lunedì 29 novembre 2010

Lirica, il “Moise” che darà la svolta al Teatro dell’Opera di Roma Il Velino 29 Novembre

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CLT - Lirica, il “Moise” che darà la svolta al Teatro dell’Opera di Roma


Roma, 29 nov (Il Velino) - Il “Moïse et Pharaon” di Gioacchino Rossini, con cui quest’anno viene inaugurata la stagione lirica del Teatro dell’Opera di Roma, dovrebbe dare la svolta a una fondazione da molti anni poco radicata nella Capitale e afflitta da difficoltà finanziarie. Si sono impegnati in tal senso tanto il sindaco Gianni Alemanno quanto il nuovo management dell’istituzione. La serata inaugurale è il 2 dicembre, ma è preceduta il 30 novembre da un’anteprima di beneficienza a favore della Comunità di Sant’Egidio. La direzione musicale dell’opera è stata affidata al maestro Riccardo Muti il quale, pur non assumendo un incarico formale, si è impegnato a tenere un occhio vigile sul teatro lirico della città. Il cast è molto simile a quello che ha avuto successo nel 2009 a Salisburgo. Allora in buca Muti concertava i Wiener Philarmoniker e il coro era quello dell’Opera di Vienna. Essenziale l’allestimento atemporale di Jurgen Flimm che accentuava i contrasti politico-religiosi più che l’intreccio d’amore. Al Teatro dell’Opera verrà presentata l’edizione francese integrale nella partitura dell’editore Troupenas. Una novità per Roma, dove l’opera non è stata messa in scena nell’originale ma, o è stato rappresentato più volte il rossiniano “Mosé in Egitto”, concepito per Napoli (non per Parigi) e di alcuni anni precedente al rifacimento e all’ adattamento per la Francia, oppure una versione “mista” delle due opere, in italiano, seguendo la prassi della prima metà del secolo scorso.

Muti preferisce la versione francese che ha già concertato, oltre che a Salisburgo, per l’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala (allora agli Arcimboldi) nel 2003, in quanto promotrice di quello che sarebbe stato il teatro in musica europeo (non solo italiano) dell’Ottocento. “Moïse et Pharaon”, in tal senso, può essere considerata tra le opere davvero europee di Rossini, quelle che lo consacrano come musicista di grande impatto su tutte le scuole del continente. L’edizione Truoupenas è stata eseguita altre volte. Oltre a numerose esecuzioni in concerto, se ne ricordano quelle dirette da Sarah Caldwell a Boston e Philadelphia negli anni Settanta e quella, diretta dall’allora giovanissimo Vladimir Jurowski, a Pesaro nel 1997. L’edizione presentata da Muti alla Scala non era filologica: tagliava il “cantico” di ringraziamento finale (mentre, per ragioni di durata complessiva dello spettacolo, si sarebbe potuto molto più saggiamente sforbiciare, in tutto o in parte, il balletto del terzo atto). In secondo luogo, “Moïse” è opera importante per l’afflato e l’impatto “europeo”, ma non è uno dei veri capolavori rossiniani. Così come “Le siège de Corinthe” è una pallida copia del “Maometto II” napoletano, “Moïse” mostra una vena stanca rispetto al di gran lunga superiore, sotto il profilo sia drammaturgico sia musicale, “Mosé in Egitto”, anch’esso partenopeo. All’epoca del “Moise”, Rossini aveva 35 anni, ma era già affaticato da una vita artistica troppo veloce, afflitto dalla morte della madre (a cui era attaccato morbosamente), in preda ai prodromi dell’ipocondria che lo avrebbe tormentato per almeno due lustri, alla ricerca di nuovi percorsi. “Le conte Ory”, opera erotica di un 36enne pieno di brio e “Guillaume Tell”, capolavoro lanciato verso l’avvenire, tracciarono, però, il solco verso il futuro. Dopodiché, a 37 anni, si mise di fatto e di diritto in pensione e ci restò per circa un quarantennio.

Tutto ciò che nel “Mosé” era compatto (e perciò efficace), in “Moïse” viene dilatato, a momenti strascicato. La mirabile scena iniziale viene annacquata e trasportata al secondo atto. L’intreccio amoroso acquista, inutilmente, preminenza. Una sola innovazione di rilievo: come in “Le Siège” e in linea con l’usanza francese dell’epoca, il popolo (e quindi il coro) diventa protagonista, anticipando il “Guillame Tell” ma rendendo ancora più monocorde la figura del comandante supremo degli ebrei. Però, l’orchestrazione è di raro spessore (ai livelli del mozartiano’”Idomeneo” di undici anni prima e ben più raffinata del “Mosè” napoletano). Questa, con la ricchezza delle parti corali (vere protagoniste dell’opera), è probabilmente una delle determinanti che affascinano Muti e che toccheranno il cuore del pubblico. Nel 2003 Muti presentò alla Scala un’edizione di lusso. Accurata, e tradizionale, la regia di Luco Ronconi in un Egitto stilizzato e dominato da un immenso organo (scene di Carlo Diappi e costumi e costumi di Gianni Quaranta). L’orchestra svelò sfumature magiche, grazie alla bacchetta di Muti, che allargò ieraticamente i tempi (195 minuti senza il “cantico” finale rispetto ai 184 di Jurowski che invece lo include). Nel cast vocale, la palma andava a Giuseppe Filianoti, che nei panni e nella passione di Aménophis, si rivelò come uno dei migliori e più duttili tenori della giovane generazione e a Sonia Ganassi, una Sinaïde al tempo stesso dolce e feroce). Barbara Frittoli superò egregiamente le difficoltà dell’aria finale di Anaï. Erwin Schott era un Pharaon tutto d’un pezzo. Tutto d’un pezzo anche il Moïse di Ildar Abdrazakov, il giovane basso russo che, dopo il debutto a Pesaro nel 2000 è diventato una delle star dei teatri italiani. I punti di forza dell’edizione di Salisburgo, a parte l’ouverture, furono le grandi scene corali o gli ensemble, come l’inizio dell’atto II ( la cosiddetta scena delle Tenebre ), la successiva grande preghiera di Moise, “O toi dont la clémence”, oppure quella al IV atto, “Des cieux où tu résides ”, o il finale dell’opera, con la cavalcata dei cavalieri egiziani travolti dalle onde del Mar Rosso. Muti nulla ha tolto alla solenne monumentalità di queste pagine di Rossini, assecondandone e amplificandone l’aspetto mistico o descrittivo, ora con tempi larghi e cantabili, ora con grandiosa drammaticità (finale), mentre le arie sono state accompagnate con il vigore tragico di sempre (scena di Sinaïde, scena di Anaï) finalmente prive delle nevrosi e degli scatti furibondi che avevano caratterizzato gli accompagnamenti dell’edizione di Milano. In generale, però, il cast vocale fu meno brillante che nel 2003 a Milano.

(Hans Sachs) 29 nov 2010 12:46

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