mercoledì 28 luglio 2010

DISSENTO DA FORTE: PER SVECCIARE L’UNIVERSITA’ GUARDIAMO A TIMBOCTU’ Il Foglio 29 luglio

DISSENTO DA FORTE: PER SVECCIARE L’UNIVERSITA’ GUARDIAMO A TIMBOCTU’
Giuseppe Pennisi

Sono in parziale dissenso con la proposta dell’amico Prof. Francesco Forte sull’età di pensionamento per i professori universitari, pur ammettendo che Forte appartiene alla rara pattuglia dei professori che non ha mai fatto parte della P60.000 (la lobby dei professori tesa a guardare ai loro interessi più che a quelli degli studenti e della ricerca; in Italia, è numericamente la più numerosa al mondo dopo quelle della Cina, della Russia e degli Stati Uniti, Paesi, però, che hanno, rispetto all’Italia, ben altre popolazioni totali e studentesche). Riconosco anche i meriti della procedura indicata da Forte con la quale si raggiungerebbero gli obiettivi di svecchiare il corpo docente senza creare una generazione di fortunati (dato che si aprirebbero migliaia di cattedre da un giorno all’altro) seguita da generazioni di sfigati (dato che il vuoto temporaneo verrebbe colmato nell’arco di 12-18 mesi). Nelle università statali (finanziate dai contribuenti) dovremmo allineare l’età di pensionamento dei Prof a quella prevalente nel resto dell’Ue e, auspicabilmente, abolire il valore legale dei titoli di studio. Il mercato funzionerebbe: i Prof davvero bravi verrebbero chiamati a contratto da atenei privati od internazionali. Gli altri non avrebbero più il ruolo che consente loro di controllare i fondi di ricerca(i giovani li sanno utilizzare molto meglio) e di ridurre alcune università a mini-parentopoli, assicurando posti per mogli, figli, generi , nuore anche nani e ballerine. Con danni per gli studenti ed il sistema Italia.
Nel dibattito attuale non ho visto alcun riferimento all’unico caso di università a carattere internazionale e puramente di mercato (in cui i docenti venivano pagati secondo “quotazioni” nel mercato degli studenti e delle loro famiglie): l’ateneo (per così dire) di Sankoré, localizzato a Timboctou . Ne visitai alcune rovine nel maggio 1969 durante un viaggio in jeep con amico in Africa occidentale. Solo di recente mi sono reso conto della sua importanza e dei suoi ingredienti di successo leggendo il volume del giornalista-esploratore Félix Dubois Tombouctou la mystérieuse edito nel lontano 1897 ma ripubblicato pochi mesi dall’editore Grandvaux (e scaricabile da Internet). In breve, nel XV secolo , l’università di Sankoré aveva 25.000 studenti che arrivavano a Timboctou (dove il Sahara bacia il Sahel) dall’Egitto, dal Marocco, dall’Impero del Mali (che allora di estendeva sino all’attuale Costa d’Avorio) ma anche dell’europea Andalusia. Viaggi lunghi su cammello e mulo. Per imparare cosa? Santoré non era organizzata in facoltà o dipartimenti ma in quelli che potremo chiamare “ambiti disciplinari”: matematica, grammatica, poesia, astronomia (etichetta per indicare un po’ tutte le scienze). Non esistevano né un Rettore, né Presidi, né Senati accademici, né Consigli di facoltà. I Prof più bravi erano chiaramente riconosciuti, rispettati ed avevamo leadership sugli altri. I docenti erano remunerati direttamente dagli studenti (e dalle loro famiglie) in base a valutazioni di mercato: quanto più il professore era reputato bravo , attento ai propri allievi, capace dell’indirizzarli nella loro vita futura tanto più veniva pagato. Venivano prodotte dispense (i copisti venivano compensati in grammi d’oro secondo il volume e la difficoltà del lavoro). Tali dispense diventavano il viatico per accedere alle più alte funzioni amministrative e religiose . C’erano tre lingue franche: l’arabo orientale , il sudanese e l’ajami (trascrizione in arabo orientale di lingue africane). Esisterebbero ancora un milioni di manoscritti sparsi tra Mali, Mauritania e Niger (specialmente negli archivi delle moschee). La stima è del Prof. Mahamoud Zouber, che dirige il Centro Ahmed Baba di Timboctou , un istituto supportato dall’Unesco.
L’Università di Sankoré è molto lontana, nel tempo e nello spazio. Ma qualche ideuzza ce la può dare ancora. Che ne pensano Forte e Giavazzi? E, soprattutto, il Ministro?
Giuseppe Pennisi

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