sabato 3 ottobre 2009

Opera, le novità dell’edizione romana di “Pelléas et Mélisande Il Velino 2 olttobre

CLT - Opera, le novità dell’edizione romana di “Pelléas et Mélisande”


Roma, 2 ott (Velino) - Torna a Roma, a 25 anni dall’ultima serie di rappresentazioni nella Capitale (allora in un’edizione noleggiata dal Festival dei Due Mondi di Spoleto) e a un secolo di distanza dalla prima rappresentazione italiana, uno dei capolavori assoluti del teatro musicale: il dramma in cinque atti e dodici quadri “Pelléas et Mélisande” di Claude Debussy. Il lavoro, che debuttò a Parigi nel 1902 alla Opéra Comique dopo dieci anni di faticose trattative con l’autore del testo in prosa (il simbolista belga Maurice Maeterlinck) e ancora più laboriosa composizione, divenne presto – ricorda Luigi Bellingardi nel saggio che accompagna l’edizione discografica diretta da Claudio Abbado – l’emblema del “nuovo” (l’intuizionismo di Bergson, l’estetica di Baudelaire, Verlaine e Mallarmè) rispetto al “vecchio” (la magniloquente drammaturgia in musica wagneriana). Eppure il lirismo misterioso, morbido e indefinito di “Pelléas et Mélisande” è la continuazione più diretta dell’estetica e della poetica di Wagner e si contrappone nettamente al “verismo” che, proprio in quegli anni, stava prendendo piede: l’onere musicale è affidato all’orchestra che deve supportare voci in grado di fare comprendere ciascuna parola, in prosa anche se in un francese arcaico. Le dodici scene sono brevi e spetta all’orchestra portare lo spettatore da un ambiente all’altro e da un clima psicologico all’altro.

L’edizione romana, in scena sino al 9 ottobre al Teatro dell’Opera che la co-produce con il Théâtre Royale de la Monnaie di Bruxelles, dove ha debuttato con successo la scorsa stagione e tornerà, ormai in repertorio, la prossima, è per molti aspetti una novità. Innanzitutto, è una delle rare occasioni – la prima in Italia – di ascoltare il lavoro come lo concepì Debussy, ossia senza gli interludi aggiunti su richiesta dell’Opéra Comique di Parigi per facilitare i numerosi cambi-scena in un lavoro che comporta cinque atti e dodici quadri. Sono interludi molto belli ma rallentano l’azione e danno proporzioni davvero wagneriane al lavoro: oltre due ore e quarantacinque minuti di musica. Nell’ultima edizione presentata alla Scala, nonostante ci fosse un unico intervallo, la serata sfiorava le quattro ore. L’eliminare dei cambi-scena e, quindi, degli interludi, è stata possibile - ed è questa la seconda novità- puntando su una scena unica di grande suggestione affidata a uno dei maggiori scultori contemporanei: l’indiano Anish Kapoor. E’ una scultura astratta che gira su se stessa, si chiude e si apre. Secondo alcuni è l’occhio che segue la trama, secondo altri un utero (quello di Mélisande) dato il carattere fortemente erotico dell’intreccio. Kapoor non ha mai spiegato di cosa si tratti. In questa struttura e nella lunga scala che porta in cima ad essa, il regista Pierre Audi dà al dipanarsi dell’intreccio un andamento da thriller, come inteso dall’autore. I costumi atemporali di Patrick Kinmonth lo slegano da collocazioni storiche e geografiche precise e gli danno un carattere universale.

Questi i punti chiave della trama. In un opaco Medioevo bretone, il principe Golaud, vedovo ancor giovane, incontra in una foresta la giovanissima Mélisande, la sposa e la porta al castello dove vive anche il fratellastro adolescente Pelléas. Nella noia della tetra magione, tra la fanciulla e il ragazzo inizia un gioco che si trasforma prima in scoperta erotica, poi in passione e infine in amore. Sino al tragico finale in cui un fratello uccide l’altro e anche la fanciulla perisce, dopo avere dato alla luce una bambina. Maeterlinck, autore del dramma, è stato il caposcuola del simbolismo: la bambina e “l’anima umana che ama andarsene da sola” (le ultime parole di Mélisande) rappresentano la speranza pure in un mondo tetro come quello di Golaud e Pelléas . Più importante della vicenda, in cui tutto è detto “a metà”, è l’atmosfera: palazzi opprimenti, foreste dense e scure, canali brumosi, grotte umide, acque stagnanti, paludi malsane, sotterranei lugubri, saloni in rovina, torri semidistrutte. Solo alla fine, un barlume di speranza. La musica si articola in circa 16 raffinati liet-motive (chiara derivazione dalla lezione di Wagner) che si incrociano in vari modi nella complessa partitura.

Nel lavoro allestito al Teatro dell’Opera sono eliminate sia il Medioevo preraffaellita delle regie e scenografie tradizionali, viste a Roma 25 anni fa, sia la trasposizione a inizio Novecento, quando Maeterlinck e Debussy concepirono il lavoro, dell’edizione con interludi presentata quattro anni fa alla Scala. La direzione musicale di Gianluigi Gelmetti è marcatamente differente di quella di Georges Pretre che nel 2005 affascinò il teatro milanese: stringe i tempi, come nell’edizione discografica in cui la direzione musicale è affidata a Pierre Boulez, invece di dilatarli. Si alternano due cast di livello, anche perché i cantanti italiani devono pronunciare perfettamente il francese per far comprendere ogni parola. Spiccano su tutti Monica Bacelli, Jean-François Lapointe e l’inossidabile Jean-Philippe Lafont. In breve: uno spettacolo non solo da vedere per la scultura di Kapoor, ma soprattutto da assaporare.

(Hans Sachs) 2 ott 2009 09:52

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