lunedì 20 giugno 2011

LE RAGIONI DEL SUCCESSO DEL RAVENNA FESTIVAL in Il Velino del 20 giugno

AGV NEWS presenta, in esclusiva per gli abbonati, le notizie via via che vengono inserite.LE RAGIONI DEL SUCCESSO DEL RAVENNA FESTIVAL
Roma - Nato in un momento in cui i “Due mondi” di Spoleto erano in declino, la rassegna romagnola da oltre un ventennio unisce qualità e varietà dell’offertaEdizione completa
Stampa l'articolo Roma - La XXII edizione del Ravenna Festival è iniziata il 7 giugno con un concerto della orchestra Mozart e termina il 9 luglio con un concerto dell’orchestra Cherubini, dell’Orchestra giovanile Italiana, della Youth Orchestra di Nairobi, con i cori di Piacenza, Nairobi e 200 bambini delle scuole delle missioni italiane in Kenya, nonché un vasto gruppo di solisti. Gli ultimi giorni (il 6, 7 e 9 luglio), inoltre, Riccardo Muti dirigerà arie, sinfonie e cori da opere di Bellini e Verdi. Il successo di questo Festival richiede una riflessione: la manifestazione nasce nel 1989, proprio quando il Festival di Spoleto era in declino, per contribuire a fare riscoprire la grandezza della città e introdurvi il mondo, sotto forma di musica, danza, teatro, poesia, cinema. Un’elegante pubblicazione del 2009 riassume i primi venti anni del Festival e include un’utile serie di saggi per comprenderne obiettivi, spirito e risultati della manifestazione. Il Festival ha luogo nelle basiliche, nei teatri, nelle chiese sconsacrate, sotto la cupola imponente del Pala De André, lungo le strade, nelle piazze, sulle banchine del porto, nei magazzini di vecchie fabbriche, nei chiostri, nei giardini e sulle spiagge ai bordi della pineta.

In tempo di Festival, anche le liturgie vere e proprie diventano spettacolo e nelle chiese della città la consueta messa domenicale prende la forma dell'antico canto gregoriano oppure dei grandi capolavori di Palestrina e Monteverdi, o ancora delle liturgie armena o etiope-ortodossa. Ravenna, da sempre crocevia di popoli e di culture, ha adottato la musica come proprio linguaggio per proiettarsi in una dimensione senza confini. Da qui l'idea delle "Vie dell'amicizia", gemellaggio nato in nome della musica intesa come "parola di fratellanza che unisce i popoli" nel 1997 con Sarajevo e poi con Beirut nel 1998, Gerusalemme nel 1999, Mosca nel 2000, Erevan e Istanbul nel 2001, New York nel 2002, Il Cairo nel 2003 e Damasco nel 2004.a Sarajevo nel 2009, a Nairobi tra tre settimane. Così i "temi" che hanno ispirato la rassegna sono passati da indagini all'interno della storiografia musicale ("Cherubini e la scuola francese", "Intorno a Rossini", "Bellini e Wagner") a itinerari di viaggio e cammini di pellegrinaggio ("Cantastorie, gitani e trovatori...", "Dalla via dell'ambra alla via della seta...in compagnia del grande bardo", "Ravenna visionaria, pellegrina e straniera").

La rassegna ha celebrato, di volta in volta, quasi tutti i nomi di coloro che hanno creato il "moderno" in musica: Poulenc, Mahler, Richard Strauss, Britten, Debussy, Ravel, Satie, Bartók, Schönberg, Berg e Webern, gli americani Bernstein, Copland ed il visionario Varèse, poi Busoni, Milhaud, Weill, Messiaen, Janáchek, Petrassi, e i russi Rachmaninov, Mussorgskij, Stravinskij, Prokof'ev, Shostakovich, e ancora i 'post-weberniani' Nono, Boulez, Donatoni, Maderna, Berio, fino a Sciarrino, Manzoni, Mansurjan, Górecki, Pärt, Kancheli, Sollima, ma anche Piazzolla, Morricone, Nyman. Senza, peraltro, mai rinunciare alla tradizione operistica classica, riproposta in versioni particolari come la trilogia italiana di Mozart e Da Ponte realizzata da Riccardo Muti insieme ai Wiener Philharmoniker, o gli atti unici di Mascagni e Leoncavallo riletti dallo stesso Muti per la regia di Liliana Cavani. Un Festival da sempre interdisciplinare, dunque, all'insegna della commistione tra i generi, che ha proposto le voci dei maggiori interpreti della tradizione classica, quali Luciano Pavarotti, Barbara Frittoli, Juan Pons, Placido Domingo, Renato Bruson, Barbara Hendricks, José Cura, insieme a quelle di Bob Dylan, Marianne Faithfull, Lou Reed, Paolo Conte, Renato Zero, Franco Battiato, Youssou N'Dour.

I palcoscenici della città hanno ospitato nel tempo i grandi nomi della danza, da Alessandra Ferri ad Emio Greco, da Antonio Gades a Cristina Hoyos a Julio Bocca e tanti altri, fino ai prodigiosi "galà" del Bolshoi di Mosca e del teatro di prosa: Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, Marco Martinelli ed Ermanna Montanari. Il Festival è sostenuto, principalmente da enti locali, fondazioni bancarie ed imprese private che ne coprono oltre due terzi del bilancio; di conseguenza, il consiglio d’amministrazione è composto principalmente dai loro rappresentanti. Circa l’80 per cento della spesa è direttamente per fini artistici. Un buon 12 per cento è destinato alla manutenzione e al miglioramento degli impianti. La spesa per promozione, marketing e comunicazione non supera il 4 per cento del totale. Il Festival chiude regolarmente i propri conti in pareggio ed ha la reputazione di essere una delle manifestazioni musicali meglio gestite in Italia. Il pubblico (circa 60 mila presenze l’anno, a cui aggiungere 5-10 mila ogni anno al concerto delle “via dell’amicizia”) è in gran misura (70 per cento) italiano e la partecipazione di residenti in Emilia-Romagna è pari ad oltre la metà del totale; a differenza di altre manifestazioni, ad esempio il Rossini Opera Festival di Pesaro, il cui pubblico è per due terzi non italiano e per circa l’80 per cento non residente nella Regione, il Ravenna Festival ha un forte radicamento nel territorio.

I suoi programmi e le sue attività di collaborazioni con altre istituzioni artistiche i nel corso degli anni (da quella con il Teatro dell’Opera Helikon di Mosca a quella con il Festival di Pentecoste di Salisburgo) hanno avuto tra i loro obiettivi principali di offrire a spettatori italiani, e specialmente della Regione, spettacoli di alto valore culturale, di cui altrimenti non avrebbero potuto fruire. In primo luogo, il Festival di Ravenna è nato proprio quando l’altro maggiore Festival multidisciplinare italiano (il Festival di Spoleto) stava attraversando una profonda crisi, peraltro non ancora superata. Ciò è stato, indubbiamente, una determinante che unitamente alla qualità e varietà dell’offerta, alla durata (circa sei settimane) e alle partnership internazionali ha contribuito ad attrarre attenzione sull’evento, anche in quanto si differenziava marcatamente da altri o monografici (come i Festival dedicati a Rossini ed a Puccini) o dedicati esclusivamente alla musica lirica (Sferisterio, Verona). Il mix di offerta è stato tale da attirare varie fasce di età e la vasta gamma di preferenze è stato elemento importante per fare conoscere Ravenna ed indurre ad affrontare le stesse difficoltà logistiche afferenti la localizzazione della città e del suo hinterland. In secondo luogo, occorre notare che non solo nei periodi storici in cui Ravenna è stata capitale, ma anche nell’Ottocento le arti dal vivo sono probabilmente state un motore dello sviluppo economico della città. Ravenna - vale la pena ricordarlo - ha un bellissimo teatro, il Teatro Alighieri, nel pieno centro della città.

Un appuntamento immediato e di grande interesse per gli appassionati di musica lirica. Dopo il debutto al Festival di Pentecoste di Salisburgo e prima di andare a Madrid, approda dal 24 al 26 giugno al Ravenna Festival “I due Figaro” di Saverio Mercadante, la cui partitura è stata scoperta, quasi per caso, di recente. L’opera, che probabilmente si vedrà anche in un circuito regionale il prossimo inverno, conclude il ciclo quinquennale di “riscoperte” di opere del Settecento napoletano proposto da Riccardo Muti a Salisburgo. È un lavoro divertente, composto nel 1826 (ma andato in scena solo nel 1835 a causa di difficoltà con la censura ). La trama è un seguito de “Le Nozze di Figaro”; la scrittura vocale e musicale risente più dello stile di Mozart (con echi di Bellini, Donizetti e Rossini nonché di musica spagnola) che del brio farsesco della “scuola napoletana” in senso stretto. L’opera è un segno importante di come l’ombra lunga del salisburghese si era estesa in Europa; in Italia avrebbe avuto un’influenza ancora maggiore se non le fosse stato contrapposto il melodramma verdiano. I tre teatri (Salisburgo, Ravenna, Madrid) che co-producono l’allestimento non hanno lesinato nella messa in scena. Spigliata la regia di Emilio Sagi. Eleganti le scene di Daniel Bianco ed i costumi di Jesus Ruiz. Buoni l’orchestra giovanile Cherubini ed cast (in gran misura di debuttanti). Spicca Antonio Poli, un promettente tenore lirico. Anche se “I due Figaro” non appartengono interamente alla “scuola napoletana”, occorre chiedersi quante delle opere “ritrovate” nell’ambito di questo progetto quinquennale verranno riprese in futuro ed entreranno nei cartelloni.

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