mercoledì 11 novembre 2009

TOBIN MI PRECISO’ “CON QUELLA TASSA IO NON C’ENTRO NULLA” Il Velino dell'11 novembre

Probabilmente James B. Tobin si sta rivoltando nella tomba dove giace dal marzo 2002 in quanto la tassa sui movimenti di capitale a breve, a cui è associato il suo nome, sta ricominciando a fare parlare di se all’interno del G20 e pare avere sedotto anche autorevoli uomini d Governo all’interno del più ristretto G7. In più occasioni, James B. Tobin, consigliere economico di John F. Kennedy (quando quest’ultimo era inquilino della Casa Bianca) definì i limiti dell’imposta da lui delineata in un libro del 1972, quando il sistema monetario di Bretton Woods era crollato e non si intravedeva ancora come avrebbero funzionato cambi e monete nel futuro. Ad esempio, alla conferenza annuale sullo sviluppo economico tenuta a Washington nell’aprile 1998, nel bel mezzo cioè della “crisi asiatica”, Tobin , che era uno dei relatori introduttivi, precisò che la proposta del 1972 aveva l’obiettivo di non di contenere una vagamente definita “speculazione” ma di frenare movimenti di capitale a breve che, in carenza dei meccanismi di Bretton Woods, avrebbero potuto causare fluttuazioni troppo forte del mercato dei cambi (pp.63-76 degli atti della conferenza). Precisò , poi, che , contrariamente alla vulgata dell’epoca (diventata ancora più forte oggi), non si sarebbe trattato di una tassa internazionale ma di misura che avrebbero potuto prendere unilateralmente i singoli Paesi che si sentivano minacciati dai flussi e dai deflussi di capitali a breve. Aggiunse che sotto il profilo della gestione amministrativa sarebbe stata “poco efficace”. Tornò sul tema un paio di volte su “The Financial Times”, sempre nel periodo della crisi asiatica, dove affermò esplicitamente che “non ripudiava la sua proposta del 1972 ma l’interpretazione distorta che se ne era data”.
Non ne parlò affatto nella sua autobiografia, scritta al’inizio degli Anni 80 in occasione del conferimento del Premio Nobel all’Accademia Reale delle Scienze svedese nel 1981.
Nell’autobiografia, Tobin ricorda come la “letio magistralis” che presentò, in occasione del conferimento del Nobel, contiene una sintesi del suo lavoro per dare maggiore coerenza al nesso tra macro-economia keynesiana e teoria della moneta. In effetti, è in questo campo che ha dato il maggior contributo. Nato all’inizio del secolo scorso, a Champagne nell’Illinois (nelle regioni più rurali quindi della “middle America” del MidWest), James B. Tobin è vissuto quasi tutta la vita nel New England (all’università di Yale), lontano quindi dalla Washington-che-può, dai corridoi dove si fa politica economica e si incide sulle grandi scelte pubbliche. Aveva avuto un ruolo pubblico unicamente all’inizio degli Anni 60 nella veste di componente del Comitato dei Consiglieri Economici della Casa Bianca. L’“Economic Report” del Comitato pubblicato nel 1962 aveva tracciato quella che sarebbe stata la “new economics” neo-keynesiana; con la sua enfasi sulle manovre di finanza pubblica, sul “bilancio di piena occupazione” e sulla spesa pubblica in conto capitale, essa rappresentava un approccio eterodosso nei confronti del pensiero prevalente di quegli anni. Con la “new economics” sarebbe anche iniziata una lunga disputa nei confronti della tradizione più strettamente monetaria che proprio in quel periodo trovava la sua roccaforte all’Università di Chicago.
Sempre nella sua auto-biografia, Tobin ricorda il debito intellettuale nei confronti di Henry Okun, morto prematuramente dopo avere scritto alcune opere brevissime e fondamentali su efficienza ed equità e soprattutto, dopo avere conosciuto in prima persona, la Washington della politica economica. Nel solco aperto da Okun, il pensiero di Tobin metteva fine alle dispute tra “fiscalisti” e “monetaristi” che hanno caratterizzato il dibattito sulle strategie economiche a medio termine negli Anni Settanta: trovava il punto di convergenza dimostrando la complementarità dell’utilizzazione dei due strumenti (finanza pubblica e moneta) specialmente per le politiche che gli economisti chiamano “anti-cicliche”, dirette cioè a pilotare il ciclo economico contro quelle che sembrano essere le sue tendenze naturali di breve e medio termine.
Il suo pensiero ha in questo senso influenzato anche la politica economica italiana. Ricordiamo, ad esempio, le “relazioni previsionali e programmatiche” e le leggi di bilancio italiane del 1982 e del 1983, mirate a potenziare la spesa in conto capitale in una fase in cui la politica monetaria doveva restare restrittiva (per impedire ulteriori slittamenti del cambio della lira) e la spesa di parte corrente doveva pure essa puntare al contenimento. Un libro di Giorgio La Malfa e Paolo Savona, all’epoca rispettivamente Ministro del Bilancio e Segretario alla Programmazione (“L’Italia al bivio: ristagno o sviluppo” Laterza, 1985), sostiene esplicitamente come il maestro intellettuale dell’intera strategia fosse stato Tobin. Oggi i temi del dibattito economico sono differenti: riguardano soprattutto il funzionamento dei mercati, le conoscenze, le informazioni e lo sviluppo delle istituzioni e delle regole.
Nella sua autobiografia, non ritiene la “Tobin Tax” neanche meritevole di un solo rigo. Mentre quasi il 25% delle pagine è dedicato a sua moglie, Betty.

Nessun commento: