, il “sottostante” dovrebbe essere aggregato (con qualche forma di cartolarizzazione - ne esistono molteplici) e non dovrebbe essere quotato in Borsa per un certo numero di anni (al fine di essere una garanzia solida). Potrebbe essere collocato presso fondi pensioni per dare corpo a una efficace ed efficiente previdenza integrativa. Ciò richiederebbe una preventiva riduzione del numero dei fondi pensione operanti in Italia da 700 a una diecina con effettiva portabilità (ossia che gli iscritti possano votare con le gambe e migrare verso quelli meglio gestiti).Un passo che va comunque fatto se non si vuole che la previdenza integrativa dei nostri figli sia una chimera.
La proposta non è stata accolta con entusiasmo soprattutto da parte imprenditoriale. Dopo che la Fiat ha lasciato la Confindustria , Enel, Eni, Finmeccanica, Poste Italiane, Sace, St-Microelectronics, Terna, Poligrafico, Sogin, Inail sono i veri proprietari di casa in un Viale dell’Astronomia che assomiglia sempre di più all’Intersind (ve la ricordate? Era l’associazione di categoria delle partecipazioni statali). Good bye, Friederich Hayek!

Nessun commento: