lunedì 7 settembre 2009

Se si vuole salvare la liberalizzazione del commercio Ffwebmagazine 8 settembre

Mentre il G8 dell’Aquila e il recentissimo G20 di Londra lanciano appelli contro il protezionismo e a favore di una conclusione spedita ed efficace della Doha development agenda (Dda), il negoziato multilaterale sugli scambi in corso dal Novembre 2001 in seno all’Organizzazione mondiale del commercio, l’accordo firmato in questi giorni tra India e la Repubblica di Corea porta a 167 la rete di intese commerciali bilaterali (rispetto alle 41 in vigore nel 2001) e, secondo molte voci, pone a repentaglio la macchina multilaterale dell’ all’Organizzazione mondiale del commercio.Cerchiamo di analizzare il problema con il distacco necessario per giungere a proposte concrete e dirette alla liberalizzazione degli scambi, senza essere viziate da pregiudizi legati a ideologie che ormai appartengono al passato, convinti che la macchina negoziale costruita nel 1948 per 23 parti contraenti non sia affatto adatta a un’organizzazione che ha circa 153 Stati membri, che a loro volta, si raggruppano in vari sottogruppi (il G77, il G33, il G20) con interessi simili ma non identici. Nel contempo la sala dei negoziati (la Green Room ) contiene, fisicamente, non più di 40 ministri, dando luogo a problemi di protocollo (e di permalosità) di ogni genere. Negli anni ’60, l’accordo che diede un risultato positivo al Kennedy Round venne definito tra una dozzina di persone nello studio dell’allora direttore generale, Sir Wyndham White, un amabile e astuto avvocato britannico, al termine di una lunga notte in cui ci si sosteneva a base di brandy & soda. Un approccio impensabile adesso, con oltre duemila delegati al seguito, oltre che interessi divergenti anche all’ interno di gruppi relativamente omogenei come l’Ue. È essenziale , quindi, ripensare la macchina negoziale.

Proposte non mancano. Tra le tante merita particolare attenzione quella redatta congiuntamente dal Kiel Institute for World Economy, un centro di ricerche tedesco, e il Center for Economic Policy Resarch, un centro studi americano. Prevede negoziati brevi e concentrati soltanto su alcuni temi ben definiti, differenti da quelli attuali sia in durata – oggi durano 6-10 anni superando, quindi, i cicli politici – sia in scopo – oggi cercano di abbracciare tutti i problemi degli scambi mondiali. Mentre si ripensa la macchina negoziale, può essere utile muoversi su due strade parallele, poiché ciò eviterebbe il pericolo su cui si è soffermato di recente Renato Ruggiero, primo direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio, della frammentazione del commercio mondiale a ragione del proliferare di accordi preferenziali bilaterali. La prima strada è quella di incoraggiare i grandi mercati comuni e le grandi zone di libero scambio: non solamente superano il bilateralismo preferenziale, ma sono un percorso verso un commercio più libero. Uno studio di Richard Baldwin e Elena Segheza, sulla base di un milione di osservazioni statistiche in 23 paesi o gruppi di paesi (come la Ue), dimostra che il regionalismo può favorire la riduzione non discriminatoria delle restrizioni agli scambi. Su linee analoghe, uno studio di Lionel Fontagne e Soledad Zignago pubblicato sul periodico Economia Internationale. Da un esame quantitativo dell’esperienza di 100 paesi nel periodo 1996-2000, lo studio conclude che l’Unione europea, il Nafta e l’Asean hanno avuto un impatto positivo sulla creazione generale di commercio, anche se inferiore a quanto vantato in dichiarazioni, per lo più politiche, di questi ultimi anni. La seconda strada è quella di negoziati non multilaterali ma tra gruppi di paesi e su temi specifici al fine di liberalizzare il commercio mondiale e dare, al tempo stesso, un corpo di regole forti agli scambi di beni e servizi. La Dda è stata mostrata sulla stampa come una trattativa Nord-Sud. Spiace che giornalisti di stanza a Ginevra incorrano in tale macro-errore. I nodi del commercio mondiale e del negoziato sono essenzialmente Sud-Sud e possono essere risolti unicamente in trattative Sud-Sud. Dietro il paravento giornalistico della “Cinindia” c’è lo scontro quotidiano tra India e Cina, la prima alla ricerca di protezione da importazioni a go-go dalla seconda, e tra Cina e America Latina, poiché Pechino teme di essere invasa di prodotti agricoli di provenienza brasiliana. Questi sono i problemi più difficili all’inizio del XXI secolo: occorre smettere di pensare al commercio mondiale come si fosse ancora al Washington Hotel in quel di Bretton Woods, New Hampshire, nel luglio 1944. Il mondo è cambiato. Drasticamente. In questo contesto, è essenziale portare i servizi, di cui l’India è grande esportatrice, al centro dei prossimi negoziati: è il maggiore incentivo a una partecipazione costruttiva di New Delhi al processo di liberalizzazione.

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