mercoledì 22 settembre 2010

LA TOBIN TAX CHE NON PIACEVA AL SUO IDEATORE Avvenire 23 settembre

LA TOBIN TAX CHE NON PIACEVA AL SUO IDEATORE
Giuseppe Pennisi
Probabilmente James B. Tobin si sta rivoltando nella tomba dove giace dal marzo 2002 in quanto l’imposta (in italiano, parlare di “tassa” è tecnicamente errato) sui movimenti di capitale a breve, a cui è associato il suo nome, pare tornata di moda . Ha sedotto anche autorevoli uomini d Governo all’interno del più ristretto G7 ed è stato uno dei temi centrali dell’Eurogruppo e dell’Ecofin del 7 settembre in vista dell’assemblea annuale del Fondo monetario in calendario all’inizio di ottobre. In Europa, sono principalmente la Francia e la Germania che favoriscono l’introduzione dell’imposta Sia Bercy sia a Wilhelstrasse sono state elaborate varie proposte tecniche. E l’Italia ? Sembra in una posizione di non-belliggeranza : non vuole disturbare l’asse franco-tedesco (dove si vuole inserire a pieno titolo) senza grande convinzione (gli Stati Uniti e buona parte dell’Asia non celano la loro opposizione).
In più occasioni, James B. Tobin, consigliere economico di John F. Kennedy definì i limiti dell’imposta da lui delineata in un libro del 1972. Ad esempio, alla conferenza annuale sullo sviluppo economico tenuta a Washington nell’aprile 1998, nel bel mezzo cioè della “crisi asiatica”, Tobin, precisò che la proposta del 1972 aveva unicamente l’obiettivo di frenare movimenti di capitale a breve che avrebbero potuto causare fluttuazioni troppo forti del mercato dei cambi (pp.63-76 degli atti della conferenza). Precisò , poi, che , contrariamente alla vulgata (diventata ancora più forte), non si sarebbe trattato di un’imposta internazionale ma di una misura che avrebbero potuto prendere unilateralmente i singoli Paesi che si sentivano minacciati da flussi e deflussi di capitali a breve. Tornò sul tema un paio di volte su “The Financial Times”, affermando che “non ripudiava la sua proposta del 1972 ma l’interpretazione distorta che se ne era data”. La controindicazione è sia la difficoltà di distinguere tra movimenti a breve, medio e lungo termine ed il pericolo, quindi, di penalizzare potenziali investimenti diretti verso Paesi od aree (come il nostro Sud) in sviluppo.
Cosa fare? Meglio formulare controproposte che porsi in una situazione di “muro contro muro”. Soprattutto si vuole essere “non belligeranti” ed utilizzare a pieno la capacità italiana della mediazione. Si può controproporre, ad esempio, un’imposta sul trading valutario . L’ultimo rapporto della Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) rileva che nonostante la crisi finanziaria (oppure a ragione della crisi che ha scoraggiato impieghi tradizionali) il mercato delle transazioni valutare è triplicato rispetto al 2001 e sfiora, ogni giorno, i 4 mila miliardi di dollari- quasi il Pil annuale della Germania. Appena il 13 percento riguarda “operatori non finanziari” ed il 40 per cento si riferisce a transazioni tra banche di grandi dimensioni – principalmente le 20 maggiori al mondo. Un’imposta sulle transazioni valutarie eviterebbe la complessità di escogitare una formula giuridica per distinguere movimenti a breve dagli altri e non inciderebbe su investimenti diretti. Passarla sui consumatori fina sarebbe un percorso lungo perché riguarderebbe principalmente transazioni valutarie interbancarie. E si frenerebbero guadagni potenzialmente facili: a ragione dell’elevata volatilità, sui mercati valutari si possono ottenere rendimenti buoni se la tempistica è azzeccata (pure solo per un colpo di fortuna).

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