giovedì 6 maggio 2010

SE NON CAMBIANO LE REGOLE , LA LIRICA MORIRA’ PRESTO Il Foglio 7 maggio

SE NON CAMBIANO LE REGOLE , LA LIRICA MORIRA’ PRESTO
Giuseppe Pennisi
Le fondazioni lirico sinfoniche sono in sciopero- alcuni sindacati minacciano di non alzare il sipario “sine die”, altri di sostituire spettacoli particolarmente importanti con “prove aperte”. La protesta è stata scatenata dal decreto legge sulle fondazioni pubblicato il 30 aprile, immediatamente dopo l’inaugurazione del Maggio Musicale fiorentino. Una lettura veloce del testo da l’impressione che si tratti di un provvedimento molto poco liberale , e, quindi, distante da quella che dovrebbe essere la filosofia di un Governo che dice di ispirarsi a Hayek e von Mises: gli articolo 2 e 3 dettano misure dettagliate in materia di personale, di contrattazione e di compensi integrativi a fondazioni che, in base alla “Legge Veltroni” del 1996, sono istituzioni private (anche se sovvenzionate dallo Stato e da enti locali al 90% dei loro costi).
A volte, sono indispensabili misure drastiche (e quindi poco liberali) per riportare ordine in settore in cui sono stati accumulati debiti per 200 milioni di euro, 4 fondazioni stanno uscendo dal commissariamento ed altre 4 rischiano di entrarvi presto, 3 fondazioni hanno chiuso i conti in rosso nel 2009 (il pareggio di bilancio è, secondo la legge, d’obbligo), altre 3 programmano il disavanzo nel preventivo per l’esercizio in corso.
I sindacati hanno contribuito al dissesto. Un “dossier” predisposto dal Ministero non include alcune perle quali lo “sciopero delle 100 mutande” al Teatro Massimo di Palermo così chiamato perché Leoluca Orlando aveva, quasi simultaneamente, proposto “il partito delle 100 città”; appena rientrate nella loro sede storica (in restauro per 23 anni) le masse artistiche scioperarono ad oltranza (sino alla primavera) facendo saltare il “Wozzeck” inaugurale e quasi tutte le rappresentazioni di “Manon Lescaut”, perché chiedevano indumenti pesanti per le prove a ragione di un gennaio e febbraio più rigidi del solito.
Molte responsabilità gravano su coloro che hanno gestito, e gestiscono, i teatri. Alcuni, pur di avere la pace sindacale, hanno largheggiato: in una fondazione le spese per il personale sono aumentate del 44% in dieci anni; in una piccola fondazione del sud l’organico amministrativo ha 131 addetti rispetto agli 83 del Teatro alla Scala. Altri sono stati eccessivamente compiacenti con artisti e fornitori. Un noto direttore d’orchestra afferma che il suo cachet in Italia è attorno ai 15.000 euro per serata mentre a Vienna è di 5.000. Sul differenziale pesano due elementi: un certo grado d’incertezza (a ragione della propensione a scioperi e altre manifestazioni che fanno saltare spettacoli) e il numero limitato di serate per cui si viene scritturati. Con un programma ben articolato di coproduzioni, i costi dei cachet si ridurrebbero poiché, dato che il pubblico non si sposta, facendo circolare spettacoli l’artista verrebbe scritturato per 15-20 sere non per 5. Altra chicca: nel 1992, i turbanti del coro de “I Pescatori di Perle” di Bizet vennero noleggiati a 100.000 lire a turbante a sera: il sub-commissario in carica (un Consigliere di Stato) ebbe un colpo tale che dimissionò e da allora entra in teatro solo come spettatore pagante. Infine, alcuni manager sono stati affetti da megalomania: tre teatri italiani si sono dati palcoscenici tali da consentire di mettere in scena 7 differenti opere la settimana (non 7-8 repliche della stessa opera al mese) – il che richiederebbe un’organizzazione di teatro “da repertorio” molto differente da quella “di stagione” nella prassi italiana. Uno solo di questi palcoscenici è stato impiegato nelle sue potenzialità: dall’ottuagenario Franco Zeffirelli per un’”Aida”.
In breve, se non cambiano regole e personaggi, la lirica è sul punto di fare eutanasia proprio nel Paese dove è nata e per diversi anni (nel Seicento a Venezia e per gran parte dell’Ottocento in quasi tutto lo Stivale) è stata una fiorente impresa commerciale.

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