martedì 10 novembre 2009

“La Piccola Volpe Astuta” incanta Firenze Il Velino 10 novembre

CLT - Opera, “La Piccola Volpe Astuta” incanta Firenze

Opera, “La Piccola Volpe Astuta” incanta Firenze
Roma, 10 nov (Velino) - Agli italiani non piacciono le favole. Solamente Pinocchio di Collodi fa parte del nostro Dna. Per questo motivo, il meraviglioso teatro di Gozzi venne soppiantato da quello, borghese, di Goldoni. Sempre per questa ragione, quando nel Settecento e nell’Ottocento, nel resto d’Europa furoreggiava il teatro in musica del fantastico, l’Italia restò assente dal movimento. Nel Novecento, un tentativo venne fatto da Pietro Mascagni (“Le Maschere”): fu un insuccesso senza attenuanti. Ebbe buon esito Ferruccio Busoni (“Arlecchino”, “Turandot”) ma scriveva e componeva per il pubblico di Berlino, dove aveva scelto la propria residenza. Né successo né insuccesso per le tre operine di Malipiero, le quali però soltanto per metà erano favole: riprese alcuni anni orsono a La Fenice sono state poco gradite dal pubblico. Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino porta quest’anno due delle maggiori favole in musica del Novecento: “La Piccola Volpe Astuta” di Leos Janacek, co-prodotta con il giapponese Saito Kinen Festival, in scena fino al 15 novembre e “La donna senz’ombra” di Richard Strauss, dal 29 aprile all’8 maggio 2010. Una scelta coraggiosa perché si tratta di lavori di altissimo livello, ma raramente rappresentati in Italia. Alla prima della “Volpe”, l’8 novembre, il teatro era pieno e l’opera ha ricevuto acclamazioni da stadio. Le repliche ci diranno se gli italiani abbiano cominciato ad amare le favole, anche perché di questi tempi la realtà supera il fantastico.

Il ceco Janacek (1854-1928) è stato un borghese che ha passato la propria vita in una città di medie dimensioni della Moravia, tutto “casa e famiglia” sino a 63 anni quando si innamorò di una bella venticinquenne, e che alla fine della Prima guerra mondiale ha visto realizzato il suo sogno dell’indipendenza della Cecoslovacchia. Per tutta la vita, da intellettuale che guardava più alla cultura russa che a quella tedesca, aveva sofferto il perbenismo dei borghesi piccoli-piccoli della città in cui abitava. Decise quindi di prendere spunto dai fumetti popolari di un giornale vagamente di sinistra, per mettere alla berlina in modo graffiante il maestro di scuola saccente, il curato pedante, il guardiacaccia mal coniugato e sua moglie, il venditore ambulante avido, il barista e tutti gli altri che lo circondavano e non capivano nulla della sua vita. Come? Contrapponendo il loro piccolo mondo ipocrita con quello degli animali del poco lontano bosco. Si era attorno al 1920, più o meno nel periodo in cui Walt Disney inventava Topolino e gettava le basi per quella che sarebbe stata una delle maggiori multinazionali dell’entertainment “formato famiglia”. Sul Lidové Noviny (Quotidiano del Popolo) di Brnó, capoluogo della Moravia nella giovane repubblica cecoslovacca, appariva ogni giorno una puntata di un romanzo sterminato di Rudolf Tésnohlidek, cronista giudiziario dai sentimenti vagamente anarchici, orientato verso l’avanguardia e caratterizzato da poca simpatia per la burocrazia e la magistratura, specie se giustizialista.

Mentre i fumetti di Disney erano antropomorfici e seguivano habits and mores dalla middle class americana, le strisce disegnate di Tésnohlidek giustapponevano il modo ipocrita degli uomini (il curato, il maestro e il guardiacaccia si ubriacano ogni sera e il venditore ambulante ha il fucile facile) con quello libero e sensuale del bosco. Dove la regola più profonda ,e la più irritante per i borghesi piccoli-piccoli è l’amore che con la sua fisicità è l’eterna molla del rinnovamento. Mentre nei fumetti di Tésnohlide, la “Piccola Volpe” non muore, nell’opera viene uccisa dal guardiacaccia a metà del terzo atto ma pare risorgere nel finale: la natura si rigenera sempre. Una favola quindi piena di ottimismo. Dalla prima in Moravia nel 1924 dovettero passare più di trent’anni perché approdasse, dopo un po’ di girovagare per palcoscenici della “mittle-Europa” senza essere notata più di tanto in teatri importanti, nel 1957 alla Komische Oper di Berlino, in quella che era ancora la Germania Est. Lì il contrasto tra bosco e ipocrisia burocratica suonarono ancora più beffardi.

Come sottolinea Franco Pulcini (il maggiore studioso italiano di Janacek) la scrittura orchestrale è un magico equilibrio tra il melodismo nostalgico slavo e il sinfonismo pagano di Richard Strauss, con influenze di Debussy (del quale Janacek conosceva bene sia “La Mer” sia “Pelléas” ) sull’orchestrazione. Massimo Mila ha parlato di “un ininterrotto mormorio della foresta”, inafferrabile e inclassificabile, nutrito di ingredienti anche diversi da quelli del sinfonismo di Strauss, e provvisto di temi di assoluta originalità, nonché di delicatezza impressionistica e di calligrafismo sonoro da “Ravel campagnolo”. Ancora più interessante la scrittura vocale in cui note e parole si plasmano a vicenda le une sulle altre. Un equilibrio che si può afferrare, con l’ausilio dei sovrattitoli, unicamente se, come a Firenze, lo spettacolo è in lingua originale. Laurent Pelly ci aveva deluso con la “Traviata” ambientata interamente in un cimitero parigino vista al Regio di Torino in provenienza dal Festival di Santa Fe. La sua regia e i suoi favolosi costumi (le scene sono di Barbara de Limburg Stirum) ci mostrano squarci di bosco e di villaggio in un’atmosfera tra il realistico e il poetico, ossia una lettura “visionaria” nel significato letterale del termine. Un “visionario” curatissimo e sempre molto elegante.

Il direttore Seiji Ozawa concerta con maestria l’orchestra del Maggio Musicale. Ha 75 anni e percepisce “La Piccola Volpe Astuta” così come, a 70 anni, la sentiva Janacek. Il quale richiese che il finale dell’opera, l’eterna rigenerazione della natura, venisse eseguito alle sue esequie in luogo della consueta marcia funebre. Bravissimi i 13 solisti (molti in più di un ruolo), il coro di voci bianche, i ballerini e i mimi dell’affollatissimo bosco. Su tutti emergono la protagonista, Isabel Bayrakdarian e il guardiacaccia, Quinn Kelsey a cui Janacek affida, alla fine dell’opera, le proprie riflessioni sulle vecchiaia.

(Hans Sachs) 10 nov 2009 09:58

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