venerdì 2 dicembre 2011

Svenarsi per l'euro? Ne vale la pena

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Svenarsi per l´euro, vale la pena?
01/12/2011 | Giuseppe Pennisi

Vale la pena svenarsi per l´euro? E farlo proprio quando è in atto una revisione profonda del pensiero e della prassi in materia di regime dei cambi? Il dubbio si dice sin dai tempi di Socrate aguzza l´ingegno.

Hong Kong e Singapore sono due piccole ma ricche città-Stato (il primo gode di ampia autonomia nell´ambito della Repubblica Popolare Cinese), ambedue con un forte grado di apertura sull´estero. Hanno ambedue deciso di non avere una Banca centrale, ma di operare tramite un sistema di commissariamento valutario in cui il Currency board emette valuta interna esclusivamente in base alle riserve in cassaforte. Hong Kong ha l´orgoglio di avere mantenuto, grazie all´attenta gestione del commissariamento valutario, fisso il cambio nominale con il dollaro Usa a 7,8 $ di Hong Kong per un dollaro americano sin dal 1983, grazie ad un´oculata gestione del commissariamento.

Singapore, invece, si inorgoglisce per una gestione (del commissariamento) che le ha consentito di variare il cambio da 2,25 $ locali per "green back" a 1,36 nei decenni in cui Hong Kong teneva essenzialmente un tasso fisso. Panama utilizza il dollaro Usa come moneta interna dal lontano 1903 (quindi cambio fisso con rinunzia alla sovranità monetaria), mentre il Costa Rica ha cambiato più volte regime di cambio e ora ha un "crawling peg", il cambio è ancorato ad un paniere di monete il cui contenuto varia di volta in volta. La Danimarca, la Svezia e la Finlandia hanno demografie, strutture economiche e livelli di benessere analoghi: dal 1987 la Danimarca ha un cambio moderatamente fluttuante attorno al marco tedesco, prima, ed all´euro, poi. La Svezia ha sperimentato nello stesso periodo i regimi più differenti; ora la sua corona fluttua liberamente. Anche la Finlandia è stata una grande sperimentatrice (in materia di regime di cambio), ma ha alla fine scelto la forma più estrema di cambio fisso: entrare nell´eurozona rinunciando alla propria moneta.

Ce ne è abbastanza per avere il mal di testa. Per decenni, dopo la fine della Seconda guerra, si è insegnato nelle università che il regime di cambi fissi è quello a cui tendere, che l´ottimo sarebbe una moneta mondiale, pur se occorre accontentarsi di monete regionali, come l´euro, il dollaro, lo yen e lo yuan. I vantaggi dei cambi fissi venivano lodati: stabilità delle regole e dei prezzi, apertura al commercio internazionale, riduzione dei costi di transazione, antidoto contro gli speculatori quali "gli gnomi di Zurigo" di cui parlava l´amministrazione Nixon.
La teoria economica non era così apodittica; ma il pillolame con il quale la si traduceva ai politici e all´opinione pubblica (anche a ragione di giornalisti economici con basi scadenti ove non inesistenti) la traducevano più o meno in questo modo anche in fasi (come quella in atto dal 1973) in cui due terzi degli Stati sovrani seguivano altre strade.

L´anno scorso Michael Klein e Jay C. Shambaugh hanno gettato un sasso nello stagno con un lavoro monumentale Exchange rate regime in the modern era in cui concludevano che i regimi a cambio fisso sono un feticcio; i regimi di cambio variano in funzione a scelte nazionali di politica economica e il regime che si sceglie ha effetti limitati sull´andamento di crescita e inflazioni. Nel fascicolo di settembre del Journal of economic literature, Andrew K. Rose analizza una quarantina di studi recenti che giungono alla medesima conclusione.
Roba per accademici? Non proprio. A fine ottobre sono state messe una serie di pecette all´euro come si è accennato un´unione monetaria è la forma più estrema di un regime a cambi fissi. Klein, Shambaugh, Rose & Co pongono un interrogativo nudo e crudo: vale la pena svenarsi per l´euro? E farlo proprio quando è in atto una revisione profonda del pensiero e della prassi in materia di regime dei cambi? Il dubbio si dice sin dai tempi di Socrate aguzza l´ingegno.

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