lunedì 19 luglio 2010

Festival Puccini, una “Fanciulla” da ascoltare ma a occhi chiusi Il Velino 19 luglio

CLT -
Roma, 19 lug (Il Velino) - Nella California delle febbre dell’oro, Minnie gestisce un “saloon” per minatori; si trinca whisky , ci si azzuffa e si spara, ma in un’atmosfera da Cral (ossia da dopolavoro) poiché tra una rissa e l’altra, la bella giovane ostessa da tutti desiderata tiene lezioni di alfabetizzazione e spiega la Bibbia. Lo sceriffo Jack vorrebbe portarsela a letto, ma la fanciulla lo respinge sia perché non ha “ancora dato il primo bacio”, sia in quanto innamoratasi dello “straniero” Dick (che in lingua inglese è anche un modo educato per indicare chi sa utilizzare a pieno il proprio fallo) da desiderare di andare con lui sotto le lenzuola. Dick è un ladrone in fuga, ma Minnie non lo sa. Finisce col pernottare (su un divano) nella casa della ragazza. Lo sceriffo lo scopre, Minnie ingaggia con lui una partita di poker dove mette in palio la vita di Dick o la propria verginità. Barando, vince e salva temporaneamente il ladrone di cui è innamorata. Braccato, quest’ultimo finirebbe sulla forca se non arrivasse , a cavallo, Minnie con due Colt cariche di piombo e un discorso persuasivo ai minatori: “Quest’uomo è mio, come è di Dio”. Liberi, cavalcano insieme lontani dalla California.

Questo il libretto de “La fanciulla del West” di Giacomo Puccini, che risente del clima puritano dell’America del 1910 dove andò in scena con enorme successo al Metropolitan. Il teatro newyorchese nel commissionarla sfoderò un cast d’eccezione: Arturo Toscanini, Emmy Destinn ed Enrico Caruso. La scrittura sia orchestrale sia vocale è quanto di più complesso composto da Puccini: coniuga lo stile della “giovane scuola” italiana con le innovazioni in gran misura radicali apportate da Debussy (“Pelléas et Melisande”) e Strauss (“Salomè”) proprio in quegli anni. Quindi, a un testo apparentemente per educande, corrisponde una musica intrisa di eros e rivolta al futuro. A ragione delle difficoltà di disporre di un’orchestra, una concertazione e soprattutto voci in grado di fare fronte alla terribile, ma ancora modernissima, partitura, “Fanciulla” è una delle opere meno rappresentate di Puccini. Al Festival Pucciniano di Torre del Lago (Lucca), la cui 56esima edizione di sta svolgendo in questi giorni, mancava da cinque anni. E’ stata riproposta in un nuovo allestimento anche perché ricorre il centenario dalla prima rappresentazione. Difficile capire perché non sia stato ripreso l’allestimento scenico presentato cinque anni fa: scene e costumi avevano una leggera visione espressionistica e la regia iperconvenzionale di Ivan Stefanutti non coglieva l’eros proveniente dalla buca d’orchestra e dalle voci, ma era, tutto sommato, una buona realizzazione del dramma in musica. Il nuovo allestimento scenico è stato affidato al pittore pisano Franco Adami: totem stilizzati multicolori in un contesto più da guerre stellari che da “febbre dell’oro”.

La regia , firmata da Kirsten Harms, è del tutto inesistente nei primi due atti e prende un po’ quota nel terzo. Difficile comprendere cosa avvenga in scena e perché dal momento che il tutto è corredato da momenti che vanno dal ridicolo (Dick porta un mazzo di rose rosse a Minnie nel bel mezzo del deserto delle California) al sublime (il finale da film di fantascienza). Il pubblico ha protestato. Vediamo se altri teatri (in primo luogo la Deustches Oper- Berlin, casa madre di Kisten Harms) la riprenderanno. Altrimenti, dopo tre repliche (sino al 7 agosto) andrà tutto allo sfascio. Nel valutare gli aspetti musicali, occorre tenere conto dell’acustica, non certo ottimale, di un teatro, per quanto in murature all’aperto a ridosso di un lago. In tali condizioni, è comunque arduo percepire le sottili raffinatezze orchestrali e vocali concepite per quella cassa armonica che era il “Met” della 34sima strada. Le scene hanno reso ancora più difficile il lavoro dei cantanti. Guidata con diligenza da Alberto Veronesi, l’Orchestra del Festival ha colto a pieno gli echi di Debussy, anche grazie alla riapertura di un “taglio” effettuato dopo le recite newyorkesi del 1910-11 ma non quelli, demoniaci, di Strauss (le dissonanze e i leitmotive). Daniela Dessì ancora una volta supera la difficile prova: è una Minnie in cui prevalgono gli accenti lirico-passionali su quelli drammatici. Fabio Armiliato ha incassato con valenza (meritandosi anche un applauso a scena aperta) la parte pensata per Caruso. Il ruolo di Jack è affidato al bravo Carlos Almanguer. Buoni gli interpreti dei 15 personaggi minori. Insomma, uno spettacolo da ascoltare ma… a occhi chiusi.

(Hans Sachs) 19 lug 2010 11:31

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