giovedì 12 gennaio 2012

L’Italia ce la può fare Ecco come e perché in Avvenire 13 gennaio

L’Italia ce la può fare Ecco come e perché

Debito pubblico e privato sostenibili, risparmio, privatizzazioni I numeri e le manovre del governo per convincere l’Europa e i mercati


DI GIUSEPPE PENNISI

I colloqui intensi tra Mario Monti, la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese Ni-colas Sarkozy e, prossimamente, con il premier britannico David Cameron, hanno l’obiettivo di ac-celerare il negoziato sul coordinamento delle politi¬che di bilancio – l’unione fiscale – in corso dal 9 di¬cembre 2011. L’intenzione, come è noto, è di giun¬gere alla firma di un accordo entro fine marzo per l’entrata in vigore il primo gennaio 2013.

L’Italia viene spesso mostrata come il partner più de¬bole. L’alto stock di debito pubblico in rapporto al Pil sarebbe il suo tallone d’Achille e, per curare il pro¬blema in modo drastico, la bozza iniziale dell’ac¬cordo conteneva anche la scure: l’obbligo di ridurlo dal 120 al 60% con manovre annuali pari ciascuna a un ventesimo del differenziale. Cioè 40 miliardi l’an¬no, euro più euro meno. Fortunatamente a questo punto del negoziato il testo è stato emendato, per te¬nere conto del ciclo economico generale e di altri e¬lementi. Ma il nostro Paese, tra i grandi dell’area a¬tlantica, è veramente quello maggiormente afflitto da un debito sovrano curabile solo con sanguinose amputazioni? I dubbi ci sono. E gli argomenti che il governo sta portando all’attenzione dei partner eu¬ropei e dei mercati sono molte. Eccole.

Un debito solido. L’andamento del debito pubblico in percentuale sul Pil di Italia, Stati Uniti, Germania, Francia e Regno Unito ad esempio (Grafico «A») non è così drammatico come si pensa, per l’Italia. Il Bel Paese parte, nel 1990, con un rapporto debito/Pil che è diversi multipli superiore a quello degli altri 'concorrenti'. Dopo una 'gobba' all’inizio degli an¬ni Novanta torna al proprio livello storico, mentre gli altri quattro Paesi accusano un’impennata. Oscar Wilde amava dire che è «arduo fare previsioni che ri¬guardano il futuro». Tuttavia secondo stime preliminari del Fondo moneta¬rio, «a politiche eco¬nomiche invariate» il rapporto tra debi¬to e Pil di Francia, Regno Unito e Stati Uniti supererebbe quello dell’Italia en¬tro il 2015-2016, mentre solo quello della Germania decrescerebbe (non raggiungendo però il 'fatidico' 60% prima del 2020). Sempre se¬condo il Fmi, Stati Uniti, Grecia, Portogallo, Belgio, Francia e Spagna (in questo ordine) nel 2013 supe¬rerebbero l’Italia in termini di fabbisogno finanzia¬rio rispetto ai rispettivi Pil, per far fronte alle rispet¬tive scadenze del debito pubblico. C’è, poi, un aspetto importante e poco noto. Il rap¬porto tra debito e Pil dell’Italia era, nel 1990, molto più alto di quello degli altri per determinanti stori¬che di lungo periodo. Un lavoro inedito di Antonio Pedone, professore emerito alla Sapienza e a lungo Presidente dell’Associazione di Economia Pubblica, mostra che il 'rapporto' ha superato il 60% per ben 111 esercizi finanziari nei 150 anni dalla creazione dell’unità d’Italia. Siamo spendaccioni? In parte sì, ma nella storia abbiamo mostrato di essere in gra¬do di finanziarci e di metterci in riga quando si su-perano i livelli di guardia.

La garanzia del risparmio. Tradizionalmente, poi, gran parte del debito pubblico italiano è nelle mani dei residenti. Oggi lo è il 61%, mentre quello di altri è in gran misura nelle mani di non-residenti. È all’e¬stero tre quarti di quello americano, l’85% di quello irlandese, il 60% di quello francese (grafico «B»). U¬na recente analisi di Edoardo Reviglio, Capo econo¬mista della Cassa Depositi e Prestiti e docente alla Luiss, dimostra poi che il debito totale italiano è in¬feriore alla media dell’Europa a 15 (grafico «C»). Ciò si spiega perché, tradizionalmente, gli italiani sono forti risparmiatori: nonostante il tasso di risparmio delle famiglie sia diminuito dal 17% del reddito di-sponibile nel 1990 al 6% di oggi, analisi della Banca mondiale confermano che resta superiore a quello degli altri maggiori Paesi ad economia di mercato (grafico «D»). Insomma, sono famiglie e imprese non finanziarie la spina dorsale del «popolo dei Bot», che ha tradizionalmente finanziato il debito pubblico. Nonostante la crisi che si trascina dal 2007, inoltre, le famiglie italiane sono relativamente poco indebi¬tate (45% del Pil) rispetto a quelle francesi (55%), te¬desche (62%), americane (92%) e britanniche (114%). Quindi, possono assorbire più de¬bito pubblico di quanto non siano in grado di fare quelle degli altri Paesi. Il successo dei recenti «Btp Days» ne sono un indizio eloquen¬te.

Ancora le famiglie italiane, poi, hanno mostrato notevoli capacità di assorbire manovre di finanza pubblica molto dure: tra il 1992 e il 1998, per entrare nel gruppo di te¬sta dell’euro, sono stati effettuati aggiustamenti pari al 9,5% del Pil (solo quello del 1992-93 è stato pa¬ri al 6%). Nel corso del 2011 sono state varate ben tre manovre (luglio, agosto e dicembre) che, con costi altissimi, dispiegheranno i loro effetti almeno sino al 2014 (grafico «E») e contribuiranno in misura si-gnificativa a ridurre lo stock del debito.

Un patrimonio in periferia. L’Italia può poi giocare un’importante carta di riserva: il patrimonio delle pubbliche amministrazioni. È un asso nella manica asimmetrico: l’analisi di Reviglio mette il rilievo co¬me il 94% del debito pubblico gravi sull’ammini¬strazione centrale dello Stato mentre la periferia, cioè Regioni, Province e Comuni, detiene il ben 67% del patrimonio (grafico «F»), tra beni immobili, a¬ziende municipalizzate e attività varie. Tutto ciò ag¬grava i costi della periferia: uno studio della Uil di¬mostra che le circa 6.000 imprese del 'capitalismo municipale' hanno 24.000 consiglieri d’ammini¬strazione, a un costo di 2,5 miliardi di euro l’anno, e 80.000 consulenti. La ragnatela delle partecipazioni degli enti locali rende difficile una valorizzazione del patrimonio e un suo impiego per ridurre il peso del debito attraverso la privatizzazioni. Ma la montagna non è insormontabile. Ed è probabile che la «fase due» del programma di politica economica, annun¬ciata per fine gennaio, contenga il grimaldello per sbrogliarla.

D’altronde, tra il 1995 ed il 2005 le privatizzazioni hanno contribui¬to in misura essenziale a ridurre il peso del debito. Ma il processo pa¬re essersi interrotto a metà del de¬cennio scorso: la più recente Re-lazione annuale sulle privatizza¬zioni al Parlamento da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze copre il periodo 2007¬ 2010 e riguarda principalmente vendite di diritti di opzione nel-l’ambito di operazioni di aumen¬to di capitale (Finmeccanica, Enel, Seat), scambi di azioni tra Ministero e Cassa Depositi e Prestiti e ces¬sioni da parte del Gruppo Fintecna, per un totale di poco meno di 1 miliardo di euro nei quattro anni presi in considerazione. Quasi in parallelo l’ultimo «Privatization Barometer Report» mostrava che nel 2010, nel mondo si portavano a termine 500 priva¬tizzazioni per 160 miliardi di euro, uno dei valori più alti mai registrati nella storia, secondi solo ai 184 mi¬liardi di euro nel 2009. Anche su questo fronte, dun¬que, dopo quello delle liberalizzazioni, si attendono grosse novità.

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Il risparmio delle famiglie è andato riducendosi, ma resta superiore alla media ed è una garanzia per la tenuta dei conti E il debito è molto più casalingo Il nostro Paese ha un’importante carta di riserva che giocherà: il 67% del patrimonio pubblico è detenuto da enti 'periferici', regioni, province e comuni

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