lunedì 21 marzo 2011

quei teatri di tradizione dimenticati nelle polemiche sul Fus Il Velino 21 marzo

CLT - Lirica, quei teatri di tradizione dimenticati nelle polemiche sul Fus
Ricevono meno del sei per cento del Fondo unico ma realizzano spesso prodotti di qualità. Come il “Giulio Cesare in Egitto” di Händel
Ravenna, 21 mar (Il Velino) - L’interessante messa in scena di una delle più complesse opere del teatro barocco - “Giulio Cesare in Egitto” di Georg Friedrich Händel - dovrebbe proporre all’attenzione del mondo dello spettacolo un tema che si tende ad obliare: quello dei “teatri di tradizione”, così chiamati dalla normativa. Le polemiche in corso riguardano interamente le 14 fondazioni lirico-sinfoniche, dotate di imponenti masse artistiche, tecniche e amministrative e con contratti di lavoro a tempo indeterminato, nonostante alcune di esse producano, in termini di titoli e di alzate di sipario, meno di un buon “teatro di tradizione”. Questi ultimi sono una trentina e hanno il compito, secondo la normativa, “di promuovere, agevolare m coordinare le attività musicali , con particolare riferimento all’attività lirica nei territori delle rispettive province”. Sono il frutto della storia d’Italia, composta di Stati grandi e piccoli prima dell’Unità, ciascuno dotato o di un teatro “regio” o “ducale” o di un teatro - spesso chiamato “nuovo” o “sociale”- costruito dalla borghesia, e di cui i borghesi “palchettisti” erano i proprietari e ne affidavano la gestione (come in un condominio) ad amministratori specializzati (gli impresari).

I “teatri di tradizione” non hanno lavoratori stabili se non all’osso, operano spesso in stretta collaborazione formando circuiti (come quello emiliano e quello lombardo) in cui gli allestimenti vengono coprodotti e scambiati, lanciano nuove voci, nuove regie e da qualche anni si affermano all’estero. A essi viene convogliato meno del sei per cento dei fondi del Fus ma contano su supporto degli enti e anche delle imprese locali. Alcuni degli spettacoli più interessanti degli ultimi anni superano la qualità di quanto si vede e si ascolta in fondazioni lirico-sinfoniche. Come nel caso dell’“Elektra” di Strauss e il “Fidelio” di Beethoven, proposti l’anno scorso e quest’anno da alcuni teatri di tradizione oppure “Il ritorno di Ulisse in Patria” di Monteverdi, una produzione semplicissima di Aix-en-Provence che in Italia si è vista grazie a otto teatri di tradizione ed è stata applaudita in una ventina di Paesi d’Europa, Nord America e Asia.

Il “Giulio Cesare in Egitto” di Händel in programma a Ravenna nei giorni scorsi nasce a Ferrara e andrà poi a Modena e da lì al Festival Händel a Hall, a Bremen e al teatro nazionale polacco di Poznan. Un chiaro indice che, sotto il profilo della qualità, non si fanno sconti. In tempi difficili per tutti, sono queste le iniziative da premiare ed incoraggiare. Si tratta infatti di una produzione esemplare della difficile opera di Händel. La partitura è sfoltita da molti “da capo” e da una dozzina di numeri per essere appetibile a un pubblico moderno: tre ore di musica (anziché oltre quattro secondo l’originale) e tre ore e mezza di spettacolo (anziché cinque). Il rigore musicale è tuttavia puntuale, come sempre negli spettacoli dell’Accademia Bizantina, diretti da quel virtuoso del barocco che è Ottavio Dantone. Gli strumenti sono il più simile possibile a quelli d’epoca. Le parti per castrato sono affidate a contralti (ottima Sonia Prina nel ruolo del condottiero romano) o a controtenori (Paolo Lopez in quello di Sesto). L’orchestra e Maria Grazia Schiavo (Cleopatra) hanno tutto il profumo orientale che Händel intendeva dare alla scena della seduzione, una delle più erotiche di tutto il teatro lirico settecentesco. José Maria Lo Monaco è una drammatica Cornelia. Filippo Mineccia (Tolomeo) e Riccardo Novaro (Achilla) sono “cattivi” comme il faut.

Buona l’idea del regista Alessio Pizzech di ambientare la vicenda all’epoca delle guerre coloniali tra fine Ottocento e inizio Novecento. Tanto più che tali spostamenti di tempo e luogo sono la prassi dei teatri tedeschi e della produzione che punta al mercato internazionale. Anche il sangue, le catene e gli stupri al secondo atto sono forse pensati per i teatri tedeschi (a Berlino ed Amburgo si vede questo e altro, soprattutto cantanti nudi) ma lasciano sinceramente perplessi.
(Hans Sachs) 21 mar 2011 16:04
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