venerdì 9 ottobre 2009

anche a Firenze c’è un Festival Verdi Il Velino 9 ottobre

Musica, anche a Firenze c’è un Festival Verdi


Roma, 9 ott (Velino) - Quasi in parallelo con il più noto Festival Verdi di Parma, fino al 16 ottobre al Teatro Comunale di Firenze è in corso un contro-festival dedicato al Maestro di Busseto. Le tre opere “popolari” (“Rigoletto”, “Trovatore”, “Traviata”) presentate in repertorio, si possono vedere tutte in tre giorni. Affidate a unico regista, Franco Ripa di Meana, noto per allestimenti a basso costo ma densi di idee, affiancato come sempre da Edoardo Sanchi per le scene, Silvia Aymonimo e Guido Levi per le luci, il contro-festival schiera tre maestri concertatori di rango (Stefano Ranzani, Massimo Zanetti, Andrea Callegari), un cast internazionale di livello (Alberto Gazale, Desirée Rancatore, Stuart Neill, Kristine Lewis, Andrea Rost, Franco Vassallo, Saimur Pirgu) e prezzi popolari (dai 50 ai 20 euro). Infine, il colpo basso: l’intera intrapresa viene portata a Reggio Emilia, in terra verdiana, nell’elegante Teatro Romolo Valli. Ove ciò non bastasse, il costo dell’intera operazione è di 900 mila euro di cui 600 mila recuperati al botteghino, ossia ben due terzi rispetto a un media del 10 per cento per i teatri al chiuso italiani. Le tre opere sono intese da Ripa di Meana come un unico spettacolo di teatro in musica in tre parti: la fantasmagoria nera (“Rigoletto”), la favola tragica in blu e rosso (“Il Trovatore”) e un sogno floreale (“Traviata”).

Nella “trilogia popolare” di Verdi, “Rigoletto” è l’opera che più incarna i canoni del melodramma italiano della seconda metà dell’Ottocento. Supera i “numeri chiusi” con declamati, ariosi e concertati (il terzo atto non è divisibile in “numeri”); ha un flusso orchestrale continuo al cangiare delle atmosfere (il secondo quadro del primo atto); e, soprattutto, ha personaggi con psicologie scavate a fondo, al cui confronto Manrico, Leonora e il Conte di Luna de “Il Trovatore” di un anno e mezzo dopo sono manichini vivi grazie solo alla vocalità. Rigoletto è il grande reietto del melodramma verdiano: sfigurato nel corpo, con un’anima sincera e una seconda vita nascosta, anticipa il protagonista di un capolavoro assoluto della musica del Novecento, il Der Zwerg (il nano) del “Der Geburstag der Infantin (“Il compleanno dell’Infanta”) di Alexander von Zemlisky.

Nel 2003 il regista Graham Vick presentò proprio a Firenze una co-produzione “trasgressiva” effettuata con il “Real” di Madrid, il “Liceu” di Barcelona e il “Massimo” di Palermo, tracciando un parallelo tra il “gobbo” e il “nano”. C’è, però, una differenza profonda: il “nano” di Zemlisky è intriso di eros dalla prima all’ultima nota dei suoi 90 minuti, mentre “Rigoletto” è espressione del melodramma a-erotico e quasi a-sessuato di gran parte della produzione verdiana. Nello scegliere una crudele novella di Oscar Wilde come ispirazione per l’opera, Zemlisky, lo rileva il suo epistolario, era stato influenzato dalla lettura di “Geschlecht und Charakter” (“Sesso e carattere”) di Georg Klagen e Otto Weinenger, due precursori di Freud. In “Rigoletto”, in meno di sette minuti, il Duca di Mantova corteggia Maddalena, fa l’amore con lei in modo così estenuante da doversi, poi, riposare, dorme, si risveglia e canta “La donna è mobile”. Nulla di più anti-erotico! Verdi avrebbe trovato qualche accento carnale più tardi (nel duetto del secondo atto di “Un ballo in maschera”), ma musicato l’eros solo dopo i 75 anni di età, in “Otello” e “Falstaff”.

L’allestimento di Ripa di Mena è crudele e noir. Le vicenda viene trasferita in un quadro atemporale. Un elemento fisso in scena: un muro mobile che chiude quasi in una prigione sempre più stretta i protagonisti. Pochi altri elementi: la linda casa di Gilda, un’enorme auto d’epoca che funge anche da lupanare, una chiatta sulle acque nere del Mincio. Grande enfasi sulla recitazione. Ne risulta una tragedia senza un barlume di speranza neanche nel “Caro nome” e nel duettino d’amore del primo atto o nel “Parmi veder le lacrime” del secondo. Quasi per analogia, era molto trasgressivo il “Rigoletto” messo in scena da Ljubimov a Firenze nel 1984 con i protagonisti e l’intera corte in un mondo di bambole, mentre poco trasgressivo quello allestito, sempre in riva all’Arno, da Cobelli nel 1989 con grande sfoggio di donne nude e giovanotti discinti nella festa della prima scena trasformata in improbabile orgia. Non mancano prostitute – oggi si dice escort- nello stesso quadro visto da Ripa di Meana, ma non c’è segno di ordalia.

La concertazione di Stefano Ranzani si accorda a pieno con questa lettura del melodramma. Cupamente enfatizza i bemolle (i “do” e i “re”), accentua i contrasti tra i clarinetti e i fagotti. Nel ruolo di Rigoletto ha svettato Alberto Gazale; Desirée Rancatore è una Gilda dolcissima che plasma “Caro nome” di coloratura quasi belliniana. La sera della prima, Gianluca Terranova è corso a sostituire l’influenzato James Valenti: valente e generoso, non difetta di volume e di acuti ma a volte si “ingola”. Apprezzabile il suo “sì naturale” molto delicato. Uno spettacolo comunque da ricordare. Anche perché, nonostante qualche dissenso finale nei confronti della regia, il pubblico (il teatro era strapieno anche di giovani) ha risposto con entusiasmo e ha preteso il “bis” del finale del secondo atto (“Sì, vendetta, tremenda vendetta”).

La sera successiva, il “Comunale” era pienissimo (ancora una volta molti giovani) per “Il Trovatore”. Questa è la prima opera di Verdi che non nasce in seguito a una commissione di un teatro o di impresario, ma dalla sua volontà di tradurre per il teatro in musica il romanzo di Gutierrez (autore che ispirò anche “Simon Boccanegra”). Lo sottolinea acutamente il musicologo francese Jacques Bourgois in una massiccia biografia del compositore, introvabile in Italia. Fu poi proprio Verdi che insistette perché l’opera venisse accettata dal Teatro Apollo a Tor di Nona di Roma. Una vera e propria provocazione. La censura papalina, ottusa come tutte le burocrazie, non si accorse di ciò che bolliva in pentola. Ho ritrovato una lettera di Verdi inviata da Parigi il 14 luglio 1849 (pochi giorni dopo la fine della Repubblica mazziniana) a Vincenzo Luccardi in cui Verdi parla della “catastrofe di Roma”. Portare nella capitale dello Stato Pontificio, il 19 gennaio 1853, una fosca vicenda di amore, guerra e morte in un’incredibile Spagna medioevale voleva dire parlare di rivoluzione e risorgimento a coloro che per la Repubblica Romana avevano combattuto e sofferto.

Sotto questo aspetto, dopo avere messo a nudo la politica in “Luisa Miller” e spogliato il potere con “Rigoletto”, Verdi andava dritto al cuore del movimento di unità nazionale del Risorgimento, pur utilizzando un apologo su un’astrusa vicenda di scambi di infanti in fasce, stregoneria, duelli tra fratelli. Un po’ come aveva fatto, in Francia, Victor Hugo con “Hernani”. Per questo motivo ha ragione il musicologo Carlo Casini nel dire che “Il Trovatore” è “una chiave di volta tra le opere di Verdi”. Casini ne sottolinea “l’eccesso di rilievo sottolineato alla musica”, a differenza di Massimo Mila che ne vede “alti e bassi sconcertanti”. A mio avviso, non è solo una chiave di volta musicale (senza aver in testa “Il Trovatore”, Verdi non avrebbe dato a “Rigoletto” , commissionatogli da La Fenice , l’impianto musicale che ha avuto) ma anche nel ruolo politico di Verdi nel movimento di unità nazionale. Non per nulla “Il Trovatore” apre la porta a “Les Vepres Siciliens”, opera chiaramente e decisamente patriottica.

Una notazione. Il carattere rivoluzionario e risorgimentale de “Il Trovatore” richiede anche una lettura musicale differente da quella, “belcantistica”, spesso presente nei teatri italiani nella malintesa interpretazione dell’opera come un momento di passaggio dal melodramma donizettiano a quello della maturità verdiana. A Firenze, il team drammaturgico ha impostato la tragedia tutto in un interno, come fecero Pizzi e Ronconi per il “Ring” fiorentino del 1978-80: un salone d’inizio Novecento dalle pareti blu, dove vengono collocati elementi scenici come il fuoco e la fiamma. L’ambientazione è atemporale: il Conte e Manico sono in costumi medioevali, altri personaggi, invece, in abiti del secolo scorso o di fine Ottocento. Ciò accentua la “tinta” dell’opera, per utilizzare il lessico di Gianandrea Gavazzeni, e mette in rilievo una tragedia di passioni, in cui tuttavia solamente Azucena ha un effettivo sviluppo psicologico (gli altri sono poco più che stereotipi), ma è parsa lettura troppo moderna per parte del pubblico. Massimo Zanetti ha concertato con cura. Ottime tutte le voci, su cui ha spiccato la giovane americana Kristin Lewis, un vero soprano assoluto capace di ascendere agevolmente ad acuti e superacuti e discendervi agevolmente, di calare a tonalità gravi e di sfoggiare una coloratura smagliante. È stata la vera protagonista della serata, nonostante il livello di Juan Jesùs Rodrìguez, Anna Smirnova e Stuart Neill, che non ha esibito l’atteso lungo “do” in “Di quella pira”.

(Hans Sachs) 9 ott

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