martedì 21 giugno 2011

SALVARE IL SOLDATO EURO SI PUO’ E SENZA MORIRE IN TRINCEA , Il Foglio 22 giugno

SALVARE IL SOLDATO EURO SI PUO’ E SENZA MORIRE IN TRINCEA Giuseppe Pennisi
Qualche giorno prima dell’ultimo numero del settimanale “Der Spiegel”,quello che ha annunciato “la morte dell’euro”, Nouriel Roubini (considerato, a torto od a ragione, come l’economista che ha previsto con più precisione la crisi finanziaria iniziata nel 2007) ha affermato che “l’eurozona è alla vigilia di una vera e propria rottura”: “anche ove si riuscisse a ridurre il fardello del debito sovrano, non si riuscirebbe a tornare a tassi adeguati di competitività e di crescita; per molti Paesi i costi di restare nell’unione monetaria ne superebbero di gran lunga i benefici”. Conclusioni analoghe vengono dalla lontana Asia: Hwe Kwan Chwo della Singapore Management University afferma che, da un lato, le vicende dell’eurozona negli ultimi anni hanno frenato i progetti (peraltro peliminari) di un’”area monetaria” nell’Asean (l’associazione degli Stati del Sud Est asiatico) e, dall’altro, rafforzato il ruolo di transazione e di riserva di alcune monete asiatiche rispetto all’euro, oltre che al dollaro.
Nel mondo accademico Usa, l’analisi di Roubini è ampiamente condivisa: importanti esponenti , prima di tutti Martin Feldstein (alla guida del comitato dei consiglieri economici di due Presidenti degli Stati Uniti oltre che per un trentennio del National Bureau of Economic Research, Nber). non hanno creduto che l’unione monetaria europea sarebbe durata a lungo. Più cauti gli ambienti istituzionali ufficiali quali Tesoro e Federal Reserve Board: non si cela un certo scetticismo, pur sperando che si riesca a salvare “il soldato euro” in quanto la sua eventuale dissoluzione creerebbe un lungo periodo di caos nei mercati.
Sono guardinghi al Fondo monetario dove nei 66 anni dalla sua istituzione si è assistito alla fine di una dozzina di unione monetarie (facilitando la “morte dolce” di alcune di esse – quelle in Paesi ex-coloniali – o almeno tentandola – la fine della “zona della sterlina” negli Anni Sessanta) . Al Fmi si sottolinea ce in un passato non troppo lontano, le unioni monetarie sono morte o per consunzione (l’unione monetaria latina che resse con alterne vicende dal 1865 al 1927, nonostante una guerra mondiale) o perché uno dei partner aveva conti con l’estero in profondo rosso a spese degli altri (la zona della sterlina defunta nel novembre 1967) o per forti divergenze di politica economica tra i soci (numerose unioni monetarie in Paesi in via di sviluppo e nell’ex area del rublo). La fine di un’unione monetaria è spesso stata accompagnata da costi elevatissimi: in caso di uscita (o volontaria o per espulsione) non meno del 4-6 per cento del Pil. Almeno per ora, si sottolinea al Fmi, sull’eurozona non c’è lo spettro della morte per consunzione o di forti divergenze di politica economica. Però un piccolo gruppo di partner ha attivi molto elevati nei conti con l’estero compensati da disavanzi da altri soci; tale fenomeno è già stata una determinante della rapida crescita del credito totale interno, e dell’accumularsi di debiti, per Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo. Ci sono pure significative divergenze di produttività e di competitività che rispecchiano in varia misura il grado di “efficienza adattiva” (ossa del modo in cui ci si è adattati) rispetto al processo d’integrazione economica internazionale in corso dal 1980 o giù di lì.
Per salvare il “soldato euro”, prima che la situazione deteriori ulteriormente, occorre individuare rimedi che rendano possibile la riforma dell’eurozona senza che ci si faccia troppo male. Nessun Paese dell’area oggi sosterebbe un’ulteriore perdita di Pil del 4 -6 per cento (in aggiunta alla contrazione già avuta nel 2008-2010) senza forti rischi per la propria tenuta politica e sociale. Ed il disegno complessivo dell’UE subirebbe una severa ferita.
Da alcune settimane, Hans-Werner Sinn (Presidente del CESifo di Monaco il più autorevole centro di ricerche tedesco) sta visitando varie capitali europee in modo del tutto informale (era a Roma circa due semi fa per un seminario ad inviti in Bankitalia) al fine di esaminare le vie di un possibile riassetto dell’economia reale dell’eurozona, premessa essenziale per qualsiasi marchingegno d’ingegneria finanziaria. Dall’8 al 10 luglio, sempre sotto il profilo dell’economia reale, gli stessi temi verranno affrontati a Aix en Provence nell’unica riunione annuale de Le Cercle des Economistes (un club che per statuto non può avere di 30 soci) aperta ad invitati. L’appuntamento è a ridosso della riunione dell’Ecofin che dovrebbe mettere a punto il nuovo programma di aiuti alla Grecia.
Per salvare l’euro (riformandolo) sta facendo strada l’idea di adottare il metodo di base utilizzato nel 1993-1999 per dare vita all’eurozona: ossia un percorso a tappe ben definite con criteri ed indicatori pre-stabiliti. Si possono anche mutuare lezioni di unioni monetarie in cui alcuni partner sono usciti senza pagare costi troppo alti. Al Fmi si citano esempi recenti in America Latina e più lontani nel tempo in Asia Le vicende di uscita dalla “dollarizzazione” provano che la gradualità (a tappe molto chiare) premia (il caso di Perù e Ecuador) mentre la mossa brusca costa cara (ne sa qualcosa l’Argentina).
Le tappe non devono essere contrassegnate solamente da indicatori monetari e di bilancio ma da puntelli chiari di economia reale per porre al centro del percorso la convergenza delle strutture di produzione e nella produttività dei fattori e dei tassi effettivi di andamento dei prezzi . Qualche passo si intravede nel “patto euro-plus”, specialmente con l’introduzione di indicatori di produttività. Sono, però, pochi ed occasionali. Sarebbe, invece, utile arricchire gli indicatori di economia reale e definire un percorso pluriennale, unitamente a misure di accompagnamento per quei soci del Club che non riescano ad avvicinarsi al resto della cordata . Evitando uscite traumatiche, potrebbero confluire nello SME 2 (l’accordo sui cambi tra le banche centrali di alcuni Stati dell’UE che non appartengono all’eurozona, da un lato, e la Banca centrale europea, dall’altro). Nell’attesa che una convergenza economica di tipo strutturale riporti tutti in garreggiata.

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