mercoledì 7 aprile 2010

Opera, con “Lulu” la dissoluzione dell’Europa trionfa alla Scala Il Velino 7 aprile

CLT -
Roma, 7 apr (Il Velino) - Torna in Italia, alla Scala di Milano dove resterà in scena fino al 30 aprile, “Lulu” del compositore austriaco Alban Berg (1885-1935). Raramente rappresentata nel nostro Paese (se ne ricorda un’edizione in traduzione ritmica italiana di Fedele D’Amico – dirigeva Bartoletti – a Firenze nel lontano 1985 e una più recente a Palermo), “Lulu” è, come sostiene correttamente Gioacchino Lanza Tomasi in uno suo saggio ormai fuori catalogo, un’“opera sinfonica” che si svolge, sotto il profilo musicale, su due piani d’azione: quello dodecafonico-seriale e quello del recupero di forme strumentali modernizzate della tradizione classica. Si articola su una serie di base (si bemolle, re, mi bemolle, do, fa, mi , fa diesis, le, sol diesis, do diesis, si) dalle quali Berg fa deriva altre forme che vengono associate ai singoli personaggi, come nei leit motive wagneriani che vengono indicati tanto in partitura quanto nella riduzione per canto e pianoforte. Su queste forme lavorò Friedrich Cerha per orchestrare il terzo atto, lasciato incompleto dalla morte di Berg e, per la prima volta, eseguito in una stupenda produzione all’Opéra di Parigi (regia di Chéreau, direzione musicale di Boulez) di cui purtroppo esiste una mediocre registrazione discografica e una ancor più mediocre versione televisiva oggi inclusa tra i gadget che le edicole vendono con i periodici musicali. Al sinfonismo, derivazione wagneriana e del tutto assente nell’opera precedente di Berg, “Wozzeck”, si aggiunge un ritorno al canto operistico nel senso pieno del termine, specialmente nei ruoli della protagonista e di Alwa, dove soprano drammatico di coloratura e tenore lirico ma spinto sono una reminiscenza del gusto del piacere e del peccato (si pensi alla vocalità di Monteverdi e Cavalli o a certi aspetti di quella di Puccini in “Manon Lescaut”). Nella stessa chiave occorre interpretare l’uso dell’”arioso”, della “cavatina”, del “rondò”, del “canone” , dell’”intelaiatura a gabbia” per ensemble a più voci che si fermano alla soglia del “concertato”.

“Lulu” è una partitura senza possibili confronti che riscatta i due drammi di Wedekind d’inizio del Novecento da cui è tratta. Sono drammi prolissi, verbosi e moraleggianti, nonché zeppi di proto psicoanalisi, in cui, secondo le intenzioni dell’autore e le sue indicazioni al regista della prima rappresentazione, la protagonista sarebbe dovuta apparire come una madonna progressivamente distrutta da una società corrotta. Ciò non piacque ai critici che la vedevano invece come animale famelico di sesso e denaro, non per nulla omicida e pronta ad accoppiamenti multipli, anche omosessuali. La “dissoluzione” di Lulu è stato il tema di fondo di una produzione del Metropolitan che lanciata quasi in parallelo con quella Chéreau-Boulez è rimasta in cartellone per diversi anni. Chéreau enfatizzava l’ambiguità esteriore e la “verità interiore” della protagonista (i due “Lieder von Lulu” dove la protagonista dice in modo frammentario ciò che pensa su sé stessa). Nell’edizione fiorentina di 25 anni fa, Squarzina vedeva la protagonista come una grande reagente sociale, una cartina di tornasole grazie a cui si rivela, in termini marxisti, la verità nascosta.

Tutte queste interpretazioni sono utili per decodificare la lettura davvero nuova e moderna in scena alla Scala. Nella complessa trama, che spazia tra Germania, Francia e Gran Bretagna degli anni Trenta, Lulu, pur restando interiormente innocente, è una divoratrice di uomini (e pure di donne) e anche assassina. Non è una “reagente sociale” ma, con la propria ambiguità, rispecchia una società, quella del Vecchio Continente, al collasso finanziario, politico e morale. Nel contesto di questo collasso non può che muovere i primi passi in un circo (dove è una starlette), ascendere ai piani alti della società e finire, dopo varie peripezie, nelle mani di Jack lo squartatore. Lo spettacolo arriva a Milano rodato e sulla scia del successo raccolto in Francia e in Austria. La regia di Peter Stein, le scene di Ferdinand Wögerbauer e i costumi Moidele Bickel riproducono fedelmente il clima dell’epoca e, pur seguendo pedissequamente le indicazioni di Berg e della sua vedova, regala quattro ore, intervalli compresi, di teatro in musica modernissimo e di grande livello. Di rilievo la direzione artistica di Daniele Gatti: l’orchestra della Scala vince la sfida di coniugare dodecafonia con sinfonismo e con richiami a forme musicali “chiuse” anche antiche, senza mai sovrastare le voci e permettendo, a chi conosce il tedesco, di apprezzare ogni sfumatura del testo.

Nel cast – 15 solisti per oltre 30 ruoli- spicca Laura Aikin giudicata dai critici viennesi come la migliore Lulu vista e ascoltata da anni. Il soprano americano, che vive nei pressi di Milano, è seducente tanto quanto lo era quando negli anni Novanta sorprese il pubblico del Maggio Fiorentino con la sua interpretazione di Zerbinetta in “Ariadne auf Naxos”, ruolo portato anche alla Scala. La voce si è spessita: ora è un vero soprano drammatico, non lirico, di coloratura e una grande attrice. Questa estate, Patricia Petitbon avrà difficoltà, con la sua coloratura da “soprano soubrette” a reggere il confronto. Molto buona Natasha Petrinky (la contessa lesbica). Tra i vari “uomini” di Lulu , meritano un elogio il tenore lirico Roman Sadnik e il tenore spinto Thomas Pifka; diseguale il baritono Stephen West. Una lode alla carriera per Franz Mazura che, a 85 anni suonati, affronta efficacemente il doppio ruolo del mendicante Schigolch e di un clown (nel Prologo al circo).

(Hans Sachs) 7 apr 2010 11:36



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