martedì 27 aprile 2010

Trappole e promesse del federalismo fiscale Ffewebmagazine del 27 aprile

Focus


Le architravi di una buona riforma? Incentivi di mercato e standard di servizi
Trappole e promesse
del federalismo fiscale
di Giuseppe Pennisi La grande (e lenta) riforma – il federalismo fiscale – in corso di messa a punto tramite una serie di decreti attuative, contiene molte promesse in cui, come sempre accade quando si è alle prese con riforme di questa portata, si annidano anche numerose trappole. Vediamo di individuarle, alla luce della letteratura più recente; è tanto vasta che alcuni titoli possono sfuggire a chi sta impostando i decreti legislativi. Occorre, in primo luogo, chiarire cosa si intende per “federalismo fiscale”. A mio avviso, la giustificazione più cogente è stata proposta, nel lontano 1997, da Yingyi Qian e Barry Weingast nel saggio Federalism as commitment to preserving market incentives (“Il federalismo come impegno a mantenere gli incentivi di mercato”) nel Journal of Economic Perpectives. Si basa sulla teoria degli incentivi che spiega perché alcune imprese funzionano bene e altre male. Il vero federalismo costringe a mantenere gli incentivi di mercato anche a chi ciò non vuole, in quanto solamente tramite incentivi di mercato le aree (o regioni, o Länder o States federati) hanno lo stimolo a massimizzare i benefici per le loro collettività e si pongono in uno spirito di sana “competizione” (dal latino “cum petere”, cercare insieme) nell’interesse di tutti. Come dimostrano le analisi empiriche che hanno meritato il Premio Nobel 1993 a Robert Fogel, il federalismo competitivo è stato la molla dello sviluppo degli States del Sud degli Stati Uniti, devastati dalla guerra di secessione della metà dell’Ottocento (quando il loro Pil pro-capite, leggermente superiore alla media nazionale prima del conflitto, ebbe una contrazione di oltre il 50%) .Quale che sia il modello specifico, il federalismo deve essere, al tempo stesso, politico, economico e burocratico. Il federalismo politico richiede che le decisione vengano prese a livello locale in gran parte delle materie che toccano la vita dei cittadini; devono ovviamente essere anche controllate con il voto popolare a livello locale. Non è necessario concentrare la funzione decisionale in un solo livello; di solito ce ne sono numerosi (ad esempio, nel federalismo Usa, lo Stato dell’Unione, la Contea e il Municipio). È essenziale, però, che ci sia chiarezza su quale livello è responsabile di cosa; senza tale chiarezza, non è possibile esercitare alcun controllo democraticoGli effetti della prima legislatura “devoluta” britannica, a cui s’ispira il modello che si sta iniziando ad attuare in Italia, è stato condotto da Mahmoud Ezzamel (Cardiff Business School), Noel Hyndham (Queen’s University di Belfast), Irvine Lapsey e Aage Johnsen (ambedue dell’Università d’Edimburgo) e June Pallott (University of Canterbury) e pubblicato alcuni anni fa nella rivista di Public Money & Management. Si concentra su un tema, a metà strada tra economia e politica: in che misura la “devoluzione” ha aumentato la “democratic accountability” (ossia la responsabilizzazione di politici e burocrati nei confronti degli elettori). La devoluzione ha innescato maggiore “apertura”, “trasparenza”, “consultazioni” e “verifica” specialmente per quanto riguarda finanza e politiche pubbliche; ha anche messo in moto un “information overload”, un “sovraccarico da informazioni”. Di conseguenza, chi fa politica dipende oggi più di ieri da “tecnici, consiglieri parlamentari e consulenti in generale che sappiano filtrare l’informazione”. Decide, però, in base ad analisi più ricche.Il federalismo fiscale non implica solamente di dividere le fonti di gettito tributario tra centro e periferie (nel caso italiano Regioni, Province - se esisteranno ancora -, Comuni) ma di definire il “nucleo duro” di competenze economiche essenziali da mantenere al centro e di “devolvere” il resto alle periferie. Non si può avere federalismo economico e pretendere “uniformità” di servizi ai cittadini su tutto il territorio nazionale. Tale “uniformità” impedirebbe le scelte delle periferie su priorità e livelli di tassazione; quindi, renderebbe o impossibile o finto il federalismo politico. Lo sottolinea efficacemente Learco Saporito che ha vissuto il processo che ha contribuito al federalismo fiscale in tre vesti differenti: da componente del Governo, da legislatore e da studioso di diritto. Il suo libro, rigorosamente giuridico, dimostra come dal 2001 (nuovo Titolo V della Costituzione) siamo in mezzo a un guado: lasciando la sponda napoleonica (ove pensassimo fosse adatta al 21simo secolo) ci siamo dati, mani e piedi, al federalismo burocratico senza avere definito il federalismo politico e quello fiscale. Non possiamo neanche più permetterci la scappatoia, molto mediterranea, di un federalismo finto. Lo afferma anche il volume della Fondazione ItalianiEuropei, uscito proprio all’inizio di gennaio. Il federalismo burocratico è quello degli uffici: ci devono essere burocrazie che rispondano ai responsabili del federalismo politico ed economico, e in ultima istanza agli elettori. Purtroppo, in Italia, la riforma del 2001 è stata un vero e proprio monumento a quel federalismo burocratico che, come indicato da Hongbin Cai e Daniel Treisman (ambedue della Università della California a Los Angeles, quindi molto distanti dalle nostre beghe) in un saggio di alcuni anni fa, corrode istituzioni ed economia se non è nell’ambito di un ben articolato federalismo politico ed economico.Fatta questa precisazione, occorre sottolineare che una delle promesse principali del federalismo fiscale è una migliore gestione della finanza pubblica – in termini sia quantitativi (riduzione del disavanzo e in prospettiva pareggio di bilancio, oltre che riduzione dello stock di debito pubblico in percentuale del pil) sia qualitativi (servizi più efficaci ai cittadini per unità di spesa). Non è una promessa priva di basi effettuali. Lori L. Lachman, Guillermo Rosa, Peter Lange e Alan Bester della Duke University hanno passato lustri a studiare questi temi. Di recente, hanno aggiornato e approfondito una ricerca sull’esperienza di quindici paesi dove vige il federalismo fiscale. Ne hanno pubblicato i risultati sulla rivista scientifica Economics & Politics, Vol. 19, pp. 369-420 in un saggio intitolato The Political Economy of Budget Deficits. Il lavoro è interessante per la metodologia econometrica utilizzata: dallo studio si ricava che dove le istituzioni preposte al controllo complessivo del bilancio – quali, in Italia, la Ragioneria Generale dello Stato – sono “forti”, il federalismo ha un impatto positivo sulla gestione e la qualità della spesa (grazie a un più stretto controllo sociale) e ne può comportare una riduzione complessiva.Le trappole non mancano e sono documentate da Wallace E. Oates con il suo solito stile brillante in un saggio (On the Evolution of Fiscal Federalism: Theory and Istitutions), pubblicato nel fascicolo di giugno del National Tax Journal e rilanciato, dallo stesso Oates, sul proprio blog. Oates è uno dei maggiori esperti, non solo Usa, della materia: basta consultare, su un qualsiasi motore di ricerca, la sua vasta bibliografia. La rassegna della teoria e dalla prassi condotta nel saggio (e ripresa nel blog) dovrebbe essere cibo importante ove non essenziale per chi opera nel settore, poiché è tra le più complete e più aggiornate nella letteratura internazionale di questi ultimi mesi. La trappola più insidiosa individuata da Oates sono gli “interfederal grants” (ossia i trasferimenti, a fondo perduto anche ove finalizzati a obiettivi specifici tramite provvedimenti “di scopo”) tra soggetti politico-territoriali della federazione o confederazione. «La letteratura chiarisce in modo eloquente che questi strumenti sono all’origine di serie distorsioni del federalismo fiscale». È preferibile consentire risorse proprie ai vari soggetti (imposta sul reddito regionale, accise su certe produzioni) e creare “rainy-day funds” per fare fronte a esigenze improvvise: una riduzione dell’attività economica in un’area (pensate cosa sarebbe successo nel Lazio se nel 2008 gli “irriducibili” avessero costretto Alitalia ad atterrare gli aerei e a mettere 20.000 persone in mobilità) o un’inattesa causa naturale (uragano, terremoto). Tali “rainy-day funds” consentono di superare la trappola dei trasferimenti.Per cogliere le promesse ed evitare le trappole, il nodo è la definizione degli standard minimi di servizi e costi. In questa materia, il contributo al tempo stesso più recente e più interessante è di Helmut Steitz della Università tecnologica di Dresda. Il lavoro Minimum Standards, Fixed Costs and Taxing Autonomy of Subnational Governments può essere richiesto direttamente all’autore poiché in corso di pubblicazione (seitz@tu-dresden.de). Si basa sull’esperienza tedesca, dove i Länder hanno una potestà fiscale molto limitata. Il lavoro ha una parte teorica ed una empirica. La seconda contiene indicazioni tecniche interessanti per la derivazione degli standard (il compito che dove essere affrontato in Italia nei prossimi mesi) e calcola gli effetti distributivi d’autonomia tributaria relativamente ampia, tenendo conto del meccanismo di “equalizzazione fiscale” (per i Länder orientali) messo in funzione in seguito all’unificazione. Contiene anche stime della spesa per gli standards minimi. In Italia – pochi lo sanno – circa cinque anni fa il Dipartimento per la Coesione e le Politiche di sviluppo (trasferito dal Ministero dell’Economia e delle finanze al Ministero dello Sviluppo economico) ha iniziato (in collaborazione con le Regioni) un interessante lavoro d’individuazione quantitativa degli standard di servizi alla collettività. Nelle prime fasi, il lavoro è stato accompagnato da incontri seminariali anche con specialisti provenienti dalle università. Fornisce un tassello importante per dare corpo alle promesse e non cadere nella trappole.Incentivi di mercato – come indicato da Yingyi Qian e Barry Weingast nel loro breve ma magistrale saggio di circa tre lustri fa – e standard di servizi – come proposto da Helmut Steitz – rappresentano le architravi per un federalismo fiscale che sia leva di sviluppo anche per le aree in ritardo.

27 aprile 2010

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