mercoledì 2 febbraio 2011

Dalle Azzorre all'Asia orientale, ecco chi fa il tifo per l'euro Il Sussidiario 3 febbraio

Economia e Finanza
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FINANZA/ 2. Dalle Azzorre all'Asia orientale, ecco chi fa il tifo per l'euro
Giuseppe Pennisi
giovedì 3 febbraio 2011
Foto Ansa
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Ci si nasconde dietro un dito se il buon esito del collocamento degli Eurobonds emessi per aiutare l’Irlanda viene considerato un indice della soluzione della crisi in corso nell’eurozona, una crisi di cui ancora non si vede la soluzione. E non si tiene conto di quelli che possiamo chiamare i danni collaterali. Due sono particolarmente importanti: a) gli effetti su una vasta area geografica che fa parte, di fatto e in certi casi anche di diritto, della “zona dell’euro”, ma che non ha voce in capitolo nella politica monetaria e di bilancio dell’unione monetaria; b) le implicazioni per le unioni monetarie in formazione (la più importante è quella nel Bacino del Pacifico).

Il primo nodo è sollevato in modo eloquente in un lavoro ancora inedito di Fabian Antenbrink, professore di diritto europeo all’Università Erasmus di Rotterdam. In breve, in parte per ragioni giuridico-formali, in parte per l’attrazione - il “fascino discreto dell’euro” - innescata dall’apprezzamento degli ultimi anni, l’euro è diventata o la moneta comune o l’ancora di un sistema molto più vasto di quello dell’Eurogruppo.

È l’unità di misura, di transazione e di riserva non solo di “piccoli” Stati europei (Andorra, Monaco, San Marino, Vaticano), ma anche di Stati e territori associati a Stati membri dell’Eurozona (Guadelupa, la Guiana francese, la Martinica, Réunion, Saint-Barthélemy, Saint-Martin, le Azorre, Madeira, Saint-Pierre-et-Miquelon, Mayotte e le Canarie). Inoltre, in base ad accordi precedenti la creazione della moneta unica europea (e lo stesso Trattato di Roma), le valute di numerosi Stati sono ancorate a quelle della ex-metropoli (in epoca coloniale) a tasso di cambio fisso. Si spazia dalla Nuova Caledonia, alla Polinesia, da Wallis e Futuna nel Pacifico a mezza Africa (tramite i trattati, sempre in vigore, tra la Francia, da un lato, e le Comunità Monetarie dell’Africa centrale e occidentale, nonché la Repubblica delle Comore, e quello del Portogallo con Capo Verde).

Ove la geografia dell’euro non fosse abbastanza confusa, ci sono Paesi neocomunitari (e che aspirano a far parte dell’eurozona) che hanno definito, unilateralmente, un cambio fisso con l’euro: la Repubblica Ceca, la Romania, l’Ungheria. La Croazia, la Serbia, la Repubblica Macedone e la Tunisia hanno seguito il loro esempio. A questi Stati occorre aggiungere la Bosnia-Erzegovina e la Bulgaria - in ambedue vige un sistema di commissariamento valutario (ossia un currency board) basato sull’euro: ciò vuol dire che l’emissione di moneta locale è basata sulle riserve in euro presso le rispettive autorità monetarie.
In Kosovo e Montenegro l’euro è la valuta utilizzata per le transazioni commerciali e bancarie. Il tasso di cambio di Botswana, Israele, Giordania, Libia, Marocco, Russia, Seychelles e Vanuatu è ancorato a un paniere di monete in cui domina l’euro. L’elenco - si tenga presente - è unicamente indicativo. Sarebbe aumentato se la crisi dell’eurozona non avesse convinto gli Stati del Golfo Persico a non agganciare, a tasso di cambio fisso, i loro “dinari” all’euro.

Nessuno di questi “partner occulti” dell’euro ha un ruolo negli organi di governo della Banca centrale europea (Bce) che pur influiscono in maniera determinante sull’offerta di moneta, sulla liquidità, sui tassi d’interesse e, dunque, sulla crescita. Inoltre, la valorizzazione internazionale dell’euro incide sulle esportazioni di questi Stati e territori tanto quanto influenza quelle dell’Eurozona.

Altro danno collaterale riguarda il Bacino del Pacifico. Chiunque legga la stampa d’informazione sa che da lustri uno dei nodi di fondo dell’economia mondiale riguarda lo squilibrio nei conti con l’estero degli Stati Uniti con l’Asia, specialmente con la Cina e con il Sud asiatico. Uno studio dell’Istituto Affari Internazionali individua correttamente in tale squilibrio una delle determinanti della bassa crescita europea - o meglio di gran parte dei Paesi europei.
Pochi sanno che nell’ambito dell’Associazione degli Stati dell’Asia Orientale (Asean) era da tempo allo studio la creazione di un’unione monetaria. In effetti, di tale unione monetaria sono anche state fatte simulazioni ecometriche: si può scaricare il lavoro “A Simulation Study of an Asean Monetary Union”, CentER Discussion Paper Series No. 2010-100, condotto da università asiatiche ed europee, tra queste ultime particolarmente attive quelle di Tilburg e di Anversa.

Dal punto di vista politico, il passo è particolarmente importante in quanto negli anni Sessanta una più ristretta unione monetaria asiatica era fallita così clamorosamente che la Repubblica di Singapore, sbattendo la porta, mise nella propria Costituzione il divieto di istituire una Banca centrale - esiste un’autorità monetaria che funziona in regime di commissariamento valutario.

Le simulazioni avevano dato esiti promettenti. Per l’economia mondiale sarebbe stata una triarchia - dollaro, euro, moneta unica Asean - anche al fine di una più semplice cooperazione monetaria. La crisi in corso in Europa ha comportato non l’accantonamento ufficiale ma un rallentamento. I nostri amici asiatici vogliono vedere come se la cavano gli europei prima d’imbarcarsi in un’intrapresa analoga. Se si salva l’Unione monetaria, se del caso ristrutturandone alcuni aspetti, e riprendesse il cammino verso un accordo monetario nel Bacino del Pacifico, i vantaggi sarebbero per l’intera economia internazionale.


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