martedì 26 luglio 2011

LIBERTA’ E DESTINO IN SALSA KENNEDIANA APRE SFERISTERIO Il Riformista 26 luglio

LIBERTA’ E DESTINO IN SALSA KENNEDIANA APRE SFERISTERIO
Beckmesser
Il Festival Sferisterio 2011 si presenta con un cartellone ricco: dal 22 luglio all’11 agosto, tre opere, uno spettacolo monte verdiano, una rievocazione mahleriana ed una serata di balletti in vari spazi: dalla grandiosa arena sferisterio all’elegante settecentesco Lauro Rossi,dal grandioso auditorium San Paolo ad un cinema-teatro che ben si presta a lavori a carattere intimo. E’ cartellone diretto non solo a chi frequenta le spiagge marchigiane ma che attrae pubblico internazionale, come testimonia un gruppo di melomani tedeschi , che hanno occupato (prenotando con largo anticipo) i migliori alberghi della città.
Da quando Pierluigi Pizzi ha preso in mano la direzione artistica della manifestazione , ogni viene proposto un tema: dopo “la seduzione”, l’intrigo”, “il gioco del potere”, quest’anno il fil rouge è “libertà e destino”- con una vaga attinenza, quindi, alla celebrazioni per i 150 dell’Unità d’Italia. Inoltre, al pari di quanto avviene in Aix en Provence, è stata definita una rete di coproduzioni per ripartire i costi su più fondazioni: ad esempio, “Il Rigoletto” allestito per l’occasione è frutto dello sforzo produttivo di dieci teatri e si vedrà in varie città delle Marche e della Lombardia.
Il Festival –aspetto inconsueto per una manifestazione musicale – è stato aperto con una conferenza-lezione magistrale di Massimo Cacciari sull’interazione tra responsabilità individuale e collettiva nel binomio libertà e destino essenziale per riformare continuamente noi stessi e la società in cui viviamo. Quindi, prima ancora che il maestro concertatore desse il “la”, si è subito avvertito il carattere “politico” (nel senso alto di attenzione alla Polis) della manifestazione.
Lo ha confermato la prima opera presentata: il verdiano “Un Ballo in Maschera” (una rarità quasi nel catalogo verdiano: a Roma ed a Milano manca da dieci anni e dovrebbe essere nel programma del prossimo Festival Verdi, sempre che la manifestazione abbia luogo e non venga annullata per problemi finanziari).
E’ necessaria una breve chiosa. Tra il 1828 (“Le comte Ory” di Giaocchino Rossini) ed il 1893 (“Manon Lescaut” di Giacomo Puccini) per l’opera italiana c’è una lunga notte senza eros (presentissimo, invece, proprio in quei decenni nel teatro lirico tedesco e francese, nonché in alcuni lavori di quello nazionale russo). La lunga notte viene interrotta, nel 1859, da “Un ballo in maschera” di Giuseppe Verdi, messo in scena, dopo complicate difficoltà con censure di vari Stati e statarelli di cui allora si componeva la Penisola, nella bighittosima Roma del dominio temporale pontificio. Le censure – lo sappiamo – non se la prendevano con il lungo duetto del secondo atto, una vera e propria rivoluzione se non erotica quanto meno carnale (grande novità nell’asessuato, eppur sentimentalissimo, melodramma del romanticismo), ma con il regicidio su era imperniato “Gustave III ou le Bal Masqué” di Eugenio Scribe da cui il buon Antonio Somma aveva tratto il libretto per Verdi. Sappiamo come andò: dopo aver trasportato la vicenda dalla Svezia, dove il “fattaccio” (assassinio di un re durante una festa in costume) avvenne, in una fantomatica Pomerania, i censori papali (ben oliati dall’editore Ricordi) richiesero che la vicenda venisse portata nella lontana America, a Boston, ed il “morto ammazzato” fosse semplicemente un Conte, Governatore del Massachussetts. Il trasporto carnale nell’”orrido campo” del secondo atto rimase tale e quale; così la musica che gradualmente lo prepara (dallo strumento leit-motiv per clarinetti dell’introduzione) e che lo segue (al duettino “T’amo, sì t’amo e in lacrime” della scena finale).
Questa premessa è importante perché registi e scenografi, secondo il vostro “chroniqueuer”, dovrebbe una volte per tutte abbandonare Boston, gli indiani e tutta l’iconografia da Mayflower in cinemascope che, per una stupidità censoria, accompagna “Un ballo in maschera”. Lo si dovrebbe concedere solo all’Arena di Verona a ragione dello smisurato palcoscenico da riempire con Sioux e pionieri e da trasformare una festa da ballo in un Carnevale di Rio. “Un ballo” è essenziale: in una “corte” o società essenzialmente amorale, un uomo probo si innamora, carnalmente, della moglie del suo migliore amico; ne è ricambiato; uomo e donna si spiegano senza mai sfiorarsi; ma per una serie di circostanze ed equivoci, il marito che si crede tradito (senza esserlo) uccide il proprio più caro amico. Il libretto è contorto, ma la musica (anche se non senza qualche asperità) lo trasfigura, un caso che accomuna “Un ballo” con delle opere più belle e più sofferte di Verdi (“Simon Boccanegra”).
Pierlugi Pizzi ha ripreso un’idea già centrale ad una sua regia, alcuni anni fa, al Municipale di Piacenza: la vicenda viene spostata nell’America degli Anni Sessanta, alla Casa Bianca e dintorni. Quindi tra tensioni innovative (anche e soprattutto politiche), resistenze e rapporti sentimentali quanto meno complicati. L’azione si svolge quasi interamente sul boccascena, ma dai due lati spettatori/comparse assistono e partecipano ai momenti di massa mentre sul grande muro dello Sferisterio vengono proiettati su tre schermi dettagli in un bianco e nero dei cinegiornali dell’epoca. Uno spettacolo affascinante che coglie il senso “politico”, e passionale, de “Un Ballo”.
Gli aspetti musicali, alla “prima”, non sono stati all’altezza della regia (che speriamo venga ripresa da altri teatri anche se al chiuso non riesce a dare la sensazione del grandioso, ma anche tenero, spettacolo all’aperto). Occorre dire che la “prima” è stata funestata da un prologo di sventure. Le prove sono iniziate con la direzione musicale di Paolo Carignani (che in seguito a dissapori su cui non sta a noi entrare) ha passato il testimone a Daniele Callegari. La protagonista sarebbe dovuta essere la giovanissima Teresa Romano, nuovo idolo dei media ma la cui “Forza del Destino” qui a Macerata e “Trovatore” a Parma hanno lasciato a desiderare. Alla vigilia, è stata chiamata un’altra giovane: Victoriia Chenska . E’ nell’organico dell’Opera di Kiev dove ogni anno interpreta una ventina di ruoli da soprano drammatico: avvenente e con una buona emissione è dovuta entrare nelle parte quasi senza effettuare prove. Il baritono, Marco De Felice, infine, memore della fredda, ove non gelida accoglienza avuta un anno fa allo Sferisterio è entrato in scena tremante ed è parso sicuro solo nelle ultime scene. In breve, Callegari e l’orchestra avrebbero avuto bisogno di maggior adrenalina, De Felice di serenità. Diseguale il tenore Stefano Secco (che ha voce ben impostata ma non grande volume). Giunta un po’ come il”pronto soccorso” (e senza grandi aspettative da parte di nessuno) l’ignota (o quasi) Victoriia Chenska ha trionfato ed, accanto a lei, il soprano di coloratura Gladys Rossi (trasformata da paggio a segretaria di John Fitzgerald Kennedy, o ad un Presidente Usa un po’ libertino molto simile a lui).

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