mercoledì 23 giugno 2010

E SE IL SUPER YAUN NON SERVISSE POI TANTO ALL’ASFITTICA RIPRESA GLOBALE? Il Foglio 24 giugno

E SE IL SUPER YAUN NON SERVISSE POI TANTO ALL’ASFITTICA RIPRESA GLOBALE?
Giuseppe Pennisi
Il G20 che si terrà a Toronto questo fine settimana si apre apparentemente sotto la migliore stella. Da un lato, negli ultimi giorni, la Repubblica Popolare di Cina ha annunciato, tramite un comunicato della propria banca centrale, il proposito di rendere più flessibile il tasso di cambio dello yaun. Da un altro, dopo una grave crisi all’interno dell’area dell’euro, il Consiglio Europeo ha diramato un comunicato “unitario” (per utilizzare il gergo un tempo in uso negli organi dei partiti italiani) tale da far contenti tutti e da permettere a ciascuno di mostrare al proprio elettorato di avere fatto prevalere i propri interessi nazionali rispetto a quelli degli altri. Invece, le delegazioni che si avviano al G20 con il consueto codazzo di barracuda-esperti non celano di essere inquiete principalmente per le ambiguità ed incertezze che caratterizzano le posizioni della Cina e dell’Ue.
Veniamo, in primo luogo, alla politica del cambio nel Celeste Impero. Un libro pubblicato a fine 2009 da Mark Shiao dell’Università di Londra ("Financial Regulation of Derivatives, Trust and Securitisation in China" Carswell Thomson Rueter) mostra a tutto tondo come la politica del cambio è solo un tassello di un complesso sistema di regolazione del mercato finanziario interno. Non è necessariamente il principale anche perché il sistema di regolazione è in rapida evoluzione e di difficile comprensione ad europei ed americani. In breve, un cambio più flessibile, o pure anche una svalutazione, possono essere agevolmente neutralizzati ritoccando le regolazione interne. Lo sostengono, in un saggio in “The World Economy”, Ronald Mckinnon dell’Università di Stanford e Gunther Schanabl di quella di Lipsia. Unitamente ad un veterano delle analisi della contabilità economica nazionale di vari Paesi, Angus Maddison, i due economisti sottolineano che se in termini di parità di potere d’acquisto il Pil cinese è pari all’80% di quello Usa, nel contesto attuale, una rivalutazione dello yuan rispetto al dollaro non è forse nell’interesse né della comunità internazionale né della Cina. In altri termini, la ripresa mondiale richiede che l’Impero di Mezzo cresca all’8% l’anno; un probabile effetto di una rivalutazione significativa provocherebbe un rallento della crescita cinese e, con esso di quella mondiale. Gli scenari più pessimisti sono quelli tratteggiati negli Stati Uniti, dove Dipartimento di Stato e Pentagono sembrano avere divergente di punti di vista con il Tesoro e con la Federal Reserve proprio su questo punto: nel settore “moderno” della Cina, in breve, ci sarebbero ben 150 milioni di uomini e donne in cerca di lavoro, questo numero aumenterebbe in caso di decelerazione della crescita, innescando seri problemi interni d’ordine pubblico e fomentando guerre e guerriglie locali (di cui in Occidente si sa poco o nulla). I cinesi sono consapevoli di questi , ed altri, problemi ancora più di quanto lo siano i sinologhi Usa. Come leggere allora il comunicato della Banca centrale? Una mera intenzione di riprendere, con gradualità, la strategia di ritocchi al margine già attuata nel 2005-2008. Senza incidere né sugli squilibri mondiali né, ancor meno, sui problemi interni del Paese. A Toronto – lo si ammette – si parlerà molto del tasso di cambio dello yuan, ma non si concluderà nulla.
Ancora più inquietante (specialmente se visto da Oltre-Atlantico) il quadro europeo. Pochi mesi della crisi dell’Eurozona, nelle principali università americane e anche nei canali televisivi culturali ha avuto un’ampia diffusione il film The World’s Next Supermodels (“Il prossimo supermodello mondiale”) di Ijsbrand van Veeelem. Come in un “giallo” di Sidney Lumet , una giuria deve esaminare (con testimonianze e prove documentarie) chi sarebbe stato, dopo il ridimensionamento degli Stati Uniti, il nuovo “supermodello” economico e sociale. Cina, India ed altre “tigri” venivano scartate (in quanto ritenute fragili ed effimere). Vinceva l’Europa con la propria economia sociale di mercato proprio perché aveva mostrato di reggere bene la crisi 2007-2009. Gli avvenimenti degli ultimi mesi sembrano aver cambiato questo quadro.

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